mercoledì 31 ottobre 2007

Politica, democrazia e conquista del potere

di Stefano Racheli
(Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Roma)

A chiedersi se ci sia qualcosa di meglio della democrazia, la risposta è nota: la democrazia è il minore tra i mali; non è tutta d’oro, ma non si è trovato nulla di meglio; è il frutto imperfetto dell’imperfettissima natura umana, e via dicendo.

Una risposta che - diciamolo – pesta acqua nel mortaio e non fa fare un passo avanti.

Propongo quindi un quesito diverso: c’è qualcosa che ha inceppato, nel suo cammino, il procedere della democrazia? A mio avviso, sì qualcosa c’è, è sotto gli occhi di tutti ed è rimediabile.

E’ infatti accaduto che - nata la democrazia come forma antagonista del potere assoluto e autoritario – le istanze e preoccupazioni “democratiche” abbiano avuto ad oggetto soprattutto la risposta a due quesiti di fondo: chi debba detenere il potere e in quali forme esso possa acquistarsi e debba esercitarsi.

Rimanevano - come dire? – defilati due interrogativi di pari (di maggiore?) importanza: può la democrazia sopravvivere all’assenza di una cultura diffusa che le sia omogenea? Ma - soprattutto e paradossalmente – corrisponde a verità il fatto che la democrazia sia a rischio a causa del sistema da lei stessa “inventato” per la conquista del potere?

Detto in altri termini, la “caccia al voto”, le manipolazioni della pubblica opinione, le menzogne sistematicamente poste a fondamento della “ragion di Stato” (di questo o quello schieramento), la sovranità dei sondaggi, quali strumenti per la conquista “democratica” del potere, non sono la tomba della democrazia?

C’è insomma il fondato sospetto che la conquista del consenso - strada obbligata in democrazia per la conquista del potere – finisca per ottundere (e talora per uccidere) proprio quella democrazia che si vuol supportare.

Certo, nel mondo della luna possono ipotizzarsi schieramenti che non mentano, che non manipolino, che chiamino le cose col nome e col cognome, e via discorrendo. Nel mondo della luna, appunto, ma qui tra noi le cose vanno diversamente: posto il fine, è inevitabile che molti scelgano i mezzi in base solo alla loro efficacia e senza andare troppo per il sottile.

Non c’è dunque via di uscita?

Penso che un rimedio serio sia quello in cui il rafforzamento della democrazia, la credibilità delle promesse e delle persone non si fondi tanto (o almeno non solo) sul corretto esercizio del potere, ma su un’attività politica che rinunzi alla conquista del potere, così affrancandosi dai mille, obbligatori adempimenti cui deve bruciare incenso colui che il potere deve conquistare.

E’ infatti evidente che non possa abolirsi né l’esercizio del potere (e dunque la sua conquista), necessario in ogni tipo di società, né la ricerca del consenso.

Può però evitarsi che tutta la politica si riduca a conquista ed esercizio del potere.

Tanto più sarà ragionevole sperare nel corretto esercizio del potere quanto più ci sia una forte azione politica (non dunque un’azione meramente culturale o moralizzante) che bilanci le tendenze “devianti” di chi cerca la conquista del potere.

L’astensione che auspichiamo - oltre che essere un forte grido di protesta – intende essere proprio questo: un’attività squisitamente politica diretta a rimuovere quelle ideologie (nel senso proprio di maschere indossate dal potere reale) che, utilizzate dal Potere, finiscono per dar vita alle derive di regime.

Siffatte attività politiche (l’astensionismo è solo una delle tante attività ipotizzabili), rappresentando una forma atipica di opposizione (quella tipica è rappresentata da chi esercita il potere nei modi proprio delle minoranze), mutua dell’opposizione il ruolo, la dignità, la fondamentalità.

L’opposizione-senza-potere risulta per il Potere assai più molesta degli avversari che si pongono come pretendenti al Potere. Non a caso siamo stati indicati, con malcelato e esplicito disprezzo (a mio avviso del tutto cieco), come “astensionisti”, “blogghisti” e quant’altro: la nostra natura infatti ci rende disomogenei rispetto alle logiche che regolano i rapporti tra coloro che aspirano al potere.

Noi, a rigore, non siamo neppure un avversario, visto che non concorriamo per conquistare potere: siamo, a ben vedere un ideale e un’idea con cui è necessario confrontarsi (come è noto gli ideali e le idee sono ostacoli ben più ostici di qualunque propaganda o slogan).

Auspichiamo dunque che in tanti possano sentire il richiamo – nobile e politico a tutto tondo – verso un ruolo fondamentale: l’opposizione senza potere.

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martedì 30 ottobre 2007

Una intervista del sen. Salvi sui rapporti fra politica e giustizia


Proponiamo una intervista al senatore Cesare Salvi,tratta da “Il Giornale” di oggi 30 ottobre 2007.

Non la proponiamo perché condividiamo tutto quanto detto dal sen. Salvi, ma per l’importanza di una riflessione critica, seppure per ovvie ragioni prudente (provenendo da un “compagno di partito” dei “criticati”), alla situazione creatasi nei rapporti fra politica e giustizia.

Per avere la misura della gravità della situazione, può essere utile ricordare che l’altroieri, sul punto, Lucia Annunziata ha chiesto opportunamente a Luciano Violante:
“Ma insomma lei dopo tanti anni di esperienza pensa che sia la vicenda di Berlusconi sia la vicenda di questi nuovi giudici che hanno percorsi molto più frammentati e complicati dei vostri non porti a ripensare un po’ a quella che è stata tutta l’impostazione politica del centro sinistra o della sinistra sulla questione giustizia. Lei non ha nessuna autocritica da fare su tutto questo?”

La risposta è stata testualmente la seguente:
“Guardi, l’autocritica è un meccanismo con il quale nei sistemi comunisti si obbediva al capo”.

Detto da Luciano Violante.

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di Roberto Reafuri
(Giornalista)


Salvi: «La Quercia cerca scorciatoie: due pesi e due misure sulla giustizia»

«Se Berlusconi avesse agito così ci sarebbe stata una forte protesta. I DS imparino da Andreotti, ci si difende “nel” processo»


Senatore Cesare Salvi, il gip Forleo denuncia intimidazioni.
«Sarebbe molto grave se così fosse. A maggior ragione per la delicatezza del procedimento di cui si sta occupando. E’ una denuncia che va presa con la massima serietà, accertandone presto la fondatezza».

Non è la sola. Sulle intimidazioni al p.m. calabrese De Magistris, Mastella e Di Pietro si sono scannati. Chi aveva ragione?
«Nessuno dei due, ma su piani diversi. Di Pietro da tempo invade terreni sui quali non ha alcuna competenza, cosa istituzionalmente scorretta e non accettabile».

E di Mastella che cosa pensa?
«Che finora ha fatto complessivamente bene il ministro, e non ho dubbi sulla sua buona fede. Ha commesso però un errore politico a richiedere il trasferimento urgente di un magistrato che, com'era noto, indagava su di lui e su Prodi. Ha attivato un potere discrezionale, dando così l'impressione di volersi sottrarre alla giurisdizione e voler mettere il bavaglio al P.M.».

Un P.M. accusato di parlare un po' troppo, e sempre in tv.
«I magistrati dovrebbero mantenere la massima riservatezza: vale sempre e per tutti i casi. Però li si è visti in questi anni discettare di tutto, e i politici non possono turbarsi soltanto quando parlano di inchieste sui politici».

Non si è ancora sentita la vibrante difesa dell'A.N.M..
«Vero: questa è una novità. Questi magistrati non sono difesi dalla loro associazione. Forse per un ritrovato equilibrio dell'A.N.M., o forse per l'assorbimento dell'A.N.M. nel sistema di potere. Può essere materia di riflessione».

Da presidente della commissione Giustizia: ritiene che sia alle porte una nuova Tangentopoli?
«Tangentopoli fu un dramma, con tante forzature certamente, però sotto c'era un mostruoso sistema di corruzione. Oggi, paradossalmente, il rischio è che sia peggio. Perché non è il politico ladro sotto accusa, ma il politico punto. Come casta di privilegiati. Così si alimenta l'antipolitica, la considerazione che siamo tutti uguali».

Gli elettori di sinistra sono sconcertati.
«Ci credo, con la sinistra si è più esigenti. Guardi, io sono stato molto severo con il mio ex partito, a proposito della vicenda Unipol. Ma ho svolto una critica politica, ritenendo che non ci siano fattispecie di reato, e che certi comportamenti avevano portato il partito ai minimi storici di consenso e credibilità. Però trovo sbagliatissimo dare l'impressione di un potere che fa quadrato per difendersi da eventuali indagini. Mi duole dirlo, ma occorrerebbe trarre insegnamento dal senatore Andreotti: difendersi nel processo e non dal processo. Trovarsi un buon avvocato, difendersi con le unghie e con i denti. Non cercare scorciatoie».

Il quadro che emerge mi pare ancora più inquietante.
«Difficile negarlo. La malagiustizia c'è, si manifesta nei soprusi contro i deboli e gli indifesi. Eppure mai le reazioni dei politici sono così dure come oggi. Se avesse agito così Berlusconi ci sarebbe stata una forte protesta, così com'è stato durante le leggi ad personam».

Due pesi e due misure.
«Due pesi e due misure: fondato pensarlo. Mentre chi deve lavorare nel campo della giustizia dovrebbe poterlo fare con serenità, a cominciare dal C.S..M.».

Il vicepresidente Mancino ha condannato la giustizia show.
«Giusto. Ma vedo anche che Mancino, persona di grande equilibrio, propone una riforma del sistema disciplinare che richiederebbe modifiche costituzionali. Portare la disciplinare fuori dal C.S.M.: ho molti dubbi a mettere mano alla Costituzione in materia di giustizia. Anche perché ogni volta che è stato fatto, sia pure con le migliori intenzioni, si è andato a peggiorare».




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lunedì 29 ottobre 2007

Quando i problemi reali superano l'appartenenza al singolo gruppo

di Tomaso E. Epidendio
(Giudice del Tribunale di Milano)


E’ un dato di fatto che magistrati appartenenti a diverse correnti (o addirittura a nessuna), alcuni dei quali neppure si conoscevano personalmente, si sono trovati concordi nel considerare necessario un segnale forte di protesta, quale l’astensione, per rimarcare il divario che si stava creando tra singoli associati e il modo di operare della politica associativa, denunciando i rischi dell’adozione della logica dell’appartenenza.

Diversi sono i percorsi personali che hanno portato ciascuno a questo passo, nel mio caso i rischi (ancor maggiori) che degenerazioni correntizie avrebbero comportato con i nuovi assetti dell’ordinamento giudiziario.

I pericoli principali derivano a mio avviso da un riconoscimento solo formale dell’indipendenza che, pur nel rispetto delle competenze degli organi di autogoverno (e anzi proprio attraverso un abnorme aumento dei poteri di questi organi sui singoli giudici), finisce per rappresentare ormai un possibile “rischio interno” rispetto alla sottoposizione del giudice alla sola legge, soprattutto attraverso l’eccessiva burocratizzazione dell’attività che finisce per rendere oscure ed incerte le regole da rispettare, ed esporre i singoli giudici a reazioni di fatto incontrollabili.

Anche su uno dei temi più spinosi, quale la valutazione della professionalità, il nuovo art. 11 al comma 2 contiene una disposizione apparentemente tranquillizzante “la valutazione di professionalità ... non può riguardare in nessun caso l’attività di interpretazione di norme di diritto, né quella di valutazione del fatto e delle prove”; però nello stesso comma alla lett. a) si stabilisce che nel valutare la capacità si debba tenere conto dell’“esito degli affari nelle successive fasi e nei gradi del procedimento e del giudizio”, mentre il successivo comma 4 lett. f) prevede che si tenga conto delle “segnalazioni pervenute dal consiglio dell’ordine degli avvocati sempre che si riferiscano ... ai comportamenti che denotino evidente mancanza di ... preparazione giuridica”: tutti questi parametri valutativi implicano giudizi su come è stata interpretata la legge e su come sono stati valutati i fatti e le prove.

L’elasticità e parziale contraddittorietà delle formule usate, che consentono la più ampia discrezionalità e che coinvolgono aspetti di interpretazione della legge, costituiscono perciò un indubbio fattore di rischio, specie in presenza di previsioni radicali sull’avanzamento in carriera quali la dispensa dal servizio stabilita dallo stesso art. 11 comma 13. Non sembra davvero che sia un evocare fantasmi del passato, richiamare alla memoria il mai abbastanza vituperato esame da aggiunto di cui già Cordero ha detto tutto il male che si doveva e si deve dire.

Analoghe considerazioni possono essere sviluppate in tema di tipizzazione e burocratizzazione del procedimento disciplinare e cautelare, il cui clamore attuale è di per sé significativo delle difficoltà e dei rischi di cui stiamo parlando, soprattutto in un quadro di regole estremamente complicato che, temo, si caratterizzerà per l’emanazione di circolari sempre più lunghe e dettagliate, variabili ai diversi livelli territoriali (tra C.S.M. e Consigli giudiziari, o nuove Commissioni), senza che siano neppure previsti limiti o possibilità di reazione in caso di superamento dei carichi di lavoro tollerabili o di insufficienza o inidoneità delle strutture messe a disposizione, facendo ricadere sul singolo magistrato ogni responsabilità.

Certo sarebbe ingeneroso e non sarebbe neppure fondato ritenere che tutti i problemi di cui sopra nascano soltanto dall’insufficienza della politica associativa. Sarebbe però altrettanto sbagliato nascondersi l’esigenza, in questo contesto, di una radicale presa di distanza dalla logica dell’appartenenza nella politica associativa.

Suggestivo e illusorio è infatti l’argomento secondo cui non ci si dovrebbe preoccupare, in quanto quello che importa sono le persone, perché sono queste a far funzionare le istituzioni bene o male, ed anzi a maggior ragione bisognerebbe andare a votare proprio per eleggere i migliori e consentire la miglior azione possibile.

In realtà la forma delle istituzioni in cui ci si trova ad operare non è indifferente e condiziona e plasma l’azione dei singoli, di tal che occorre avere una “buona” forma ordinamentale che garantisca dagli eccessi, perché i singoli possano agire per il meglio e perché tutti noi possiamo sentirci garantiti nella nostra indipendenza (il fatto che sia esistito Pericle non ci tranquilizza certo dai pericolo della “monarchia del primo cittadino”).

Non credo quindi che, in questo contesto e con queste premesse, una protesta trasversale che denunci la logica dell’appartenenza possa essere liquidata come una mera forma di “qualunquismo”.

Tutti noi sappiamo che il termine “qualunquismo” deriva dal movimento sorto intorno alla rivista dell’Uomo Qualunque fondata nel 1944 da Guglielmo Giannini e animata da una viscerale ostilità verso la politica e soprattutto dei partiti antifascisti, che ebbe un certo successo elettorale, talmente effimero da non superare la legislatura: analoga sorte toccherà un decennio dopo ai “poujadisti” francesi, uniti intorno a Pierre Poujard, fondatore dell’Unione dei Commercianti e degli artigiani, anch’egli ricondotto a un qualunquismo di destra con venature xenofobe.

Confondere questi fenomeni con il presente significa a mio avviso non aver colto differenze essenziali tra chi esprime solo generica avversità verso la politica (in questo caso sarebbe quella associativa) ma poi contraddittoriamente si costituisce anch’esso in formazione politica, e chi invece non contesta la necessità della “politica (associativa)”, ma solleva specifiche critiche sugli indirizzi presi su problemi ben individuati, chiedendo ben precisi comportamenti.

Penso che alla forza dei valori imposti dal fatto non si possano opporre ragioni procedurali di fedeltà alla linea del gruppo di cui si fa parte e che, in questi casi, la logica dell’appartenenza (proprio per difendere i valori che il gruppo rappresenta) comporti la necessità di una protesta che è fisiologica e istituzionale e che sarebbe un errore non considerare o delegittimare, perché significherebbe privare il gruppo medesimo (corrente o movimento che sia) della necessaria dialettica tra i suoi vertici (o rappresentanti) e i propri associati.

La trasversalità della protesta e il fatto che la medesima non voglia rappresentare un gruppo autonomo, più che una contraddizione dovrebbe essere vista come un segnale della gravità delle ragioni al suo fondamento, ragioni più estese rispetto a quelle di una singola corrente e tali da riunire consenso anche tra i diversi gruppi, secondo una dinamica ben conosciuta, per la quale sembra inutile scomodare la teoria delle reti sociali, ma che comunque non può far dimenticare l’insufficienza degli approcci tradizionali (sottesi all’accusa di qualunquismo) ad esaminare fenomeni moderni che ormai presentano una ben diversa complessità di rapporti e legami contestuali di diversa forza tra i vari individui.

Credo invece che alla base di questo fenomeno stia, a mio avviso, l’emersione di una visione più concreta e realistica della medesima esigenza che sta a cuore a tutti nell’associazione, quella di tutelare l’indipendenza della magistratura, e dei problemi che questo obiettivo comporta e che hanno evidenziato insufficienze lamentate da più parti: emblematico ad esempio quello delle rivendicazioni retributive da più parti avanzate, che non possono certo essere sdegnosamente liquidate come una bassezza rispetto alla tutela di più alti principi, posto che una delle forme più larvate e insidiose di attacco al prestigio e all’indipendenza di una istituzione è proprio quella di impoverirla in sé e nei suoi componenti.

Solo attraverso una netta inversione di tendenza e un progressivo abbandono della stretta logica dell’appartenenza (di cui è figlia la stessa accusa di qualunquismo) si possono affrontare queste nuove ed esiziali sfide, per vincere le quali il ruolo dell’associazione è e rimane fondamentale ma solo a patto che si distacchi definitivamente dalle logiche denunciate.

Per ottenere ciò è a mio avviso necessario un segnale forte e questo è dato dall’astensione.



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L'isolamento dei magistrati


di Vanna Lora
(Docente di Storia e Filosofia)


“Non si isola una persona che ha bisogno di un ambiente compatto, di sostenitori, allievi e seguaci. Borsellino viene isolato chirurgicamente”.

Sono parole di Dolcino Favi, P.G. nel terzo troncone del processo per la strage di Via D’Amelio, giunto all’appello, pronunciate in aula nel gennaio 2001.

Il P.G. chiama in causa Pietro Giammanco, costretto a lasciare l’incarico in seguito alla sollevazione dei sostituti del suo ufficio, per l’isolamento da lui creato attorno a Paolo Borsellino.

Curiose coincidenze della storia.

Dolcino Favi è lo stesso P.G. che ha firmato, da facente funzione, l’avocazione dell’inchiesta “Why not” condotta, fino a quel momento, da Luigi De Magistris.

Un altro magistrato isolato e lasciato solo.

E costretto a rivolgersi all’opinione pubblica per denunciare il clima pesante e torbido nel quale si trova a lavorare.

Così come fece Paolo Borsellino, nell’aria ormai irrespirabile del 1988, l’anno della bocciatura di Giovanni Falcone da parte del C.S.M., rilasciando interviste a la Repubblica e a L’Unità.

Non sono stati uccisi al culmine del loro potere, Giovanni e Paolo, ma al culmine del loro isolamento e della loro solitudine.

Maria Clementina Forleo ha espresso solidarietà al collega De Magistris, così come Antonio Ingroia, negli studi televisivi di Annozero. L’unica trasmissione che abbia dato voce ai magistrati, mentre su tutte le reti gli uomini della politica, grazie al loro ruolo, hanno potuto parlare a ruota libera.

Il diritto alla libertà di parola e di espressione è garantito a tutti i cittadini italiani dall’articolo 21 della Costituzione, ma sembra che per i magistrati, meno uguali degli altri, questo diritto non valga o valga in termini così ristrettii da ridursi a zero. Lo ha detto, in termini più sfumati, ma non meno chiari, l’onorevole Violante, dagli schermi televisivi di “In mezz’ora” a Lucia Annunziata, ieri.

Aggiungendo anche “Non mi pare che Mastella abbia beneficiato granchè dei mezzi di comunicazione”.

Sembra una battuta, ma non lo è: è l’opinione di un parlamentare ed ex magistrato.

I quotidiani, oggi, riportano le dichiarazioni di Violante, ma non questa battuta.

Violante ha detto anche che De Magistris e Forleo hanno sbagliato ad andare in tv.

Ha detto proprio così: “hanno sbagliato”.

Non si tratta quindi di un dissenso, di un’opinione contraria, di una critica. Si tratta di un giudizio: quella partecipazione è stata un errore. Non si doveva fare.

Mi viene in mente il Robespierre del bellissimo “La morte di Danton” di Büchner, che rivolgendosi al fido Saint-Just dice, a proposito di Camille Desmoulins: “Bisogna far capire a Camille che si sbaglia”.

Desmoulins criticava la politica del terrore dal suo giornale e il suo dissenso, giudicato un errore dai detentori della pubblica verità, fu silenziato dalla ghigliottina.

Anche Mancino, vice presidente del C.S.M., ha parlato di “giustizia show”.

Che i giudici debbano parlare solo con le sentenze lo si sente dire tutte le volte che la magistratura scoperchia pentole di malaffare e di collusioni con il mondo della politica.

L’impressione del cittadino comune è che non si vogliano far sapere certe cose, sulle quali è più gradito un omertoso silenzio.

Così, anziché sul marcio degli accordi trasversali in Calabria, o sulle pressioni e intimidazioni denunciate da Forleo, che a mio modesto avviso avrebbero dovuto allertare immediatamente il C.S.M., si sposta l’attenzione sulla cosiddetta sovraesposizione mediatica dei magistrati, quasi fossero starlette in cerca di scritture.

E si disorienta o si “orienta” l’opinione pubblica.

L’unica, in casi come questi, ad aiutare la verità.

Se la res pubblica è cosa di tutti e non “Cosa Nostra”.

Nei giorni cupi dell’estete del 1992 Paolo Borsellino è a cena a Terrasini, una serata organizzata dai carabinieri.

Alla fine della cena il cuoco e proprietario del locale vuole stringere la mano del giudice e scoppia a piangere.

Ad Antonio Ingroia, più tardi, in auto, Paolo dice: “Sai Antonio, stavo per mettermi a piangere anch’io. Ha voluto dirmi che i palermitani onesti, i padri di famiglia, sono al nostro fianco”.

Borsellino chiamerà quella cena “la cena degli onesti” (cfr Lo Bianco- Rizza, "L’Agenda rossa di Paolo Borsellino”, ed. chiarelettere, pag. 79).

Bisognerebbe far capire a Violante e Mancino che si sbagliano. I magistrati onesti non si rivolgono all’opinione pubblica per cercare consenso, parlano per superare la barriera dell’isolamento e della delegittimazione. E la gente onesta ha capito.



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domenica 28 ottobre 2007

Caso Calabria: dal potere illegale all’arretratezza. Il compito del C.S.M.


di Claudio Nunziata
(Magistrato)


Il caso Catanzaro viene rappresentato come manifestazione di interferenza del potere esecutivo nell’esercizio della giurisdizione e di sovraesposizione e protagonismo eccessivo di un magistrato.

Ma paradossalmente questi aspetti - intollerabile in uno stato di diritto il primo e riferibile solo a problemi di immagine il secondo - sono solo le manifestazioni meno preoccupanti del grumo di illegalità che è stato scoperchiato. Ed esso evidenzia non tanto una situazione di pericolo (l’attentato alla giurisdizione) ma al contrario un danno già realizzatosi per l’avvenuto collasso in quel territorio di tutti i meccanismi di controllo di legalità istituzionale, e prima ancora di quelli giudiziari, degli ordinari controlli amministrativi, che solo l’attivismo indagatorio di un pubblico ministero – anomalo in quel sistema – ha fatto emergere.

Una anomalia di sistema di dimensioni allarmanti tale da annullare ogni significato della parola legalità e levare ogni senso alla tutela dei diritti a qualsiasi livello.

A qualsiasi commentatore che viva lontano da quel territorio, per quanto attento osservatore e strenuo assertore del principio di legalità, l’interferenza, che già appare come un momento di crisi grave per lo stato di diritto, viene ritenuta sintomatica del fatto che una parte del paese è ostaggio della delinquenza organizzata e della insufficienza di mezzi per contrastarla.

Ma costui non percepisce che sono vasti settori delle istituzioni e del ceto politico - succubi della delinquenza affaristica - a favorire la formazione di un intreccio di interessi trasversali che ha sostituito ai principi dello stato di diritto quelli della gestione concertata a fini privati di interessi volti prioritariamente ad intercettare gli ingenti finanziamenti statali ed europei per poi creare un sistema di coperture con la disarticolazione completa dei controlli di legalità, a tutti i livelli.

In Calabria, se parli di diritti e di legalità, ti ridono in faccia, ti considerano una persona strana incapace di comprendere le complessità di quella terra ed i parametri delle regole di fatto che devono essere rispettate.

Non vi è dubbio che vi sono anche rare aree di eccellenza che sfuggono a queste logiche, che vi sono tanti servitori dello stato che non partecipano alla divisione di questa torta, ma tutti costoro, nella migliore delle ipotesi, non sono in grado di cambiare le cose e considerano un suicidio denunziare le anomalie che emergono alla loro attenzione, nella più frequente delle ipotesi sono costretti anche a sporcarsi le mani o ad abbozzare.

In qualsiasi paese della Calabria circolano da tempo voci di coinvolgimento nei più lucrosi, e poco trasparenti, affari di società nelle quali al fianco di affaristi di vario genere compaiono nomi di magistrati, funzionari, ufficiali di polizia giudiziaria. Per ogni tipologia di affare una società e tutte le coperture che sono necessarie nei vari settori.

Probabilmente su ognuna di queste manifestazioni della autonomia contrattuale nulla si potrebbe obiettare, ma quando questo modulo operativo diventa sistema, allora un qualche problema si pone. E se i vari organismi di controllo non hanno la forza di analizzare questi fenomeni, se questi risultano sconosciuti agli organi di polizia, alle tante stazioni dei carabinieri diffuse sul territorio o se non trovano ascolto in alto loco le anomalie da essi rappresentate, vuol dire che il malessere è più profondo di quanto sia stato percepito.

Non rappresenta una giustificazione sufficiente che molti servitori dello Stato e molti operatori di enti locali di quei territori non hanno esperienza degli standard di legalità che sono richiesti in Europa e nel resto del paese. Questi dovrebbero essere rammentati con adeguate iniziative delle Procure della Repubblica, che, invece, presentano – come quasi tutti gli uffici giudiziari meridionali - il più basso rendimento rispetto alla media di tutti i corrispondenti uffici di altre aree del paese (fanno eccezione 9 sedi su 57, tra i tribunali con più di 30 magistrati solo Palmi e Taranto - l’analisi è stata compiuta valutando il rendimento unitario negli uffici in relazione al numero di magistrati in organico). Una magistratura inquirente spesso sonnacchiosa, poco curiosa, talvolta oppressa da condizionamenti ambientali che sembra siano stati messia nudo dal lavoro di De Magistris.

E’ evidente che è questo l’allarme che egli tenta invano di lanciare e che costantemente viene eluso, anche dal Consiglio Superiore della Magistratura e da alcune componenti della Magistratura che, per quanto animate da una decisa volontà di ricreare un clima di fiducia, non riescono a percepire la parte più significativa e grave del problema.

Ed anche solo questa specifica carenza è motivo di allarme tale da giustificare l’insistenza con cui De Magistris torna pubblicamente sul problema, anche se con modalità che poi finiscono per non essere tanto efficaci.

Dove non c’è legalità non c’è sviluppo. Dove il principio della concorrenza e le leggi del libero mercato sono quasi completamente alterate non c’è stimolo alla crescita. Dove vige un sistema articolato e stratificato di potere illegale si precipita diritto diritto verso l’arretratezza. Ed è questa la situazione in cui versa la Calabria. Dove pure c’è tanta voglia di vantare e pretendere gli stessi diritti e lo stesso livello di legalità del resto d’Italia.

Chi ha il dovere di rispondere a questa pressante domanda pensa che sia sufficiente dare ascolto ai ragazzi di Locri, sfuggendo poi al dovere di analisi, di individuare le vera natura di questo cancro e di andare alle radici diffuse del problema.

Spero che lunedì il C.S.M. abbia l'occasione di mettere meglio a fuoco la sua attenzione sulle dimensione di questo sistema di potere tanto pervasivo da reagire con arroganza ed aggressività per evitare di essere messo in crisi, anche se ricercando una modalità meno brutale della eliminazione fisica, strada peraltro evocata dal dott. Chiaravallotti, secondo il tenore di una intercettazione diffusa dalla stampa.

Se questo sistema finirà per affermarsi, c’è rischio che finisca per essere praticato anche a livello nazionale e a contaminare le istituzioni democratiche molto di più di quanto non sia già avvenuto in passato.


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sabato 27 ottobre 2007

La buffa storia del signor Karl Heinz Kunderheim von Avocator industriale in Katanzarburg


di Thomas More

Accadde, in una cittadina civile e laboriosa dell’estremo nord dell’Europa, che un ricco signore decise di mettere su una fabbrica di pomodori in scatola.

L’intento sarebbe stato lecito e commendevole se non fosse stato che la cittadina era situata in una zona dove pomodori non nascevano neanche a piangere in turco né, date le distanze, era pensabile fosse possibile farne venire da paesi lontani.

Idea ben balzana - si dirà - quella di inscatolare pomodori dove non ce ne sono. Il fatto è che Karl Heinz Kunderheim von Avocator (così si chiamava il ricco signore) era tipo assai eccentrico e a chi, timidamente, gli obiettava che il suo progetto non fosse de hoc mundo, rispondeva in modo spiccio e deciso.

“Forse che non c’è” chiedeva perentorio Karl Heinz “chi vende numeri del lotto sicuramente vincitori? Non c’è chi - a dirgli il vostro anno di nascita - si dichiara capace di rivelarvi, a pagamento, se conquisterete la fanciulla della porta accanto? Io voglio vendere pomodori virtuali: non vedo cosa ci sia di tanto strano”.

Ma - questo era il problema del nostro Karl - come conciliare il suo bizzarro desiderio con il contenuto dei barattoli?

Il dilemma sembrava insolubile, ma Karl Heinz ebbe un’idea geniale.

“Il mio” proclamò “è un sogno e dunque venderò il mio sogno sotto forma di scatole di pomodoro vuote. Starò ben attento a rispettare le forme”.

Così disse e così fece. Eresse un piccolo, ben attrezzato stabilimento, con scritto sulla facciata, a caratteri cubitali: “Fabbrica”.

Che lì si fabbricasse qualcosa nessuno poteva negare, tanto grande era la scritta e tanto vivido il colore (viola) dei caratteri. Dalla fabbrica iniziò così a sgorgare un fiume di barattoli, ognuno con la sua brava etichetta che raffigurava un bel pomodoro rosso fuoco su un sfondo viola. Nessuna scritta accompagnava la figura, fatta eccezione per la dicitura “Katanzarburg” che indicava la cittadina dove veniva confezionata quella pazza merce.

Per un po’ non sorse alcun problema, dato che, per un verso, Karl Heinz era ricco come il mare e ben poteva permettersi di vendere in perdita, e, per altro verso, la gente del paese iniziò a comprare quei barattoli vuoti che, come si dice orrendamente, facevano tendenza ed erano suscettibili di vari usi. Si potrebbe dire che la pazzia di Karl Heinz si sposò con la stupidità della popolazione.

Tutto filò liscio dunque fino allo stramaledetto giorno in cui a Katanzarburg piombò un giovane napoletano che - come dire? - amava i pomodori come i pesci amano l’acqua.

Al nostro baldo giovanotto sembrò di toccare il cielo con un dito quando scoprì la fabbrica del signor Kunderheim: felice come una Pasqua (anzi come due Pasque) investì tutti i suoi averi facendo incetta di scatole di pomodoro, ma, dopo aver aperto i primi cinque barattoli, avendoli trovati tutti vuoti, nel suo cuore la felicità si tramuto in stupore e lo stupore, subito dopo, in irrefrenabile incazzatura.

Si precipitò, paonazzo in viso come un vero pomodoro, nei locali della vendita e, trattenendo a stento l’ira, si fece chiamare il direttore delle vendite.

“Egregio signore” sibilò il giovanotto “mi avete venduto una partita di barattoli vuoti”.

“I barattoli szono tutti vuoti” ammise serafico il direttore.

“Come sono vuoti?”.

“Szono fuotissimi. Sziamo orgoghliosi di esszere gli unici produttori mondiali di barattoli di pomodoro fuoti”.

La faccio breve. Da quel colloquio prese origine una guerra legale che si allargò a macchia d’olio coinvolgendo i cittadini e le autorità in due opposte, agguerrite fazioni.

Karl Heinz, che aveva ottime entrature, sparò a zero dai giornali e dalle televisioni contro gli immigrati meridionali, che rompono le tabernelle, che non rispettano gli usi locali, non si lavano, sono ladri, etc. etc.

Fu allora che il giovanotto si lasciò intervistare per spiegare le sue ragioni, ma il rimedio fu peggiore del male, dato che su i giornali (di proprietà di Karl Heinz) si sparò a palle incatenate contro chi “dopo aver fatto causa ad un esimio industriale” (il giovanotto si era nel frattempo rivolto al tribunale) “si era reso lecito inquinare il giudizio con dichiarazioni rese in sedi improprie”.

Il tribunale - malgrado l’urgenza premesse alle porte - rinviò ogni decisione, sperando che si calmassero le acque (la protesta era andata estendendosi tra gli immigrati) e - se mai qualcuno gli avesse chiesto conto e ragione di quel rinvio – avrebbe risposto come il giudice Briglialoca: “Signori, io considero che il tempo matura ogni cosa, e col tempo tutte le cose vengono in chiaro e il tempo è padre della Verità (...) E per questo, Signori, io soprassiedo, diluisco e differisco il giudizio: affinché il processo, ben ventilato, crivellato, e dibattuto, arrivi in prosieguo di tempo alla sua maturità, e il giudizio della sorte, sopravvenendo a sua volta, sia in più santa pace accettato dalla parte condannata, secondo che nota la glossa al titolo I, De excus., l. Tria genera: Portatur leviter, qiod portat quisque libenter”.

Pian piano, montò un indegno can-can: “Le regole sono state osservate” urlavano i fautori di Karl Heinz “ora si deve tacere e aspettare il giudizio”.

“A parte il fatto” strepitavano di contro gli avversari “che, regole o non regole, i barattoli sono vuoti, rimane il fatto che il giovanotto non ha di che mangiare, mentre il tribunale tarda a decidere”.

Insomma - direte voi - come diavolo è andata a finire questa storia?

Santo cielo, sempre con questa vostra fretta di venire al dunque! La storia non è ancora finita, non è finita per nulla. Quando sarà finita, statene certi, vi riferirò per filo e per segno come sono andate le cose.

Ma (se posso dire la mia) è mai possibile che delle vicende di questo mondo vi interessi solo la conclusione? Sarà bene il caso, ogni tanto, di meditare e agire prima che le cose si concludano, se si vuole che si concludano bene. Dopo, a babbo morto, ci sarà solo storia buona per i posteri.

Comunque state tranquilli: non solo sarete informati, ma la storia non potrà che finire bene: questa una favola e nelle favole, come è arcinoto, vincono sempre i “buoni” e il finale è così lieto che tutto sa di Mulino bianco.



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venerdì 26 ottobre 2007

Il mutismo dell'A.N.M.


di Nicola Saracino
(Giudice del Tribunale di Tivoli)


A fronte della gravità dei fatti occorsi a Catanzaro e dell’invito rivoltole da più di 250 magistrati ad assumere una posizione chiara su quei fatti, l’Associazione Nazionale Magistrati si è pronunciata con un comunicato del 17 ottobre che parla del tutto genericamente della “situazione degli uffici giudiziari di Catanzaro" e si limita a mettere in evidenza che la legge che consente al Ministro della Giustizia di chiedere il trasferimento dei magistrati andrebbe cambiata.

Dopo di che l’altroieri la Giunta Esecutiva Centrale dell’A.N.M. è intervenuta di nuovo per “esprimere pieno apprezzamento e convinta adesione alle dichiarazioni con le quali il 22 ottobre u.s. il Presidente della Repubblica, anche nella sua veste di Presidente del CSM, intervenendo sulle recenti polemiche suscitate da vicende giudiziarie, ha assicurato la sua attenzione sui temi di giustizia e sul fisiologico sviluppo dell’attività giudiziaria e delle indagini in corso ed ha invitato nel contempo tutti alla riservatezza ed al rispetto delle regole fissate da leggi e da codici deontologici”.

Non condivido questo deliberato, che recepisce l’invito al silenzio proveniente dal Capo dello Stato.

Quella esortazione, opportuna e doverosa, era rivolta a tutti i soggetti che rivestono responsabilità “istituzionali” nella nota vicenda.

Mi turba che l’A.N.M. se ne sia ritenuta diretta destinataria.

La ragion d’essere dell’A.N.M. è nella tutela dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura.

Che debba tacere quando questi valori sono posti in discussione suona come un paradosso; questo non ha nulla della la virtù del silenzio, è solo un ingiustificato mutismo.

Desta addirittura sgomento apprendere che le prime ispezioni ministeriali su Catanzaro siano originate da formali invocazioni delle Sezioni locali dell’A.N.M..

Esiste un vuoto di rappresentatività manifesto, i cui negativi effetti solo in parte si attenuano grazie a pochi Colleghi che, seppur privi di mandato, assumono coraggiosamente su di sé il compito di spendere una parola in difesa di quei valori, magari rintuzzando un cattedratico che spiega in televisione quanto giusto e corretto sia che un Ministro ridicolizzi pubblicamente le indagini che lo riguardano, non potendosi da tale soggetto esigere lo stesso senso istituzionale imposto al magistrato.

L’unica consolazione viene dalla coscienza civile dei cittadini che rivendicano come beni propri, e non dei magistrati, l’autonomia e l’indipendenza della magistratura.



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Per non "girarsi dall'altra parte"


di Uguale per Tutti

Vi proponiamo il video del filmato con il quale è iniziata ieri sera la trasmissione AnnoZero su RaiDue.

Ve lo proponiamo perché racconta ed esprime un desiderio di giustizia secondo noi molto importante.

Ve lo proponiamo sapendo che tanti diranno che farlo è retorico, che il filmato è eccessivo, che non è opportuno, che i "toni" e/o le parole non sono quelli giusti e un sacco di altre cose.

Ve lo proponiamo dicendo a chi pensa che non lo dovremmo fare che questo filmato racconta una pezzo della realtà e a nostro modesto parere un pezzo importante della realtà.

Crediamo che sia del tutto legittimo condividerlo o no, condividere o no la scelta di riproporlo qui.

Crediamo anche, però, che sia assolutamente sbagliato che la politica e una parte dei cittadini si "girino dall'altra parte" e pretendano che anche altri lo facciano, che chiudano gli occhi dinanzi al disagio e alle istanze che questo filmato racconta.

Una politica capace, un popolo maturo debbono avere una risposta a queste domande e una risposta non è sfuggire il problema né, men che meno, soffocare le domande con una serie di obiezioni pretestuose: l’opportunità, i toni, l’eleganza, la sede, il rispetto delle istituzioni, la musica di sottofondo, la tv, eccetera.

Per favore, qualunque cosa pensiate del filmato, ponetevi il problema e ponetelo a chi vi sta accanto.

Protagonisti del filmato sono Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, assassinato a Palermo il 19 luglio 1992, Rosanna Scopelliti, figlia del giudice Antonino Scopelliti, assassinato a Campo Calabro il 9 agosto 1991, e Sonia Alfano, figlia del giornalista Beppe Alfano, assassinato a Barcellona Pozzo di Gotto l’8 gennaio 1993.







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giovedì 25 ottobre 2007

C'era una volta il pool antimafia. Palermo: i giudici "cannibali"



Una delle idee ispiratrici del nostro impegno in questo blog è che non è possibile un miglioramento delle condizioni della amministrazione della giustizia e della sua efficienza senza una seria e approfondita riflessione autocritica dei magistrati sul loro modo di esercitare oggi, singolarmente e collettivamente, il loro difficile compito.

Com’era inevitabile, anche la magistratura è vittima della crisi culturale e morale che affligge l’intero Paese (e non solo), ma, per poterne uscire, è indispensabile che se ne renda conto.

In quest’ottica, riportiamo qui un articolo di Attilio Bolzoni, tratto da La Repubblica di oggi 25 ottobre 2007. Il titolo violento è quello originale dato dall'autore e non ci è sembrato corretto modificarlo.

Pur senza prendere posizione, ovviamente, sulla esattezza o meno delle ricostruzioni delle singole vicende proposte dal giornalista (che da decenni segue le vicende della cronaca giudiziaria palermitana), condividiamo l’esigenza di porre l’attenzione sulla situazione complessiva di un ufficio giudiziario molto importante come la Procura di Palermo e sulla emblematicità di quanto accade lì.

___________________


di Attilio Bolzoni
(Giornalista)


tratto da La Repubblica del 25 ottobre 2007

Palermo - Si sono divisi sui processi politici e scontrati su come fare le indagini. Si sono contesi l’eredità di Falcone. Inchiesta dopo inchiesta, si sono combattuti su tutto. Su Andreotti. Sui pentiti. Sulla caccia a Provenzano. Sulle “talpe” infilate nelle loro stanze. Prima hanno scatenato violentissime guerre in nome dell’antimafia e poi la loro antimafia l’hanno divorata. Quasi venticinque anni dopo è finita per sempre la storia del pool di Palermo. L’hanno sepolto antichi rancori, l’hanno sbranato tribù giudiziarie in perenne sfida. E ormai, di quell’idea e di quella struttura investigativa nata in un piccolo bunker del Palazzo di Giustizia mentre i mafiosi spadroneggiavano per la città, sono rimaste solo macerie. Resti di pool sui quali camminano giudici che si azzannano, che si fanno a pezzi fra loro. Sono giudici cannibali quelli di Palermo. Rappresentato dagli stessi abitanti del Palazzo di Giustizia come uno dei tanti conflitti originati da due “scuole di pensiero”, il caso Palermo in realtà questa volta è il segno di un’avventura al suo epilogo: la conclusione di una stagione italiana nella lotta a Cosa Nostra.

Quelle di Palermo non sono soltanto dispute - come era accaduto anche più volte in passato - di natura tecnico giuridica o divergenze sul vaglio delle contiguità fra mafia e politica. È tutto più evidente e doloroso: è lo spegnimento, l’estinzione di un’esperienza che ha marcato un quarto di secolo.

È implosa la procura della Repubblica di Palermo. Dietro le polemiche, le risse, le comunicazioni a mezzo stampa per precisare pubblicamente “la linea dell’ufficio”, c’è una devastazione mai conosciuta prima. Neanche ai tempi dei veleni e dei magistrati eccellenti sospettati di collusione.

Gli effetti di questo disastro sono già visibili. Investigazioni rallentate. Processi pasticciati. Deleghe d’indagine sospese. Sostituti che nascondono carte ad altri sostituti, che non si salutano più, che dichiarano apertamente “il proprio odio” nei confronti di altri magistrati. Colleghi della porta accanto, blindati come loro, prigionieri delle stesse scorte e delle stesse paure.

Un pool pieno di nemici. Una parte accusa l’altra di “massimalismo” nelle investigazioni di mafia, il riferimento è alla gestione Caselli, ai suoi processi politici - quasi tutti persi - e allo schema operativo che si sta riproponendo ora con il nuovo procuratore capo Francesco Messineo. Sarà un caso, ma nei corridoi della procura di Palermo è ricominciato a circolare il nome di Silvio Berlusconi. L’altra parte accusa i fedelissimi di Pietro Grasso di avere creato un “centro di potere” nella direzione distrettuale, con indagini affidate a pochi. Di avere impedito la “circolarità” delle informazioni, mantenuto un “basso profilo” investigativo, concentrato energie quasi soltanto sul versante militare di Cosa Nostra. Trascurando la mafia economica e politica.

L’ultimo atto di questa lotta è la vicenda Cuffaro. Su come portare alla sbarra il governatore della Sicilia per le sue frequentazioni mafiose, sui reati da contestargli. Il caso è emblematico. Ma quali discordie e quali diverse “scuole di pensiero”, i fatti che si sono susseguiti intorno all’inchiesta sull’imputato Totò Cuffaro rasentano la perversione giuridica. Oggi, a Palermo, contro il governatore ci sono due procedimenti fotocopia. Tutti e due con le stesse fonti di prova. Uno aperto il 26 giugno 2003, l’altro il 21 maggio del 2007. Il primo è approdato in dibattimento e - in sede di requisitoria - per lui sono stati chiesti 8 anni di reclusione per rivelazione di segreti e favoreggiamento nei confronti di Cosa Nostra. Il secondo ha prodotto l’iscrizione di Cuffaro nel registro degli indagati per gli articoli 110 e 416 bis del codice penale, concorso in associazione mafiosa. Una procura lo sta già processando per un reato, un’altra procura lo vorrebbe processare per un altro reato. L’inchiesta però è sempre quella, non sono emersi altri indizi, non ci sono altre acquisizioni (un paio di deleghe e nulla più), non c’è un altro collaboratore di giustizia o un’altra intercettazione ad arricchire il quadro probatorio.

L’affaire Cuffaro è stato in sostanza soltanto il pretesto per l’ennesimo duello, il più rabbioso. Il governatore della Sicilia di fatto passerà alle cronache come l’imputato che ha dato il colpo finale alla credibilità dei procuratori di Palermo. Se ci sarà una data per ricordare la fine ufficiale del pool antimafia quella è proprio oggi: l’ottobre del 2007.

Più che una resa dei conti sta andando in scena una resa collettiva. Fra quel gruppo che faceva riferimento al procuratore Gian Carlo Caselli (i suoi fedelissimi: Antonio Ingroia, Roberto Scarpinato, Nico Gozzo, Gaetano Paci) e quegli altri che sono vicini al suo successore Pietro Grasso (Giuseppe Pignatone, Maurizio De Lucia, Michele Prestipino). Gli uni e gli altri sono consapevoli che, d’ora in avanti, alla procura della Repubblica di Palermo niente sarà più come prima. “Non c’è speranza”, dicono tutti.

La ferita è profonda. Condiziona le strategie generali e l’attività quotidiana. Per esempio tutti aspettano con terrore il prossimo 12 dicembre la requisitoria al processo contro l’ex maresciallo dei carabinieri Antonio Borzacchelli, poi diventato deputato della Regione e arrestato per corruzione. L’atto di accusa è affidato a due sostituti che non si rivolgono più la parola. Ma è quell’ordinaria amministrazione che “ordinaria” non è mai stata a Palermo, che è influenzata e limitata dalle spaccature. Quando c’è un omicidio al confine fra una borgata e l’altra, il funzionario di polizia o l’ufficiale dei carabinieri che fa il sopralluogo entra in agitazione per capire chi è il referente in procura, l’aggiunto delegato a coordinare le attività investigative sui “mandamenti” mafiosi. Ce ne sono 7 di “aggiunti”, tutti hanno il loro territorio, tutti vogliono in esclusiva la notizia criminis.

E subito, prima degli altri. “La stessa informazione sono costretto a girarla in una mattinata anche a cinque magistrati diversi”, confessa un ufficiale di polizia giudiziaria che è da molti anni in Sicilia.

La distribuzione di incarichi con la guida del procuratore Messineo si è rivelato uno “spezzatino antimafia” per accontentare tutti. Ne è derivato un disordine organizzativo e investigativo. Con un’aggravante: hanno isolato, messi da parte con la scusa della loro imminente uscita dalla direzione distrettuale per “scadenza”, quei sostituti legati a Pietro Grasso come Prestipino e De Lucia che erano i titolari di quasi tutte le inchieste più importanti. Due magistrati con una capacità investigativa - di qualità e, particolare non trascurabile, di quantità - decisamente fuori dal comune.

La vera svolta, dichiarata e sbandierata, rispetto alla procura di Grasso è quella di “alzare il tiro”. Un annuncio per rinnegare l’azione palermitana dell’attuale Superprocuratore nazionale, liquidata da alcuni addirittura come la fase più “oscura” della lotta alla mafia. Dall’altra sponda già tremano per la riproposta di vecchi “teoremi”. E poi c’è un passato siciliano troppo pesante per poterlo dimenticare. I risentimenti covano sempre. Nel mirino dei sostituti che hanno riconquistato la procura con Messineo c’è - primo fra tutti - Giuseppe Pignatone, al quale si rinfaccia la sua ostilità Giovanni Falcone. È il magistrato che ha coordinato l’indagine sulla cattura di Provenzano e contemporaneamente l’indagine su Cuffaro. In tanti però lo ricordano sempre per quel suo peccato originale, lo considerano un “prudente”. Sull’altro fronte si scandalizzano per inchieste ferme da più di un anno, per arresti che risalgono ancora ai “pizzini” di Provenzano o agli sviluppi di una retata del giugno del 2006. Un’apatia investigativa che avrebbe concesso già fin troppo tempo alle “famiglie” per riorganizzarsi.

Nell’antimafia di Palermo è muro contro muro. Un paio di giorni fa Messineo ha steso la bozza di un documento per provare a “pacificare” l’ufficio, l’ha fatta girare per sentire gli umori dei suoi sostituti. Quella bozza, qualcuno, l’ha già definita “indecente”. Come era prevedibile, un altro tentativo di riconciliazione è finito ancora prima di diventare in qualche modo ufficiale.

È in questa tormentata procura che fra il gennaio e il giugno del 2008 se ne andranno per legge tutti e 7 gli “aggiunti”. Si fanno già i nomi dei nuovi. Uno è quello di Girolamo Alberto Di Pisa, il magistrato accusato di essere il Corvo di Palermo. Fu assolto, naturalmente. Tornerà lui e torneranno altri in procura. Come negli anni prima del pool.



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mercoledì 24 ottobre 2007

Ancora riflessioni sulla vicenda di Catanzaro


di Paolo Coppola
(Giudice del Tribunale di Rossano)


Rompo il silenzio impostomi sulla questione Catanzaro (o De Magistris, ma non mi piace indicare questioni con nomi di persone ed in particolare di colleghi).

Mi ero imposto il silenzio perché ogni sorta di giudizio, in uffici giudiziari quali quelli calabresi (o almeno quelli del distretto di Corte di Appello cui appartengo), sono resi difficoltosi dalla circostanza che mai le situazioni sono bianche o nere, ma attraversano il grigio in tutte le tipologie di sfumature possibili.

Alcune considerazioni sono però d'obbligo.

In termini generali si deve rilevare che il Ministro, con la sua richiesta di trasferimento cautelare ha esercitato una propria prerogativa, per cui nulla quaestio, se non la piena condivisione del giudizio negativo unanimemente espresso dalla G.E.C. della A.N.M. sulle disposizioni normative che hanno consentito ciò.

Mi sento altresì di evidenziare che dette disposizioni hanno l'ulteriore effetto di gettare una ombra di sospetto sul Ministro che volta per volta, in relazione ad inchieste di rilievo nazionale, venga ad esercitare le prerogative conferitegli dal nuovo ordinamento giudiziario.

L'effetto è un oggettivo danneggiamento della stessa credibilità della politica e dei suoi rapporti con la magistratura, in un momento dove non se ne avverte affatto il bisogno.

Indipendentemente dal giudizio che ciascuno abbia sull'operato del P.M. coinvolto, è evidente che vi sarà un pronunciamento del C.S.M., quindi in definitiva le prerogative di autonomia della Magistratura sono salve.

Ove il pronunciamento non convincesse, non vi sarebbe che da prendere atto che, siccome il C.S.M. è per i due terzi espressione della intera Magistratura, il problema sarebbe di cultura interna, ovvero di valori di autonomia e giurisdizione dai quali la magistratura si sarebbe allontanata.

Problematico è il giudizio sulla avocazione della indagine "Why Not" perché i termini sono poco chiari.

Se ciò che sembra emergere dalla stampa fosse però vero, si dovrebbe rilevare quanto segue.

Al P.M. in definitiva sarebbe stata tolta l'indagine perché, in forza del chiesto trasferimento d'ufficio cautelare, avrebbe un non meglio precisato "interesse" nel procedimento.

Invero l'interesse, ci insegna la giurisprudenza della cassazione, consiste nella possibilità per il giudice di rivolgere a proprio vantaggio l'attività giudiziaria che è chiamato a svolgere nel procedimento, vantaggio che non deve essere necessariamente economico ma che ben può essere anche solo di ordine morale e difficilmente può essere ricollegata a pretesa inimicizia originata dalla attività giudiziaria stessa.

Unica eccezione è il caso in cui la attività posta in essere dal Magistrato (P.M. in questo caso) sia abnorme ovvero non si limiti ad irregolarità nel procedimento ma presenti aspetti talmente anomali e settari da costituire momento dimostrativo di una inimicizia o comunque di un interesse.

Orbene nel caso di specie non è dato sapere, dalle notizie di stampa, quali sarebbero gli aspetti gravemente anomali che fanno ipotizzare la sussistenza dell'interesse che ha legittimato la avocazione da parte dell'Avvocato generale f.f., a pochi giorni della presa di possesso del nuovo Procuratore Generale nominato (cui, per inciso, vanno i migliori auguri di un buon lavoro, avendone bisogno).

Dalla vicenda è possibile trarre ulteriori spunti.

La preoccupazione maggiore allo stato non sembra essere il problema della indipendenza esterna della Magistratura, ma la paura (fondata o meno) che la decisione del Procuratore Generale facente funzioni abbia leso prerogative di indipendenza, quindi preoccupazione verso possibili lesioni della indipendenza interna della Magistratura: questo problema è stato sovente sopito nel dibattito associativo.

La questione è invece nodale nella cultura della giurisdizione, ma la passata emergenza sulla riforma dell'Ordinamento giudiziario lo ha fatto spesso dimenticare.

Mai come in questo momento, a fronte di una radicale riforma, che ridisegna carriera e status del magistrato, quindi la sua stessa figura, il dibattito è nodale, perché si tratta di comprendere come ciascuno di noi intende ed intenderà, alla luce della riforma, la figura del magistrato.

Sul punto, visto che la vicenda è emblematica, sarebbe stato gradito un ancor più vivace dibattito.

Su questi aspetti le correnti si divideranno necessariamente (altrimenti non avrebbero ragione di esistere) e finirà la pax associativa anti "Mastelli".

Dalla vicenda è possibile trarre la convinzione che il dibattito sull'Ordinamento giudiziario è appena agli inizi, perché con i suoi peggiori aspetti, le sue più profonde disfunzioni ci troveremo d'ora in avanti a confrontarci.

Altro spunto riguarda il sistema Calabria, ma forse il sistema Italia nel suo complesso.

In Calabria sono arrivati miliardi di euro di finanziamenti a vario titolo e sono in parte spariti. Non si tratterebbe di una gestione clientelare degli stessi (magari!) ma appropriativa, ove fosse riscontrato che il P.I.L. della Calabria è aumentato in misura davvero scarsa.

Si deve altresì rilevare che la Corte dei Conti, nella sua relazione del 27.6.2006 sul funzionamento dei controlli regionali sui POR Calabria, ha puntato il dito su "la realizzazione del principio di separazione tra politica e gestione, tra politici e manager, sempre postulata, sin dal 1993, ma mai effettivamente realizzata nella Regione Calabria".

Da segnalarsi che il Commissario UE per i fondi regionali Danuta Hubner ha rifiutato più volte l'incontro con la Amministrazione regionale (Il Sole 24 Ore del 3.4.2007).

Personalmente mi consta di numerose ipotesi di c.d. truffe comunitarie ove la assegnazione dei fondi non è stata revocata dal ministero competente.

In effetti opero in quella zona (la piana di Sibari) che un mensile, qualche mese fa, dipingeva come quella che era sulla carta una delle zone più industrializzate di Italia (salvo a non trovarvi le industrie che ci dovevano essere).

Vi sono casi in cui i capannoni industriali non sono stati proprio costruiti, ma di ciò si è accorta la sola G.D.F..

A fronte di ciò e della generalizzata estensione del fenomeno, mi sembra evidente che delle due l'una: o i politici non solo locali non sapevano, per cui non si sono resi conto di fenomeni di questa portata (fatto peculiare e dimostrativo quantomeno di assoluta sconoscenza della società che pretendono di rappresentare) o sapevano.

Ovviamente la circostanza che ne fossero a conoscenza non determina certo responsabilità penale: non pare però strano che qualche P.M. si sia trovato a indagare anche su politici nazionali da definirsi più capaci, perché si sono accorti di un fenomeno così generalizzato.

Qualche P.M. magari si è accorto della generalizzata diffusione del fenomeno, mancata rimozione dei dirigenti responsabili delle truffe o perché erano conniventi o perché hanno omesso i prescritti controlli, mancata apertura di indagini interne sull'operato di detti dirigenti, mancata revoca dei finanziamenti ed infine restituzione dei beni, asseritamene provento di truffa agli stessi asseriti truffatori, all'esito magari di processi prescrittisi.

È evidente che ciò non è e non può rappresentare in termini generali patente che consenta al P.M. di operare arbitri (dobbiamo pur sempre rispettare le regole che legittimano il nostro operato), per cui abusi rilevanti coscienti e reiterati devono essere valutati e perseguiti nelle dovute sedi.

Non si può però ritenere che vi siano ragioni ostative a seguire filoni investigativi, magari all'esito si potranno rivelare infondati, su esponenti politici nazionali, con magari iscrizione obbligatoria nel registro degli indagati ed attivazione delle necessarie garanzie a loro tutela, in occasione di specifici atti investigativi (avvisi di garanzia).

L'attività associativa è funzionale all'esercizio della giurisdizione, è il mezzo per perseguire il fine del nostro lavoro altrimenti non serve a nulla: spero che altri colleghi del distretto e in primis la Giunta distrettuale vogliano rompere il silenzio impostosi.


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"Caso De Magistris": la vera posta in gioco

di Marco Del Gaudio
(Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli)


Ho provato e riprovato, ma non sono assolutamente riuscito a trovare una, che sia una, ragione di legittimità formale dell'avocazione del procedimento "Why not" da parte della Procura Generale, ma - come è stato bene evidenziato da tanti - questo non è il cuore del problema.

La verità è che la questione di Luigi De Magistris non riguarda più soltanto lui, o meglio solo qualcun altro.

Non riguarda più né Catanzaro, né la Calabria. E non riguarda, quasi più per nulla, il merito dei provvedimenti.

La questione che dobbiamo assolutamente porci è quella della tollerabilità democratica, alla luce dell'art. 104 Cost., della seguente sequenza:

a) Indagini nei confronti di imprenditori e appartenenti al mondo politico e giudiziario di livello regionale e nazionale;

b) Ripetute interrogazioni parlamentari ad personam, assimilabili a vere e proprie requisitorie contro Luigi De Magistris;

c) Ispezioni ministeriali ripetute ed estremamente prolungate;

d) Procuratore della Repubblica che rivela notizie ad un indagato e che è coinvolto - sia pure a margine - nelle indagini;

e) Revoca da parte del medesimo Procuratore della delega in ordine a quel procedimento al sostituto che lo sta trattando;

f) Seconda indagine delle caratteristiche assimilabili alla prima;

g) Richiesta di trasferimento cautelare di massima urgenza da parte del Ministro, virtuale indagato in un procedimento;

h) Sostanziale diniego dell'urgenza da parte dell'organo disciplinare;

i) Iscrizione del Ministro nel registro degli indagati;

j) Avocazione della seconda indagine al medesimo sostituto.

Vi può certo essere una prodigiosa consonanza di fortuite circostanze, una sorta di clinamen democriteo che ha generato una situazione simile a quella descritta: di fatto però, due inchieste giudiziarie importanti, non due inchieste qualunque, in un modo o nell'altro sono state sottratte a chi le conduceva. E nonostante le parole del Presidente Napolitano, gli accertamenti sono stati di fatto bloccati e non potranno riprendere senza il loro titolare naturale.

Insomma chi sappia, almeno un poco, di indagini sa che la sottrazione dei procedimenti a Luigi De Magistris comporterà la perdita definitiva del potenziale investigativo delle inchieste Poseidone e Why Not.

Uno stato democratico può concedersi di "non sapere" se i fatti oggetto di quelle indagini fossero veri o no?

E’ accettabile un sistema che consente una sorta di bavaglio agli accertamenti giudiziari?

E' davvero pericoloso nascondere dietro il paravento delle giustificazioni formali la sostanza delle cose, e - del resto - quest'opera di miopia giudiziaria non renderebbe giustizia ai magistrati italiani che, come ho già detto in passato, nel contesto di un'informazione a volte addomesticata e di una classe politica propensa a voltarsi dall'altra parte dinanzi a qualunque realtà scandalosa, hanno spesso consentito quanto meno che la società civile (la tanto abusata società civile) fosse informata di quel che accadeva nel Paese.

Dunque il problema non è affatto Luigi De Magistris. Il problema è l'impatto che la vicenda De Magistris avrà sull'assetto dei rapporti tra esecutivo e giurisdizione e l'effetto conformativo che una vicenda simile avrà sulla libertà di pensiero (e di azione) dei giovani colleghi e dei loro "capi".
Questa volta, allora, non c'è proprio la necessità di fare un passo indietro perché, chi ha le antenne per capire, ha intuito da tempo quale sia la partita che si sta giocando a Catanzaro e ha reagito di conseguenza.

Ormai tutti sanno quel che sta accadendo in questi giorni all'indipendenza della magistratura, ma è necessario che a questa consapevolezza “laica”, persino commovente, si affianchi la voce della magistratura stessa.

Non è possibile, cioé, assistere a un grave attentato all'indipendenza e alla libertà delle indagini che - senza scendere assolutamente nel merito - è certamente contenuto nella sequenza appena riportata, senza riflettere a voce alta su quel che sta accadendo e senza pronunciare una parola di dissenso, forte e chiaro, nei confronti di chi ha intrapreso una via assai pericolosa per ottenere il controllo dell'azione giudiziaria.

E' per questo che appare necessaria un'iniziativa forte per dimostrare che l'attività giudiziaria indipendente non può essere ammaestrata; che esistono (almeno lo speriamo) altri Luigi De Magistris pronti a subentrare al suo posto e affiancarlo; che le regole di gerarchizzazione delle procure introdotte dalla c.d. riforma bipartisan dell’Ordinamento Giudiziario vanno riscritte; che l'autogoverno dei magistrati è posto solo a tutela dell'accertamento indipendente dei fatti.

Noi abbiamo bisogno di dare fiducia a chi crede ancora nell'esercizio imparziale della giurisdizione, qualunque sia il cognome dell'indagato; e abbiamo bisogno di dire ai nostri colleghi, meno noti o dalle spalle meno larghe di Luigi, che esiste una magistratura che li sostiene, che è pronta a non far passare sotto silenzio tentativi di "normalizzazione" dell'azione giudiziaria.

Per i “non addetti ai lavori”, voglio ricordare che l’art. 104 della Costituzione che ho citato sopra statuisce che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. E un motivo perché i fondatori della Repubblica stabilissero questo c’era e c’è ancora oggi.


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martedì 23 ottobre 2007

Nicola Gratteri: "Lo Stato qui ha tradito"

Pubblichiamo i video di due brani di una intervista resa da Nicola Gratteri, Sostituto Procuratore della Repubblica presso la Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, a Riccardo Iacona, nella trasmissione "W l'Italia. Diretta", il 17 luglio 2007.

Le parole di Nicola Gratteri danno l'idea di quanto grave sia la situazione della Calabria e dell'intero Paese con riferimento alla presenza e all'azione delle organizzazioni criminali.

Nicola denuncia con chiarezza che manca una volontà dello Stato di contrastare veramente questo fenomeno.

Per vedere i video, basta cliccare su "Continua – Leggi tutto l’articolo” e poi cliccare sulle icone dei video che ci sono in fondo alla pagina.

Ha detto, fra l'altro, Nicola Gratteri:

"Stasera abbiamo visto molta incoerenza tra quella che è la realtà dell’amministrazione della giustizia e quello che sentiamo sempre dire nelle conferenze, nei convegni e anche in Parlamento: l’impegno, il processo che dovrà durare cinque anni, i mezzi, …"

"Avete visto in quali situazioni, soprattutto psicologiche, l’umiliazione di un impiegato dello Stato, di un funzionario a dovere operare in quelle condizioni".

"Io ricordo, ad esempio, quando il Presidente della Repubblica è sceso a Reggio Calabria e ha esortato i cittadini a stare più vicini alle Istituzioni. Io ho osato dire che sono le Istituzioni che devono fare due passi avanti. E poi forse la gente si avvicinerà a noi, vedendoci più credibili. Sono stato aggredito perché ho osato fare questa osservazione. Però io dico che ci vuole coerenza. Non è possibile pensare che la gente davanti a queste immagini possa credere in noi, possa credere nella giustizia. Noi non siamo credibili come 'Istituzioni'".

"Dal punto di vista logistico stiamo meglio alla Procura di Reggio Calabria. Però, dal punto dei beni materiali, anche noi non abbiamo il toner per le fotocopiatrici, anche noi dobbiamo anticipare i soldi della benzina, anche a noi manca la carta".

"Questa macchina è 'un falso', perché questa macchina non esiste al Commissariato di Siderno. E’ stata messa qui perché c’erano le telecamere. E’ stata portata da Reggio Calabria, perché queste macchine al Commissariato di Siderno non le abbiamo mai viste. Perché tutte le macchine del Commissariato di Siderno hanno almeno 200.000 chilometri. Come, per esempio, le macchine della scorta, che ogni 48 ore si rompono e c’è poca attenzione per la cura, per la manutenzione, per l’interesse di chi viene scortato".

Iacona: E questa passione per la 'frontiera della legalità', che pure si è manifestata negli anni dopo la morte di Falcone e di Borsellino, quei giudici che al primo incarico dicevano 'io voglio andare lì, perché voglio testimoniare'. E’ finita anche questa?

"Penso di sì, perché secondo me lo Stato ha tradito. Secondo me chi aveva il potere di legiferare, chi aveva il potere di creare un sistema giudiziario proporzionato e proporzionale a quella che era la realtà criminale e a quella che è oggi, perché attenzione che oggi la criminalità organizzata, le mafie, la ‘ndrangheta in particolare, è più arrogante e più pericolosa degli anni ’70. Perché la ‘ndrangheta di oggi è molto più ricca degli anni ’70 e ha meno paura delle Istituzioni, dello Stato perché dal ’92 a oggi lo Stato dal punto di vista normativo ha fatto grossi passi indietro. Per esempio con l’introduzione del patteggiamento allargato in appello, quando qui al Tribunale di Locri sono state condannate persone a 24-25 anni per associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, con il patteggiamento allargato, in appello, a Reggio Calabria, le persone sono state condannate a 7-8 anni di carcere".

"Mi è capitato che la stessa persona che con la mia indagine è stata condannata a Locri a 24 anni e a Reggio a 8 anni lo scorso anno l’ho incontrata una sera all’uscita dal carcere di Modena. Vedo questa persona che mi salutava ed era la stessa persona che io avevo arrestato. Si trattava di un semilibero al carcere di Bologna-Dozza che, insieme a un altro pure detenuto semilibero fuori dal carcere vendeva cocaina. Dentro il carcere erano detenuti modello, tanto che gli educatori hanno scritto un pezzo di libro Cuore su questi detenuti semiliberi. Io invece li intercettavo in questa indagine di droga. Sono stati condannati. Poi, una volta condannati ancora con sentenza definitiva per associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, dopo cinque anni l’ho rivisto semilibero all’uscita del carcere di Modena".

"Di solito sequestriamo 1.500 chili di cocaina ogni cinque-sei mesi. La pena edittale va da venti a trent’anni. Una buona pena, se fosse quella, se non ci fosse il patteggiamento e non ci fosse il patteggiamento allargato".

Iacona: Ma perché lei considera così grave quello che è stato uno strumento grazie al quale si facilitano i processi?

"Assolutamente no. Questo è un falso. E’ un falso. Questo lo dice chi non va in udienza. Non è assolutamente vero che per i reati di criminalità organizzata il rito abbreviato deflazioni: il processo si fa due volte. Perché in un processo, per esempio, con quaranta imputati, trenta scelgono di fare il rito abbreviato e dieci no, per quelle dieci persone che non chiedono il rito abbreviato bisogna rifare l’udienza in dibattimento e bisogna riesaminare la posizione anche degli altri trenta già giudicati, perché nel reato associativo bisogna spiegare la condotta dei dieci imputati in concorso con gli altri trenta già giudicati. Quindi i quaranta-cinquanta testimoni bisognerà sentirli lo stesso, anche per uno solo degli imputati. Quindi, dov’è il risparmio per lo Stato? E’ solo un regalo che si fa alle organizzazioni mafiose. E’ solo un regalo".

"Con il sistema elettorale attuale è molto più facile per la ‘ndrangheta spostare il pacchetto di voti a destra o a sinistra. La ‘ndrangheta non ha ideologie, la ‘ndrangheta non è né di destra né di sinistra. La ‘ndrangheta vota il cavallo vincente, quello che pensa possa vincere. Comunque attualmente ha la forza di chiedere il conto anche al sindaco eletto che non ha votato".

Iacona: Lei ha scritto una cosa durissima. Lei ha detto che il confine fra Stato e antiStato non c’è più. Che cosa voleva dire con questo?

"Nella gestione della cosa pubblica c’è sempre di più la presenza della ‘ndrangheta. Nella pubblica amministrazione, negli ospedali, … Sono cose notorie che sanno tutti, ma è inutile che andate dall’infermiere, dal medico a fare l’intervista, a chiedere che l’infermiere vi dica ‘c’è la ‘ndrangheta a Locri’, perché è talmente ovvio e notorio. Il fatto che stasera questa piazza sia vuota denota la sfiducia, la stanchezza della popolazione della Calabria, che è stanca di essere presa in giro, che non crede più in noi. Per questo non c’è nessuno qui. L’ennesima delusione per i calabresi è stato l’uso strumentale dei giovani di Locri. ecco perché non ci sono più qui".


Video dell'intervista - Prima Parte




Video dell'intervista - Seconda Parte






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domenica 21 ottobre 2007

Salvatore Borsellino interviene sulla avocazione della inchiesta di Luigi De Magistris

Pubblichiamo un comunicato stampa di Salvatore Borsellino.

Ci siamo permessi di omettere alcune espressioni, segnalando il nostro intervento con tre puntini fra parentesi, perché alcune espressioni che sicuramente sono consentite a Salvatore Borsellino potrebbero non esserlo a noi. Le poche omissioni non alterano comunque in alcun modo il pensiero dell’autore.



di Salvatore Borsellino
(ingegnere)

Milano, 20 ottobre 2007.

La notizia dell'avocazione da parte della Procura Generale dell'inchiesta “Why Not” al Procuratore De Magistris è di quelle che lasciano senza fiato.

Solo un'altra volta nella mia vita mi ero trovato in questo stato d'animo.

Era il 19 Luglio del 1992 e avevo appena sentito al telegiornale la notizia dell'attentato il cui scopo non era altri che quello di impedire ad un Giudice che, nelle sue indagini, era arrivato troppo vicino all'origine del cancro che corrode la vita dello Stato Italiano, di procedere sulla sua strada.

Morto Paolo Borsellino l'ignobile patto avviato tra lo Stato Italiano e la criminalità mafiosa aveva potuto seguire il suo corso ed oggi vediamo le conseguenze del degrado morale a cui questo scellerato patto ha portato.

Ieri era stato necessario uccidere uno dopo l'altro due giudici che, da soli, combattevano una lotta che lo Stato Italiano non solo si è sempre rifiutato di combattere ma che ha spesso combattuto dalla parte di quello che avrebbe dovuto essere il nemico da estirpare e spesso ne ha armato direttamente la mano.

Oggi non serve più neanche il tritolo, oggi basta, alla luce del sole, avocare un'indagine nella quale uno dei pochi giudici coraggiosi rimasti stava per arrivare al livello degli "intoccabili", perchè tutto continui a procedere come stabilito.

Perché questa casta ormai completamente avulsa dal paese reale e dalla gente onesta che ancora esiste, anche se purtroppo colpevole di un silenzio che ormai si confonde con l'indifferenza se non con la connivenza, possa continuare a governare indegnamente il nostro paese e a coltivare i propri esclusivi interessi in uno Stato che considera ormai di propria esclusiva proprietà.

Oggi basta che un ministro (…) come (…) Mastella ricatti un (…) capo del governo, (…), minacciando una crisi di governo, perché tutta una classe politica faccia quadrato intorno al suo degno rappresentante e si esercitino in conseguenza chissà quale tipo di pressioni sui vertici molli della magistratura per ottenere l'avocazione di un'indagine e quindi l'inoffensività di un giudice senza neanche bisogno del tritolo come era stato necessario per Paolo Borsellino.

Siamo giunti alla fine della Repubblica Italiana e dello Stato di Diritto.

In un paese civile il ministro Mastella non avrebbe potuto chiedere il trasferimento del dr De Magistris titolare dell'inchiesta in cui è indagato il suo stesso capo di governo e lo stesso ministro.

Se la decisione del Procuratore Generale non verrà immediatamente annullata dal C.S.M., saremo di fronte alla fine dell'indipendenza della magistratura e in conseguenza dello stesso Stato di Diritto.

Il Presidente Giorgio Napolitano, nonostante sia stato più volte sollecitato, continua a tacere su queste nefandezze dimostrando che la retorica dello Stato e della figura istituzionale di garante della Costituzione Repubblicana non sono diventate, in questa disgraziata Italia, altro che vuote parole.

Quaranta anni fa sono andato via dalla Sicilia perché ritenevo impossibile di vivere la mia vita in un paese in cui la legalità era solo una parola del vocabolario, ora non ritengo più che sia una vita degna di chiamarsi con questo nome e quindi una vita degna di essere vissuta quella di vivere in un paese dove l'illegalità è diventata la legge dello Stato.

Salvatore Borsellino



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sabato 20 ottobre 2007

Tolta l'inchiesta a Luigi De Magistris - Un fatto di gravità estrema

di Uguale per Tutti

L’Ansa e tutti i media dell'informazione comunicano che il Procuratore Generale facente funzioni di Catanzaro dr Dolcino Favi avrebbe disposto l’avocazione dell’inchiesta del collega Luigi De Magistris nota come “Why not” in applicazione dell’art. 372 lett. "A" c.p.p., sul presupposto di una asserita incompatibilità di De Magistris che sarebbe stata causata dall’iscrizione nel registro degli indagati del Ministro Mastella, che, come noto, è lo stesso che ha chiesto il trasferimento del magistrato che indaga su di lui.

Se la notizia fosse vera (e speriamo vivamente che non lo sia, anche se a tuttora non è stata smentita), si tratterebbe di un fatto di gravità davvero estrema e non solo per ciò che potrà accadere all’inchiesta.

Nei fatti, il C.S.M. non ha accolto, almeno finora, la richiesta di trasferimento di De Magistris avanzata dal Ministro, ma il risultato di impedirgli di indagare ancora è stato raggiunto ugualmente.

In attesa di conoscere ulteriori particolari di questa nuova “tappa” della vicenda di Catanzaro e per offrire ai nostri lettori (che ce li stanno chiedendo) strumenti di analisi dei fatti, vanno fatte tre valutazioni: una tecnica e due latu sensu “politiche”.

Quella tecnica consiste nel dire con chiarezza ai non addetti ai lavori (perché gli addetti lo sanno tutti benissimo) che l’essere il pubblico ministero procedente oggetto di qualunque iniziativa da parte di un indagato, anche se Ministro, non può integrare sotto alcun profilo alcuna delle ipotesi di “avocazione” alle quali fa riferimento il citato art. 372 del codice di procedura penale, perché non può integrare sotto alcun profilo alcuna delle ipotesi di “incompatibilità” disciplinate dalle norme dello stesso codice di procedura.

Anche perchè - e chiunque lo comprende agevolmente - diversamente sarebbe facilissimo "liberarsi" di un pubblico ministero "scomodo" con il semplice denunciarlo e/o, se si è ministri o amici di ministri, facendone chiedere anche infondatamente il trasferimento.

Per maggiore chiarezza riportiamo qui sotto (in fondo, per non appesantire la lettura dell’articolo) il testo letterale delle norme che disciplinano la materia e le sentenze della Cassazione che le applicano.

In definitiva e fermo restando, ovviamente, che ciò che stiamo scrivendo qui sta solo a commento di quanto pubblicato dai media fino ad ora, con l’augurio che nelle prossime ore si sappia che le cose non stanno come riferito, non è giuridicamente possibile per il Procuratore Generale avocare l’inchiesta del collega De Magistris per il solo fatto che in essa è coinvolto il Ministro che ne ha chiesto il trasferimento.

A ciò si deve aggiungere che, se "incompatibilità" dovesse ipotizzarsi, questa era certamente e prima di ogni altra in capo al Ministro della Giustizia, che avrebbe dato luogo a una situazione oggettivamente paradossale sotto il profilo istituzionale di un indagato che chiede, avvalendosi delle sue prerogative di Ministro, il trasferimento del pubblico ministero che indaga su di lui.

Ciò posto in punto di diritto, le due considerazioni latu sensu “politiche” riguardano il fatto che quanto accaduto (o meglio riferito dai media come accaduto) nelle ultime ore fuga definitivamente due dubbi adombrati finora (francamente a noi pare non in buona fede) da taluno.

Infatti, sotto un primo profilo, se fino a ieri qualcuno avrebbe potuto avere ancora dubbi sulla gravità di quanto sta accadendo a Catanzaro e sulla abnormità della situazione prodotta da norme di legge che attribuiscono al Ministro della Giustizia il potere di chiedere il trasferimento dei magistrati, oggi questi dubbi non sono più neppure pensabili: l’ipotesi di un Ministro che utilizzi questo potere in vicende che coinvolgono lui stesso o membri del suo governo non è più, infatti, una ipotesi, ma un caso concreto sotto gli occhi di tutti.

Mentre, sotto altro profilo, se qualcuno ancora avesse avuto dei dubbi sulla gravità e gravidità di conseguenze della posizione “attendista” e “neutrale” dell’Associazione Nazionale Magistrati, anche questi dubbi ormai non sono neppure proponibili.

L’A.N.M. finora ha preso posizione in tre modi (documentati qui e qui):

1. con un comunicato della Sezione di Catanzaro del 3 aprile 2007, che biasima Luigi De Magistris per avere “parlato troppo”;

2. con un deliberato del 4 aprile 2007 (il giorno successivo all'adozione del comunicato di Catanzaro), con il quale la Giunta Esecutiva Centrale si impegnava a “seguire con estrema attenzione” (così testualmente) le vicende di Catanzaro;

3. con il comunicato del 17 ottobre u.s. con il quale la stessa Giunta Esecutiva Centrale si è limitata a sottolineare che le norme di legge che attribuiscono al Ministro il potere di richiedere il trasferimento sono “suscettibili di determinare polemiche ed allarme nell’opinione pubblica”.

Tutto qui.

Nell’articolo di Felice Lima “Luigi De Magistris e ‘la Magistratura’”, pubblicato nel nostro blog e che condividiamo per intero, vengono illustrate le gravi ripercussioni che ha sull’intera vicenda la posizione dell’A.N.M..

Posizione che la Giunta Esecutiva Centrale non ha ancora ritenuto di modificare neppure dopo l’appello rivoltole da 253 magistrati, che pure abbiamo pubblicato qui (e il numero dei sottoscrittori di quell’appello aumenta di giorno in giorno).

Bisogna anche prendere atto del fatto che, indipendentemente da quali fossero e siano le intenzioni di tutti i protagonisti di queste vicende, la situazione venutasi oggettivamente a creare impone delle riflessioni fortemente autocritiche della magistratura in genere e di quella associata in particolare.

Infatti:

1. il Ministro Mastella, solo poche ore dopo il suo insediamento, ha chiamato a ricoprire incarichi di fondamentale importanza nel suo ministero dei magistrati, scegliendo magistrati molto impegnati fino ad allora nell’Associazione Nazionale Magistrati, nella quale avevano anche ricoperto cariche dirigenziali (e i magistrati designati hanno accettato gli incarichi e continuano a ricoprirli ancora oggi e nonostante quello che sta succedendo);

2. a difendere la posizione del Ministro in una importante trasmissione televisiva sui fatti qui in discussione (AnnoZero del 4 ottobre u.s.) il Ministro ha mandato un sottosegretario che prima di accettare quel posto ha ricoperto posti importanti nell’esercizio della giurisdizione e da ultimo era Presidente del Tribunale di Roma;

3. gli ispettori che hanno “indagato” sull’attività del collega De Magistris sono magistrati;

4. Nello Rossi, Consigliere della Corte di Cassazione e Segretario Generale dell’Associazione Nazionale Magistrati, parlando a titolo personale (si può leggere qui) ha scritto che “esistono due magistrature. Una burocratica, timida verso il potere, ossequiente e talora connivente. L'altra – spesso incarnata dai magistrati più giovani – animata da una genuina tensione ideale e dall'ansia di affermare legalità ed eguaglianza per cambiare lo stato delle cose esistenti”.

Così stando le cose, ci si deve chiedere se l’A.N.M. si sia o no accorta di ciò che, a titolo personale, denuncia il suo Segretario Generale e se l’A.N.M. si renda conto o no che si trova davanti a un bivio che non può eludere neppure con le più audaci prudenze lessicali in cui finora si è cimentata.

Infatti, se l’A.N.M. e ciascuna delle correnti che la compongono (e/o alle quali è ridotta) non prenderanno una posizione chiara in questa vicenda, scegliendo con quale stare delle due magistrature indicate dal Segretario Generale, e se ancora una volta l’indipendenza della magistratura dovrà essere difesa solo da una piazza di cittadini di Catanzaro e da gruppi di ragazzi con la faccia pulita, è inevitabile che ognuno – magistrato, cittadino, lettore di giornali, passante – si chiederà: ma a cosa serve esattamente l’A.N.M.? Come già si chiede: se la magistratura non difende da sé la propria indipendenza e se suoi così tanti e così tanto autorevoli esponenti continuano a condividere la responsabilità di una attività ministeriale che appare così tanto lontana dal modello che in tanti auspichiamo, come può continuare a chiedere ai cittadini di averne rispetto e, addirittura, di difenderne le prerogative che rischiano di divenire, a queste condizioni, solo privilegi?

Restano evidenti due cose:

1) che, come sosteniamo in questo blog, esiste un serio problema di mancanza di indipendenza "interna" nella magistratura;

2) che, quanto all'indipendenza "esterna", il governo attuale è in perfetta continuità negativa con il precedente: fra le tante iniziative, basti ricordare qui una riforma dell'ordinamento giudiziario che mantiene la maggior parte delle norme introdotte da Castelli, il "pasticcio" sul segreto di Stato nella vicenda Sismi, l'indulto fatto su misura per l'on. Previti, l'attacco al G.I.P. Clementina Forleo per essersi permessa di chiedere di poter procedere nei confronti di membri del governo, la richiesta di trasferimento del P.M. De Magistris


________________________________________


Le norme e le sentenze della Cassazione.

L’art. 372 del codice di procedura penale è quello che prevede le (uniche) ipotesi di avocazione delle indagini da parte del Procuratore Generale e recita:

“1. Il procuratore generale presso la corte di appello dispone con decreto motivato, e assunte, quando occorre, le necessarie informazioni, l'avocazione delle indagini preliminari quando:
a) in conseguenza dell'astensione o della incompatibilità del magistrato designato non è possibile provvedere alla sua tempestiva sostituzione;
b) il capo dell'ufficio del pubblico ministero ha omesso di provvedere alla tempestiva sostituzione del magistrato designato per le indagini nei casi previsti dall'articolo 36 comma 1 lettere a), b), d), e).
1-bis. Il procuratore generale presso la corte di appello, assunte le necessarie informazioni, dispone altresì con decreto motivato l'avocazione delle indagini preliminari relative ai delitti previsti dagli articoli 270-bis, 280, 285, 286, 289-bis, 305, 306, 416 nei casi in cui è obbligatorio l'arresto in flagranza e 422 del codice penale quando, trattandosi di indagini collegate, non risulta effettivo il coordinamento delle indagini previste dall'articolo 371 comma 1 e non hanno dato esito le riunioni per il coordinamento disposte o promosse dal procuratore generale anche d'intesa con altri procuratori generali interessati”
.

L’art. 36 c.p.p. dispone:

“1. Il giudice ha l'obbligo di astenersi:
a) se ha interesse nel procedimento o se alcuna delle parti private o un difensore è debitore o creditore di lui, del coniuge o dei figli;
b) se è tutore, curatore, procuratore o datore di lavoro di una delle parti private ovvero se il difensore, procuratore o curatore di una di dette parti è prossimo congiunto di lui o del coniuge;
c) se ha dato consigli o manifestato il suo parere sull'oggetto del procedimento fuori dell'esercizio delle funzioni giudiziarie;
d) se vi è inimicizia grave fra lui o un suo prossimo congiunto e una delle parti private;
e) se alcuno dei prossimi congiunti di lui o del coniuge è offeso o danneggiato dal reato o parte privata;
f) se un prossimo congiunto di lui o del coniuge svolge o ha svolto funzioni di pubblico ministero;
g) se si trova in taluna delle situazioni di incompatibilità stabilite dagli articoli 34 e 35 e dalle leggi di ordinamento giudiziario;
h) se esistono altre gravi ragioni di convenienza.
2. I motivi di astensione indicati nel comma 1 lettera b) seconda ipotesi e lettera e) o derivanti da incompatibilità per ragioni di coniugio o affinità, sussistono anche dopo l'annullamento, lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio (…)”
.

Infine, l’art. 53 del codice di procedura penale, che si intitola “Autonomia del pubblico ministero nell'udienza. Casi di sostituzione”, dispone:

“1. Nell'udienza, il magistrato del pubblico ministero esercita le sue funzioni con piena autonomia.
2. Il capo dell'ufficio provvede alla sostituzione del magistrato nei casi di grave impedimento, di rilevanti esigenze di servizio e in quelli previsti dall'articolo 36 comma 1 lettere a), b), d), e).
Negli altri casi il magistrato può essere sostituito solo con il suo consenso.
3. Quando il capo dell'ufficio omette di provvedere alla sostituzione del magistrato nei casi previsti dall'articolo 36 comma 1 lettere a), b), d), e), il procuratore generale presso la corte di appello designa per l'udienza un magistrato appartenente al suo ufficio”.

Non riportiamo il testo degli artt. 34 e 35, richiamati nella lettera g) dell’art. 36, perché palesemente estranei al caso qui in discussione.

Quanto alla ipotesi di “inimicizia grave” di cui alla lettera d) dell’art. 36, va detto che è assolutamente e incontrovertibilmente pacifico, per costante e univoca giurisprudenza della Corte Suprema di Cassazione che “la presentazione di una denuncia contro un magistrato non è da sola sufficiente ad integrare l’ipotesi di ricusazione di cui all’art. 37 comma 1 lett. a), in relazione all’art. 36 comma 1 lett. d) c.p.p., poiché il sentimento di grave inimicizia, per essere pregiudizievole, deve essere reciproco, deve nascere o essere ricambiato dal giudice e deve trarre origine da rapporti di carattere privato, estranei al processo, non potendosi desumere semplicemente dal trattamento riservato in tale sede alla parte, anche se da questa ritenuto frutto di mancanza di serenità (Cassazione penale, Sez. II, 18 giugno 2003, n. 30443).

Nello stesso senso, fra le tante, anche Cassazione penale, Sez. VI, 28 settembre 2005, n. 41027, Cassazione penale, Sez. V, 16 dicembre 2004, n. 3756, Cassazione penale, Sez. VI, 31 gennaio 2003, n. 30577, Cassazione penale, Sez. VI, 17 dicembre 2002, n. 2273, Cassazione penale, sez. VI, 9 marzo 1999, n. 855, Cassazione penale, Sez. I, 15 gennaio 1999, n. 396, Cassazione penale, Sez. I, 25 giugno 1996, n. 4336, Cassazione penale, Sez. I, 27 marzo 1992. E Cassazione penale, Sez. VI, 6 luglio 1995, n. 2830, per la quale “in tema di ricusazione non può confondersi l’inimicizia fra magistrato e parte con le iniziative di quest’ultima, tesa a sottrarsi al proprio giudice naturale. L’inimicizia, infatti, deve trovare fondamento in rapporti personali svolti in precedenza al di fuori del processo.



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La “Giustizia” tradita e strumentalizzata dal “Potere”


In questi anni e in questi giorni assistiamo, purtroppo e con grande dolore, all’uso (abuso!) della “Giustizia” come strumento di difesa del “Potere” e degli assetti economici e di benessere di una minoranza della popolazione mondiale e nazionale ("Potere" qui non indica solo chi governa, ma anche coloro che a chi governa danno mandato di farlo in uno specifico modo).

Si fanno guerre di occupazione per il mantenimento del potere sul petrolio, chiamandole “Giustizia infinita”; per mantenere il livello di benessere dell’occidente, si nega asilo politico ai tanti extracomunitari che, a norma della costituzione e degli accordi internazionali ne hanno diritto, dichiarandoli tutti e indistintamente “clandestini” e promulgando norme penali che li “criminalizzano”; si “ripuliscono le strade” dai lavavetri, chiamando l’operazione “pacchetto sicurezza” e parlando di “guerra al crimine” e di “tolleranza zero”; si promuove una legislazione “a doppio binario”, forte con i deboli e debole con i forti, per la quale oggi in Italia la vendita di una borsa Luois Vuitton palesemente falsa (e dunque tale da non potere togliere clienti alla Louis Vuitton, perché nessuno che voglia quella vera comprerebbe quella falsa) è punita molto molto di più di un falso in bilancio da un milione di euro, che in moltissimi casi non è punibile per niente.

E tutto, “in nome della Giustizia”.

E chi cerca di far conoscere il costo in dolore e vite umane che questa “politica” comporta, viene zittito e, bisogna avere il coraggio di dirlo, censurato adducendo che quei “costi umani” sono “costi inevitabili”, “danni collaterali” necessari per ottenere “il mondo perfetto”, l’“eden di benessere economico” promesso dalle politiche eudemonistiche sempre più praticate.

La “tecnica” di queste politiche consiste nel promettere ai cittadini/sudditi benessere e felicità sempre più “grandi”, nascondendo dietro le promesse di benesseri e felicità future l’inferno attuale, l’ingiustizia e la violenza con la quale quel benessere e quella felicità vengono perseguiti.

Questa è la “tecnica base” di tutti i totalitarismi.

Così milioni di bravi tedeschi, inseguendo il sogno di una Germania e di un mondo perfetti hanno sterminato sei milioni di ebrei; così milioni di bravi russi, inseguendo il sogno di un socialismo perfetto, hanno sterminato milioni di altri russi.

Così, purtroppo, oggi milioni di bravi italiani stanno inseguendo gli stessi sogni di benessere e sicurezza a “tolleranza zero” nascondendo a se stessi e agli altri "i costi umani" di questi "sogni".

Bisogna riflettere e far riflettere sul fatto che non si può consentire che questo sia fatto “in nome della giustizia”.

Si perseguono politiche economiche che aumentano costantemente il numero degli emarginati e dei nuovi poveri, senza comprendere che la c.d. "microcriminalità" è anche frutto di queste condizioni di disagio e di non integrazione. E ci si illude che a tutto questo si possa porre rimedio continuando a perseguire le stesse politiche, ma "aumentando le pene" senza una logica e tacendo il fatto che, a causa di un sistema penale mantenuto inefficiente perchè non possa "dar fastidio" ai potenti, quelle pene non vengono scontate se non solo in parte e solo dai poveracci.

Si riduce così la "giustizia" a una forma impropria e inefficace di "repressione", spesso ingiusta, e si diffonde la convinzione che "il fine giustifichi i mezzi".

Ma nulla giustifica l'ingiustizia e la politica - essenziale per la vita di ogni società - non dovrebbe ridursi a imbonimento e demagogia.

Pubblichiamo, su questi temi, un estratto di uno scritto di Gustavo Zegrebelsky tratto dal quotidiano “La Repubblica” del 16 novembre 2004.

Per una maggiore comprensione dei concetti espressi dal prof. Zagrebelsky, è utile la lettura di un altro scritto proprio sul tema dei pericoli insiti nelle politiche eudemoniste, che abbiamo pubblicato, intitolandolo "Democrazia e principi. Il pericolo delle politiche eudemoniste".

Gustavo Zegrebelsky è professore di Diritto Costituzionale. E’ stato Giudice e Presidente della Corte Costituzionale fino al 13 settembre 2004.

Sulla ingiustizia e inefficacia delle misure "anticrimine" (?!) contro lavavetri e simili, si veda anche l'articolo di Bruno Tinti "Le responsabilità della politica nella crisi della giustizia".

_____________


di Gustavo Zagrebelsky
(Professore di Diritto Costituzionale. Ex Giudice e Presidente della Corte Costituzionale)


Che la giustizia abbia a che fare con atteggiamenti non razionali dovrebbe essere chiaro già per il fatto che essa attiene a valori. Le cosiddette scelte di valore sono oggetto di percezioni e propensioni non giustificabili razionalmente, cioè non attraverso speculazioni o dimostrazioni. Del resto, il linguaggio, anche qui testimone attendibile, parla di senso o sentimento di giustizia. La giustizia solo come idea o teoria appare quando il razionalismo della nostra civiltà ha iniziato a pretendere, nella ricerca della natura delle società, di lasciare da parte, perché non scientifico, tutto ciò che non è ragionamento e calcolo. Così esso si è esteso oltre misura, mettendo nell’angolo l’altra metà delle facoltà dello spirito umano e inducendo a trascurare strumenti di conoscenza che possono talora perfino giungere là dove la ragione non arriva.

In effetti, i giuristi hanno qualche volta tentato una rivincita sul razionalismo, cercando di trarre da un fondamentale e originario “sentimento del diritto” degli esseri umani norme di giustizia sottratte alle critiche relativistiche alle quali sono esposte le nozioni puramente razionali. Questo sentimento consisterebbe nella naturale reazione contro azioni che repellono, prima e indipendentemente dall’esistenza e dalla conoscenza di una norma che le vieti. Insomma, una sorta di giusnaturalismo del sentimento, invece che della ragione, con questa essenziale differenza: che il primo, diversamente del secondo, non pretende di costruire la giustizia in terra ma si limita a rivoltarsi contro l’ingiustizia. Non è lo stesso.

Il sentimento dell’ingiustizia si ribella all’inferno in terra; la scienza della giustizia mira a costruirvi il paradiso. Soprattutto, il sentimento di ingiustizia è dei deboli e degli oppressi; la scienza della giustizia, dei forti e, forse, degli oppressori.

Questo spostamento dalla scienza al sentimento, dalla ragione alla percezione, potrebbe tuttavia sembrare anch’esso destinato al fallimento, esattamente come i tentativi di racchiudere la giustizia in un formula astratta. I sentimenti di giustizia degli uomini sono diversi e contrastanti: quelli dei possidente che vive di rendita non saranno gli stessi del disoccupato o dei lavoratore salariato con posto di lavoro a rischio; quelli del filantropo, non gli stessi del misantropo; del cosmopolita, non del nazionalista razzista; del mite, non del prepotente, ecc..

Questa osservazione è giustificata in quanto dal sentimento di giustizia si pretenda troppo. Se si esagera, effettivamente la critica che fa leva sulla relatività dei contenuti, fa breccia. Occorre rimanere al minimo, che, proprio in quanto tale, è fondamentale.

Il minimo fondamento sta nella risposta alla grande domanda di tanto in tanto riaffiorante, ma sempre accantonata con senso di fastidio: se si possa mai accettare il male inferto all’innocente – intendo il male inferto consapevolmente –, fosse pure per il fine più elevato, come la felicità del genere umano o l’armonia universale.

La sofferenza dell’innocente, la lacrima di un bambino, può stare in bilancia con il bene dell’umanità? La risposta, naturalmente, è no. Il bene non può consapevolmente fondarsi sul male. Se si è disposti a versare una lacrima innocente, si sarà disposti a versare fiumi di sangue. Basterà alzare il prezzo della felicità promessa. La risposta positiva alla domanda, a ben pensarci, oltre che moralmente insostenibile, sarebbe anche l’inizio della guerra di tutti contro tutti.

Ma qui vediamo la nostra ipocrisia, perché l’intera nostra storia è fondata proprio su questo intreccio di bene e male, moralmente ingiustificabile. Il primo celebre stasimo di Antigone, che celebra l’essere umano e le sue opere sotto l’ambiguità delle molte cose mirabili e al tempo stesso esecrabili (pollà ta deinà), esprime splendidamente ammirazione e costernazione di fronte a questa terribile duplicità. Al passo sofocleo, che Martin Heidegger considerava sintesi dell’intera storia dell’Occidente, si affianca il lamento dell’Ecclesiaste (7, 20): “Certo non vi è uomo giusto sotto il sole il quale, facendo il bene, non faccia il male”.

Il male inferto all’innocente, cioè l’ingiustizia assoluta, può razionalmente essere giustificato: come “prezzo” del progresso, per esempio.


Ma non è tollerabile esistenzialmente, quando entrano in gioco facoltà di percezione e comprensione diverse da quelle razionali. Sto parlando non dei mali naturali, rispetto ai quali non ci può essere che rassegnazione o disperazione: qui è all’opera l’humana conditio e non c’è nulla da fare. Parlo di chi, con la propria azione, coscientemente, anche se non intenzionalmente, produce fame, malattie, oppressione, sterminio di esseri umani. Non è questa la vista di un’ingiustizia rivoltante? Il sentimento di giustizia di tutti, al di là delle diverse idee di giustizia che professiamo, non si mobiliterebbe sol che se ne avesse chiara la visione?

Come è possibile l’indifferenza di fronte alla sofferenza dell’innocente, l’ingiustizia assoluta? Quella, ad esempio, inferta ai più innocenti tra tutti, i bambini e gli animali (“la debole cavallina dai miti occhi”), di cui parla Ivàn Karamazov, nel dialogo col fratello Alésha che introduce alla Leggenda del Grande Inquisitore: quell’ingiustizia che rende il mondo inaccettabile e trasforma in oscena bestemmia la promessa apocalittica (15, 3) dell’intervento divino che, alla fine dei tempi, ricondurrà tutto a “suprema armonia”: il torturato che si riconcilia col torturatore, la vittima col carnefice, il lupo con l’agnello. E la stessa cosa non avverrebbe, se solo le si vedesse, di fronte alle sofferenze di cui sono testimoni i volontari della solidarietà e dell’informazione che non disdegnano di guardare in faccia, senza filtro di teorie – teorie che consentono di darsi una ragione di qualsiasi, proprio di qualsiasi cosa –, la realtà degli ospedali del terzo e quarto mondo, delle periferie d elle megalopoli, delle strade di paesi tormentati da guerre, violenze, sfruttamento; la realtà dei luoghi di segregazione dove il dominio dell’uomo sull’uomo è assoluto; dei campi militarizzati di lavoro forzato infantile che sono le miniere di pietre preziose nell’Africa centro-meridionale e nell’America latina, eccetera, eccetera, eccetera.

Finché non si resterà insensibili di fronte a questi spettacoli ed essi continueranno a fare scandalo, il sentimento di giustizia non sarà spento.

Non si saprebbe dire se per natura o per cultura. Se si pensa alla sofferenza degli inermi offerta al divertimento delle plebi negli spettacoli pubblici, dall’antichità a qualche secolo fa, si dovrebbe dire: per cultura, non per natura. Nei tempi nostri, faremmo fatica a immaginare uomini di governo che si fanno belli di questa sofferenza, la producono consapevolmente per offrirla come dono all’opinione pubblica. Il giorno in cui essa genererà solo indifferenza o addirittura divertimento, il discorso sulla giustizia come valore generale sarà chiuso.

Ma non è ancora così. Le pratiche d’ingiustizia si compiono di nascosto e richiedono un senso di umanità anestetizzato dall’uso di sostanze intossicanti e un senso morale deviato con lavaggi ideologici del cervello. In condizioni normali non sarebbero possibili Sonderkommando e gli aguzzini dei lager nazisti, gli squadroni della morte in giro per il mondo, ci parlano di assunzione previa di alcool e droghe. La tecnologia della sofferenza all’opera in carceri speciali o in operazioni belliche specializzate presuppone l’indottrinamento intensivo dei suoi agenti. Sarebbe di grande interesse la lettura dei testi su cui si forma la psicologia di quanti sono impiegati In compiti al o oltre il limite del senso di umanità; sarebbe istruttivo partecipare ai “corsi di formazione” organizzati, con l’ausilio di psicologi, espressamente per loro. E altrettanto istruttivo è l’ottundimento delle coscienze ottenuto tramite la scientifica burocratizzazione o, secondo Hannah Arendt, banalizzazione della morte e del terrore, che pianifica i crimini e solleva le coscienze.

Al contrario, non risulta che per elaborare le idee “di giustizia” del darvinismo sociale – cioè l’applicazione alla razza umana del principio della sopravvivenza del più forte e dell’annientamento del più debole – o della divisione dell’umanità in razze superiori e inferiori, tanto per fare l’esempio di due dottrine criminali, sia stata necessaria l’assunzione di sostanze. Non risulta cioè che Spencer o Gobineau abbiano dovuto forzare artificialmente la loro natura per scrivere Individuo e Stato o Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane.

Non si devono però squalificare teorie e idee generali. La rivolta all’ingiustizia ha alla base una propensione e una passione, ma abbisogna della ragione. A questa compete individuare le cause del male da estirpare e proporre misure per eliminarle. Ma non si tratta di idee e teorie di giustizia come progetti politici. La giustizia viene prima, la politica dopo; la politica è funzione della giustizia, non il contrario; la giustizia non è valore finale ma principio o movente della politica. Essa sta alle nostre spalle, come dovere morale impegnativo; non sta davanti a noi, come il sol dell’avvenire che dobbiamo rincorrere. La differenza è radicale: come principio di ogni nostra azione, la giustizia non può mai giustificare un’ingiustizia, un mezzo ingiusto; come valore a cui tendere, potrebbe giustificare qualunque cosa sia ritenuta necessaria per raggiungerlo. La giustizia come principio, ma non come valore, contrasta evidentemente con le filosofie della storia orientate ai grandi orizzonti del progresso dell’umanità, ma insensibili alle sorti personali di milioni di esseri umani, sempre posposte, ai progetti di potenza di regni e repubbliche, gerarchie religiose e sistemi economici, oggi inneggianti al mercato illimitato.

L’interrogativo urgente che la giustizia solleva nei nostri giorni è quello dell’accettabilità in nome suo dell’uso della forza, della guerra, in quanto ci siano di mezzo popolazioni inermi, o anche soltanto (soltanto?) individui – i soldati – la cui libertà è costretta dalla necessità o dalla disciplina.

La risposta all’interrogativo, secondo la giustizia degli inermi e degli innocenti, è no, mai.

Se si risponde di sì, in quanto vi sono violenze giustificate in guerre dettate da giusti motivi, ciò significa che la giustizia è vista dalla parte non delle vittime ma dei potenti, per i quali la parola giustizia è un mezzo per celare altre cose, come la politica di potenza, la difesa della sicurezza e del livello di vita, l’identità religiosa, eccetera: cose più o meno nobili che, comunque, sono diverse e hanno altri nomi.

Possiamo terminare così: la giustizia è l’altra faccia di ogni cosa. Ogni cosa può essere vista da due lati, quello del potere e quello di chi subisce il potere.

Non si approprino i potenti di quello che loro non spetta ed è spesso l’unica risorsa che resta agli inermi: l’invocazione di giustizia.

Non pretendano di rendere unico ciò che è sempre duplice, di confondere con la giustizia la loro forza e le loro mire.

Lascino la giustizia a chi ne ha fame e sete.

Noi rammentiamo ancora una volta, col deinòs di Antigone e con le parole dell’Ecclesiaste, l’intimo intreccio di bene e male e comprendiamo che, in tutte le cose, la giustizia ha a che fare con il lato del dolore, con l’inferno in terra delle nostre società, non con il lato del benessere, con il paradiso che gli uomini di potere fanno mostra di voler realizzare attraverso i loro programmi.


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