lunedì 31 marzo 2008

"Penso che le cose vadano scritte ..."


Da alcuni giorni abbiamo inserito un video in fondo alla sidebar di destra del blog.

E’ una clip tratta da una pubblicità del giornale “Il Manifesto”, recitata da Jasmine Trinca.

L’abbiamo “presa in prestito”, perché esprime una parte delle ragioni che ci hanno spinto ad aprire questo blog.

Insomma, scusandoci con tutti per l’“appropriazione indebita”, facciamo nostra questa pubblicità.

Riportiamo qui la clip (che, comunque, resterà sempre disponibile in fondo alla sidebar di destra) e ne trascriviamo il testo.

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Penso che ho voglia di discutere e litigare su tutto.

Penso che mi fanno paura quelli che dicono che tanto non cambia mai niente.

Penso che aspetto l’estate per la frutta e per i vestiti leggeri.

Penso che le cose vadano scritte, così rimangono.

Penso che vorrei viaggiare metà della vita.

E penso che ho ancora tanto da dire.


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sabato 29 marzo 2008

Le ragioni della speranza


Versione stampabile


In calce al post “E’ solo giustizia”, con il quale Emanuele Scimone commentava la sentenza di appello che ha confermato la condanna all’ergastolo per gli assassini di Graziella Campagna, un nostro lettore ha scritto un commento che vogliamo riproporre all’attenzione di tutti, perché tratta – in un modo che noi condividiamo profondamente – il tema della speranza/disperazione rispetto ai fatti che vediamo accadere ogni giorno.

L’autore del commento lo ha firmato con il suo nick – “Il cane di Jack” – e, andando a cercare nel suo blog la spiegazione di questo nick l’abbiamo trovata e ci è piaciuta anche quella.

Così che, dopo il commento sulla speranza, riportiamo anche la filosofia di vita del “cane di Jack”, perché possa essere anche quella occasione di riflessione per tanti che sembrano cercare sempre e solo motivi per non lottare. Perché questo, in definitiva, sono sempre i discorsi in cui si nega la speranza, in cui ci si lamenta, in cui si afferma che “non c’è più niente da fare”: alibi per giustificare il disimpegno.

Noi pensiamo che l’impegno non sia frutto della convinzione che “c’è speranza”, che non sia conseguenza del pensiero che “si vincerà” o anche solo che “si potrebbe vincere”.

A noi pare che l’impegno sia l’unico modo di stare al mondo, di dare un senso alla vita.

Chi pensa che il nostro ideale debba essere un mondo perfetto, nel quale il male non c’è più e il bene ha vinto stabilmente, si disilluda. Il suo è solo un sogno, per giunta ingenuo.

La vita di ogni uomo è una battaglia quotidiana fatta di scelte piccole e grandi che ci fanno essere ciò che siamo.

E dunque anche la vita delle nostre società è una battaglia quotidiana figlia delle scelte di ciascuno.

Finché ci sarà vita sul pianeta, il bene non sarà stabilmente affermato, ma dovrà essere quotidianamente cercato e perseguito.

E finché ci sarà vita una moltitudine di persone, alcuni per malizia, altri per ottusità, altri ancora per necessità, faranno le scelte sbagliate.

Non ci può essere libertà senza accettazione delle sue conseguenze.

La libertà fa sì che tanti siano veri uomini e vere donne, ma anche, inevitabilmente, che altrettanti (se non , purtroppo, di più) siano, come li definiva Geoges Bernanos, «degli spaventosi mostri non sviluppati, dei moncherini d’uomo».

Per conservare un senso alla nostra vita, dobbiamo capire il perché di questo, avere misericordia di loro e di noi, accettare che vivere è lottare. Sempre. Perché, come diceva qualcuno, la morte ci trovi vivi.

Non sappiamo chi è buono e chi è cattivo. Sappiamo che, come diceva il protagonista del film “Braveheart” (fra tante citazioni “nobili”, permettetecene una più “popolare”), «tutti muoiono, ma non tutti vivono veramente». Noi stiamo “vivendo veramente” e vi invitiamo a fare lo stesso.

Sul tema della libertà, permetteteci di rinviare a una delle prime cose che abbiamo riportato sul nostro blog: “La leggenda del Grande Inquisitore”, di un immenso Dostoevskij.

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Il commento de “Il cane di Jack” al post “E’ solo giustizia”:


«Io invece mi sento obbligato ad essere fiducioso.

La fiducia, a mio modesto avviso, dovrebbe essere considerata un dovere costituzionale, al pari e più del dovere di difendere la patria.

Accade infatti che, in casi come questo, malgrado i carabinieri, malgrado i cancellieri, malgrado i giudici, o forse con il contributo minimo di ciascuno di loro, magari svogliato e poco efficace, la Giustizia comunque faccia il suo corso.

So che non è abbastanza per essere soddisfatti, ma è un qualcosa che comunque ci consente di sperare.

Ma ci sono altre cose che mi fanno sperare: la rete, fino a quanto esisterà, è un fantastico luogo per fare circolare le idee, per incontrarsi, per crescere, per imparare a dialogare, per cercare di costruire una massa critica di persone che troveranno prima o poi le motivazioni comuni per cambiare il mondo (detto incidenter tantum la rete è un pericolo per il potere, prima o poi tenteranno di scipparcela :-).

Qui tutti hanno la parola: per me è una felicità poter dire la mia e ascoltare le ragioni degli altri, che possono essere gente umile, onesti tiratori di slitta come me, oppure persone di maggiore cultura e preparazione.

Tutto questo purché domani cerchiamo di dare un piccolo segno concreto di cambiamento nelle nostre vite e nell’ambiente che ci circonda.

Per tornare più in tema con il post commentato, ho cercato di pensare a cosa facevo io negli anni in cui la povera Graziella è stata ammazzata.

Nel 1985 avevo la stessa età, più o meno, di Graziella Campagna.

Mi ricordo bene il senso di solitudine e di scoramento che mi seguiva in quel periodo.

Non mi piaceva affatto la politica di allora: il livello culturale dei politici era più alto di oggi, ma l’ipocrisia era la stessa e il clientelismo faceva moltiplicare i posti di lavoro alle poste, alle ferrovie, nei comuni e nei ministeri.

Il sistema consentiva vergognosamente che la gente andasse in pensione a poco più di quarant’anni.

Tutto mi spingeva a credere che avrei dovuto scendere a pesanti compromessi per trovare un lavoro.

Non è successo, faccio un lavoro da “cinghia di trasmissione”, non l’avvocato, non il giudice e neanche il notaio, ma nulla mi ha dato tanta soddisfazione nella mia vita come respirare la fresca aria della libertà del non dovere favori a nessuno.

E poi, anche per altri versi, se ci penso devo arrivare alla conclusione che il mondo non è poi così cambiato, anzi per certi versi oggi è migliorato: oggi, di tanto in tanto, e con notevoli ritardi, si possono scrivere buone sentenze; forse quando ero giovanissimo io non era così.

Cara Graziella, non ti conoscevo, ma ti voglio bene e spero che tu ora, che sei sopra le nostre lamentele e i nostri goffi tentativi di farti giustizia, ce ne possa volere altrettanto.

Saluti a tutti.

“Il cane di Jack”»

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La filosofia de “Il cane di Jack”:


«Sono il cane di Jack.

Uno dei cani di Jack, a dire il vero.

Il mio mestiere è tirare la slitta su grandi distese di neve, tra boschi, su laghi ghiacciati.

A me non importa di essere uno dei cani di Jack.

Credo che sia difficile da capire come si possa finire con l’adattarsi ad essere il secondo o il terzo o il quarto nel tiro, ma continuo a tirare perché detesto essere un peso.

La sera quando il fuoco è acceso sento tutta la nostalgia della libertà, ma non venderei la mia anima né per una gustosa porzione di carne in scatola, né per una cagnetta in calore che fa la smorfiosa.

Io tiro ma non do la mano al mio padrone e non corro scodinzolando dietro a ossi di plastica.

Io calpesto pianure interminabili e scalo colline e montagne.

Affronto tempeste.

Attraverso valichi, trasporto uomini e cose attraverso sentieri che pochi oltre il cane e l’uomo osano sfidare.

Il mio padrone non nutre nessun sentimento, nemmeno di affetto nei miei confronti.

A lui importa solo che io abbia la forza per fare il mio lavoro; per questo continua a nutrirmi.

Io lo rispetto ma non lo amo.

L’amore si basa sulla libertà e io sono solo il cane a cui dà da mangiare perché questo lo salva dal perdersi a nord.

Quest’aria gelida e questa fatica sono tutto quello che mi resta (e non è poco, te lo assicuro) fino a quando, dentro me stesso, non troverò il coraggio di andare via, scomparendo in una bella foresta di questo posto chiamato Klondike».



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venerdì 28 marzo 2008

Mozzarella alla diossina. Non è una bufala.


di Emanuele Scimone
(Blogger di Stostretto)


La Corea prima ed il Giappone dopo, bloccano le importazioni dall’Italia.

In un paio di giorni il crollo delle vendite ha causato secondo il consorzio mozzarella di bufala DOP un danno da 30 milioni di euro.

L’intervento è immediato. Ministero degli Esteri , della Salute, delle Politiche Agricole, Commercio Estero insieme a Regione Campania e tutte le ASL competenti, si ergono a difesa del prodotto “made in Italy”.

E’ tutto sotto controllo, ogni allarme è immotivato.

Si cerca di convincere i clienti esteri che è tutto a posto, i controlli funzionano.

Intanto però scattano sequestri cautelativi per più di 60 allevamenti.

Un po’ di mozzarella si blocca alle frontiere asiatiche, un bel po’ di soldi vanno in fumo e tutti si agitano, indagano e sequestrano.

Si invia in tutta fretta un rapporto di verifica alla Commissione Europea.

La reazione del governo è immediata e decisa.

Nessun allarme di contaminazione. Le prove sui campioni non rivelano nulla.

I solerti funzionari campani e quelli nei ministeri tentano di mettere una pezza.

La verità sulla Campania è assai diversa.

In alcune aree della Campania come Acerra e Cercola sono stati misurati nel terreno picchi di 50 e più picogrammi di diossina e si deve ricordare che a Seveso, per 49,6 picogrammi, intervenne l’Esercito con reparti specializzati per la bonifica.

La diossina è persistente nell’ambiente: inquina terreno, falde acquifere, vegetali; si accumula nell’organismo di uomini ed animali, è molto tossica.

Riporto di seguito alcuni brani dell’inchiesta giornalistica Terra Bruciata realizzata da Bernardo Iovene per Report.

Ciò che appare è che per dieci anni la Campania è stata invasa dai rifiuti speciali altamente tossici, fatti arrivare dalla Camorra con l’appoggio di parti importanti delle istituzioni.

Gli indici relativi alle morti per cancro sono altissimi.

Gli indici di contaminazione da diossina sono allarmanti.

Ma il problema per tutti sembra quello di poter vendere le mozzarelle anziché salvare le popolazioni.

Il Corpo forestale dello Stato ha segnalato alla procura della Repubblica una serie di percentuali e di picchi di concentrazione di diossina (che nella norma dovrebbe essere di 3 pg per grammo) di 27, se non 50 pg per grammo di terreno.

Le risultanze investigative si legge in un comunicato diffuso dalla Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, che coordina le indagini, hanno consentito di ipotizzare le cause dell’evento, consistenti nelle reiterate attività abusive di discarica e abbandono dei rifiuti e dall’incenerimento degli stessi.

Nel comune di Acerra, località Calabricito, la Sogin ha recintato un terreno dove la presenza di diossina è 10 mila volte superiore ai limiti imposti dalla legge.

Ma qua sotto ci sono anche rifiuti tossici.

Intorno è tutto coltivato e pascolano le pecore.

Le pecore dei Cannavacciuolo hanno pascolato in tutta la zona agricola di Acerra, dove negli anni si è insediata anche la Montefibre, una fabbrica di poliestere inquisita per omicidio colposo a seguito della morte di numerosi operai con patologie legate anche all’uso di sostanze cancerogene e diffidata per inquinamento della falda.

Antonio Limone – Commissario istituto zooprofilattico:
“Dove abbiamo trovato la positività, quelle greggi sono state messe sotto sequestro, il latte è stato distrutto. Abbiamo trovato la diossina e abbiamo bloccato la produzione”.

Quindi qualcuno aveva sversato liquidi nella falda. I proprietari dei terreni fecero un esposto alla procura, ai Ministri dell’Ambiente e della Sanità, ma non si è mossa una foglia.

Maria Cristina Ribera – Sost. Procuratore antimafia – Napoli:
“Se in questi impianti di compostaggio solo falsamente viene effettuata la lavorazione. Sempre falsamente questi rifiuti vengono spacciati come compost ovvero fertilizzante e quindi vengono smaltiti sui terreni”.

Il fatto accertato è che da novembre 2002 qualcuno ha spalmato sulle campagne di tutta la provincia a nord di Napoli, cioè Acerra, Giuliano, Qualiano, Bacoli, Villaricca, Caivano, 1 milione di tonnellate rifiuti pericolosi di origine industriale, provenienti anche dal Veneto.

Hanno certificato, per esempio, che l’80% dei pozzi del comune di Acerra è inquinato da sostanze cancerogene: metalli pesanti, diossine e solventi.

I pozzi sono stati sigillati, questo, per esempio è il pozzo numero 116, dovrebbe esserci un lucchetto, ma non c’è, qualcuno li rompe e i contadini continuano ad usarli.

Espedito Marletta – Sindaco di Acerra:
“Noi non possiamo andare ogni giorno a controllare, cioè nelle attività della polizia municipale un controllo quotidiano richiederebbe …”

Donato Ceglie – Magistrato:
“Negli anni è successo che la provincia di Caserta è stata utilizzata senza ombra di dubbio per imponenti smaltimenti illeciti”.

“Si è messa in moto un’economia illecita, criminale ma abbastanza alla luce del sole e quindi laddove c’era una cava abusiva, laddove c’era un fosso, è stato riempito ed è stato riempito di rifiuti”.

“Ed è facile leggere il motivo economico. Affidarsi agli eco-criminali, affidarsi agli eco-mafiosi, consente un abbattimento dei costi, a fronte di un corretto smaltimento dei rifiuti, pari fino a circa il 90%”.

“Le indagini del mio ufficio hanno portato da un lato, a sequestrare oltre 2000 discariche”.

Cipriano Cristiano – Sindaco di Casal Di Principe:
“Abbiamo l’84% delle malformazioni … l’84% in più rispetto alla media nazionale di malformazioni, quindi di nascite. E abbiamo un incidenza che è il doppio per quanto riguarda tumori, sia del polmone, sia a livello gastroenterico”.

Donato Ceglie – Magistrato:
“L’intera produzione di fanghi derivanti dalla rete di depuratori delle acque operanti nella regione Campania … l’intera produzione di fanghi prendeva vie illegali, e attraverso una falsa attività di recupero e di trasformazione del fango tossico del rifiuto, in apparente compost o ammendante per l’agricoltura, il fango tossico veniva poi tranquillamente abbandonato mediante spargimento su ettari ed ettari della Regione Campania ma anche della Puglia”.

“Queste attività sono state tele riprese, i carabinieri erano appostati nei pressi dei terreni, nei pressi degli impianti, sulle sponde dei fiumi dove i rifiuti venivano abbandonati. Abbiamo ottenuto brillanti risultati, sul piano delle indagini e sul piano dei riscontri giudiziari, ma è avvilente constatare che in tutto questo ciclo di attività non hanno funzionato per niente i controlli amministrativi, in altri termini, o interviene la procura della Repubblica che si avvale di Carabinieri, Corpo Forestale dello Stato, Guardia di Finanza, o altrimenti non interviene nessuno”.

“E tutto accade sotto gli occhi di tutti alla luce del sole”.

“I dati acquisiti dal mio ufficio fanno riferimento ai numeri di esenzioni ticket per malattie tumorali, numero esenzioni ticket per malattie tumorali. Bene, i distretti sanitari della provincia di Caserta, segnatamente dell’Agro Aversano, attestano inequivocabilmente che siamo in presenza di un impennata di esenzioni ticket per malattie tumorali in alcune aree fino al 400 %. Questo dal 1999 in poi”.

Intanto ad Acerra, dove le pecore muoiono uccise dalla diossina ed interi greggi vengono abbattuti, né l’istituto superiore di sanità né le Asl avevano pensato di fare le analisi sugli abitanti, ma solo sulle pecore. E così un gruppo di nove persone, compresi i pastori, se le sono fatte fare in Canada a proprie spese. E questi sono i risultati: se nelle pecore sono presenti 38 picogrammi, negli uomini invece …

Giampiero Angeli:
“Dai 40 picogrammi per arrivare ad un massimo di 74 picogrammi sui vivi. Perché questo caso che ha 255 picogrammi di valore tossico equivalente purtroppo è deceduto di un tumore fulminante. Ed è proprio il pastore di quel gregge di cui io parlavo”.


In questo paese fa più rumore una mozzarella che scade in un deposito di dogana in Giappone che un uomo che muore di cancro.



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giovedì 27 marzo 2008

Magistratura, politica e società


Prendendo spunto da alcuni provvedimenti giudiziari che hanno avuto molta eco sulla stampa, si è dibattuto in questi ultimi mesi sul rapporto fra la magistratura e la società. Pubblichiamo alcune riflessioni di Marco Panicucci, tratte da una mail che Marco ha inviato nei giorni scorsi alla mailing list dell’Associazione Nazionale Magistrati.


di Marco Panicucci
(Giudice del Tribunale di Genova)


Ricordate gli anni settanta? La prima repubblica, il “prima” di tangentopoli?

Ricordate la DC, il partito di maggioranza relativa?

Era una galassia, composta da numerosi pianeti, a volte lontani l’uno dall’altro, ciascuno preso dalla sua orbita.

Tutti potevano far parte di quella galassia e, qualunque fosse la vicenda del pianeta, niente poteva intaccare la porzione di universo in cui l’ammasso esisteva.

In un simile contesto, il livello di sostenibilità politica del “danno da giurisdizione”, per una maggioranza, (poi, sempre quella) era molto elevato.

Non creava problemi particolari sul piano esterno, solo aggiustamenti su quello interno, un diverso atteggiarsi e/o distribuirsi delle forze (un maggior monentaneo potere ai morotei, ad esempio, rispetto ai fanfaniani).

Le cose sono cambiate quando gli equilibri sono stati rotti dal PSI di Craxi.

Il personaggio – al di là di ogni valutazione morale e giudiziaria – aveva capito molte cose e sapeva guardare molto “oltre”.

Aveva compreso che l’onda lunga del PCI era finita, senza essere stata in grado di portare una alternativa di sinistra e non sarebbe più tornata una seconda volta; aveva compreso che il sistema si stava nuovamente bloccando, chiudendo, senza speranza di alternativa.

Ha inaugurato, così, una politica aggressiva e molto caratterizzata “fisicamente”, all’americana.

Un azzardo, per un partito così piccolo, un correre sul filo che richiedeva, per riuscire, la eliminazione di ogni impaccio, anche di tipo istituzionale (veti, garanzie e controlli), soprattutto di tipo giudiziario.

Il salto di qualità, nei rapporti tra politica e magistratura, si colloca in quel periodo.

Qualcuno, giorni addietro, ha citato Salvo Andò, il cui gelido sorriso, al congresso di MD di Palermo (‘90 o giù di lì) ancora io non dimentico, allorché disse che il paese aveva bisogno di “normalizzazione” e, parlando di situazioni anomale, degne di essere governate e ricondotte nei binari della normalità, citò, mettendoli sullo stesso piano, il C.d.A. della RAI, l’A.N.M. e il C.S.M..

I primi applausi autenticamente, timidamente, “trasversali” si collocano in quel periodo, in quel contesto.

Craxi aveva anticipato la politica “caratterizzata”, di impronta, tipica del bi-polarismo.

Aveva anticipato quella che sarebbe stata la futura dialettica potere politico-magistratura.

In un paese in cui esistono due poli, la sostenibilità del “danno da giurisdizione” scende grandemente.

Scende ancor di più, in un paese come il nostro, assolutamente estraneo, storicamente e culturalmente, al bi-polarismo politico, un paese in cui al soggetto di una fragile coalizione (e tutte lo sono) basta un niente per rovesciare un governo.

Tocca i minimi, poi, in un paese come il nostro in cui la politica deve (vuole) fare i conti, quotidianamente, con le mafie, i poteri occulti, che non tralasciano nessun settore dell’economia e del territorio (nemmeno i ... rifiuti, come abbiamo scoperto di recente).

Il rischio di impresa tipico del politico in un simile contesto – una volta risolto il problema dei media (e da noi è praticamente risolto, nel senso etimologico del termine, “resolvere”) – è il “danno da giurisdizione”.

Tutti coloro che hanno avuto la capacità di guardare “oltre”, in epoche non sospette, Craxi e, ancora prima di lui, Gelli, lo hanno ben compreso.

Inarrestabile, si è messo in moto un procedimento volto ad erodere, sempre più, i confini della giurisdizione.

Un procedimento non particolarmente veloce, perchè viaggia lungo due direttrici, una verticale, l’altra orizzontale.

Mentre mira, cioè, al bersaglio, deve, parallelamente, trasversalizzare le ragioni del suo essere e del suo agire.

Deve farsi accettare, come dato comune, ineluttabile, tra tutti i protagonisti della politica e della società civile.

E ci sta riuscendo.

Lo scopriamo proprio oggi, nella allarmante genericità e bestialità dei programmi politici in tema di giustizia e nella assurdità delle motivazioni che, nel silenzio di tutti, tecnici compresi, li sostengono (generalizzazione delle giurie popolari come rimedio alla lentezza dei processi; separazione delle carriere come garanzia dei diritti, ecc.).

Lo scopriamo negli articoli di pubblicisti storici, allorché invitano i giudici a interpretare non la legge, non la Costituzione, ma il comune sentire. E ad adeguarvisi.

Lo scopriamo negli esiti monocorde dei sondaggi a cittadini pur di diversa estrazione sociale e culturale.

Lo scopriamo nella giurisprudenza timida di questi tempi.

E non occorre andare lontano, guardare ai casi eclatanti.

Basta tenere gli occhi bassi, vedere, ad esempio, una certa involuzione in tema di diritti dei migranti, mentre, in parallelo crescono gli in-put del tutto opposti dall’Europa, per comprendere.

Si chiama “isolamento”.

Della magistratura (rispetto alla società civile).

Nella magistratura (rispetto al corpus nel suo complesso, che cessa di essere percepito come un insieme).

Il cerchio si sta chiudendo.

In una maniera prevedibile, perchè sotto gli occhi di tutti era la strada, e ben segnalato era il percorso.

Tra i tanti segnali, limitandoci a quelli puramente interni – che quelli esterni erano di tutta evidenza –, le “emergenze”, agitate da alcuni nelle mailing list (e nelle singole realtà territoriali), che si possono sintetizzare con una serie di espressioni quali “correntismo, autoreferenzialità delle correnti, abbandono dell’A.N.M., rapporti base-vertici (delle correnti e dell’A.N.M.), disattenzione verso gli assenti, sottovalutazione degli effetti di casi indicativi (De Magistris)”, quant’altro.

Emergenze e problemi troppe volte elusi e demonizzati.

Siamo ancora in tempo per fare qualcosa?

Sono sufficienti i tentativi di “andare oltre” (apparentamento di liste/inserimento di non iscritti, ecc.) cui stiamo assistendo per il rinnovo dei Consigli Giudiziari?

E’ sufficiente il richiamo all’autocritica?

Oggi la parola d’ordine, nell’ambito dei gruppi più attivi e connotati, è “efficientismo”.

La giurisdizione non è efficiente, ergo non è credibile, ergo non è difendibile, ergo occorre recuperare efficienza.

E’ sufficiente tutto questo?

Perchè, oggi, è così difficile sostenere un “comune sentire” dei magistrati, sintetizzare e organizzare le istanze della base, suscitare nuove idealità?

Perchè?

Io credo che al prossimo congresso di giugno occorra pronunciare parole forti e nuove, sempre che non sia troppo tardi (e, ancora prima, farlo nei singoli gruppi).

E temo che il tempo sia scaduto.

Penso ad alcuni momenti “alti” di sensibilità e impegno politico e istituzionale comune, in A.N.M..

Penso, ad esempio, per individualizzare un periodo, a Elena Paciotti (e alla Presidenza Scalfaro).

Penso che la giurisdizione è diffusa e mi chiedo quanto, oggi, è diffuso il suo significato più autentico.

Quello implicato nel giuramento alla Costituzione Repubblicana, ai valori formali che esprime, alla storia – di lacrime e sangue – su cui poggia.

Una sola cosa è sicura: che, per avere una risposta definitiva, ormai, non occorre attendere molto.



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mercoledì 26 marzo 2008

I fatti di Genova e le ipocrisie della politica


L’indomani dell’articolo di Giuseppe D’Avanzo sui fatti di Genova, che abbiamo riportato a questo link, il Ministro dell’Interno Amato ha rilasciato una intervista che si può leggere a quest’altro link. Con riferimento a quanto dichiarato da Amato, riportiamo un articolo del collega Emilio Sirianni, pubblicato su “Calabria Ora” il 23 marzo scorso.


di Emilio Sirianni
(Giudice del Tribunale di Cosenza)


L’intervista del Ministro Amato, rilasciata all’ottimo D’Avanzo sulla Repubblica di ieri è un limpido esempio della consolidata pratica del “mollare la patata bollente”.

O, se si preferisce, della fuga dalle responsabilità, che, quando esercitata, meglio, pubblicamente declinata dal Ministro degli Interni, da bene l’idea di come sia di pratica largamente condivisa nel paese.

Certo, il colto Ministro dell’Interno è altra cosa dall’ingegnere acustico singolarmente assiso alla poltrona di Guardasigilli, appena stupito nel vedere quei ragazzi costretti alla “posizione del cigno” per venti ore nel mattatoio di Bolzaneto. Pronto, ancor oggi, a bersi la spiegazione che era una cautela necessaria per evitare inopportune promiscuità fra i fermati ed a sciorinare boutade di sapore sudamericano.

Ma proprio per questo le sue affermazioni fanno molta più rabbia.

Secondo il Ministro non era possibile sospendere i poliziotti e funzionari pubblici sotto processo per le torture di quei giorni, perché la sospensione disciplinare dal servizio sarebbe possibile solo se vi sono accuse di gravi reati, “come la collusione con associazione mafiosa”.

E qui incorre in un clamoroso infortunio, posto che i contratti collettivi del pubblico impiego prevedono, almeno dal 1995, che l’Amministrazione possa sospendere dal servizio il dipendente sotto processo penale, nel caso in cui i fatti per cui il dipendente è rinviato a giudizio consistano in “minacce, ingiurie gravi, calunnie o diffamazioni verso il pubblico”; “alterchi con vie di fatto negli ambienti di lavoro, anche con utenti”; “atti, comportamenti o molestie, anche di carattere sessuale, che siano lesivi della dignità della persona”; “qualsiasi comportamento da cui sia derivato grave danno all’Amministrazione o a terzi”.

Probabilmente Amato, giurista di chiara fama, non è molto addentro alle pieghe della contrattazione pubblica, bassa materia da addetti ai lavori, ma ci si sarebbe aspettata una maggiore cura da parte dei funzionari che certamente avrà incaricato di approfondire la questione.

Dunque, ben poteva l’Amministrazione sospendere quei funzionari in attesa dell’esito processuale, anzi, potrebbe dirsi che era il minimo da fare in presenza di fatti di tale gravità, d’aver fatto il giro del mondo, determinato reprimende dell’Unione Europea e dell’O.N.U. e infangato la nostra democrazia, ma, come dicevo, lo sport è sempre quello dello scaricabarile.

Il Ministro lo conferma quando piamente confida che l’unica cosa possibile era un gesto di sensibilità personale da parte dei diretti interessati, che avrebbero potuto “farsi da parte” spontaneamente, “nell’interesse dell’istituzione” e, ancor di più, quando, pur svicolando, esclude che vi fosse ragione alcuna per “mettere al rogo” il (rectius sollecitare le dimissioni del) capo della polizia.

Mostrando d’ignorare quel principio di responsabilità oggettiva dei vertici politici e degli alti funzionari di Stato, proprio delle democrazie mature.

Principio desueto, anche questo, alle nostre latitudini e che vuol semplicemente dire che di fronte a vicende eclatanti e di gravità assoluta il capo dell’istituzione responsabile si fa da parte, anche se non ha nulla da rimproverarsi personalmente, perché è l’istituzione stessa ad aver fallito.

L’ultimo esempio di esplicazione del quale risale probabilmente alle dimissioni di Cossiga, quando, precedendo Amato su quella stessa poltrona, si trovò di fronte al cadavere di Aldo Moro.

La conclusione è, secondo collaudata prassi politica nostrana, che sono fatti della magistratura (in tali spinose situazioni sempre molto lodata ed oggetto di grandi attestati di fiducia), se la sbrighi lei, noi intanto stiamo a vedere che succede e al resto penserà il buon dio.

Se persino il socialista Amato, il fine giurista Amato, l’autore di corposi tomi sulla nostra Costituzione e sui diritti in essa enunciati, opta per una serena lavata di mani, pur rivestendo la carica di responsabile primo dei comportamenti delle forze di polizia in attività d’ordine pubblico, allora è drammaticamente urgente interrogarsi sullo stato di quei diritti e della nostra democrazia e girare i quesiti alle forze politiche impegnate nella campagna elettorale.

Ex Presidenti della Corte Costituzionale ed un ex Presidente del Tribunale Internazionale per i crimini di guerra hanno levato la loro voce drammaticamente preoccupata per l’inerzia della politica a fronte di quei giorni di “sospensione della democrazia”, quei giorni da “mattatoio cileno”, per usare le parole di un alto funzionario di polizia che di quei fatti fu testimone diretto.

La politica risponde con la volgarità dell’ing. Castelli e le astuzie di Amato, tanto Pasqua è alle porte e ... ... lassù in croce penserà lui ai nostri peccati.

Per il resto ci sono prescrizione e indulto.



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domenica 23 marzo 2008

Pasqua di risurrezione



di Uguale per Tutti

E’ Pasqua.

Nel pieno rispetto di chi non crede o non crede da cristiano (il nostro blog è un luogo dove si incontrano persone di ogni convinzione religiosa), permettete a chi di noi è cristiano di condividere il significato di questa festa, che celebra la risurrezione di Cristo.

Di questa festa che ci dice che il tempo, il tempo di ciascuno di noi non è l’unico tempo e che la morte non è la sconfitta più grande.

La grandezza e il mistero del cristianesimo stanno in questo: in un Dio che non misura la vittoria e la sconfitta con il metro “materiale” del “qui e adesso”.

Vorremmo proporVi due pensieri di San Paolo.

«Se Cristo non è risorto – scrive San Paolo nella prima lettera ai Corinzi –, allora è vana la nostra predicazione e vana anche la nostra fede» (1 Cor. 15,14).

Se l’unico senso delle cose fosse qui e adesso, se l’ultima parola fosse quella del fatto materiale e del fatto di oggi, allora il nostro sarebbe un triste destino. Il nostro impegno una fatica ingrata. La nostra speranza fondata su poca cosa.

La ragione per la quale tanti di noi non si sono scoraggiati in passato e non si scoraggiano oggi è che pensano che il senso di ognuno di noi e della nostra storia collettiva non si misura solo in termini di vittoria “materiale” qui e adesso.

L’altro pensiero di San Paolo è quello che scrive nella lettera ai Romani: «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo» (Romani, 8, 19-23).

Il mondo è nelle nostre mani. In quelle di tutti, ma anche in quelle di ciascuno.

Solo noi uomini e donne possiamo dare un senso alle cose.

La grandezza o la pochezza definitiva del mondo sarà misurata dalla grandezza del nostro sogno e dalla nostra capacità di impegnarci per realizzarlo.

Nel mondo intero, ma anche nel cortile di casa nostra, la storia di tutti e di ciascuno sarà segnata dal nostro gesto, dalla nostra scelta quotidiana, dalla nostra generosità, dal nostro impegno, dalla nostra fiducia, dal nostro sguardo limpido, dalla nostra mente chiara. Oppure (non sia!) dalla nostra rinuncia, dalla nostra sfiducia, in definitiva dalla nostra tristezza.

Mille cari auguri a noi e a tutti!

Che il Dio della misericordia e della pace guidi i nostri passi e scaldi i nostri cuori.



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sabato 22 marzo 2008

I poteri occulti premono sui magistrati


Versione stampabile


Ingroia: «La fine di De Magistris rivela la crisi dello Stato di diritto».

Riportiamo una intervista al collega Antonio Ingroia, Sostituto Procuratore della Repubblica di Palermo, pubblicata da La Stampa del 21 marzo 2008.

L’intervista è tratta (sintetizzandola) dal libro di Antonio Massari “Il caso De Magistris”, edito da Aliberti.

Il libro ricostruisce le tappe del “caso De Magistris" e contiene anche interviste ad altri magistrati, fra i quali lo stesso Luigi De Magistris e Felice Lima.
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di Antonio Massari
(Giornalista)


Dottor Ingroia, cosa rappresenta, per lei, il caso De Magistris?
«Il caso in cui, nella maniera più emblematica, si sono evidenziati i guasti della riforma Mastella dell’ordinamento giudiziario».

Si riferisce alla richiesta di trasferimento?
«Non solo. Ha contribuito a incrementare un clima “pesante” attorno all’azione della magistratura, creando condizioni ostili all’autonomia e indipendenza della magistratura. Il provvedimento di avocazione, che ha tolto l’indagine al collega De Magistris, è un provvedimento che in altri tempi avrebbe incontrato ben altre resistenze e critiche. Evidentemente, i tempi sono cambiati».

Qual è la sua analisi in merito?
«Definirei il caso De Magistris come una vicenda emblematica di quel che accade quando un magistrato si ritrova, isolato e sovraesposto, a gestire un’indagine estremamente complessa e delicata su un grumo di intrecci, di interessi leciti e illeciti, riferibili a soggetti e ambienti diversificati, sul crinale dove s’incontrano i versanti criminali con i versanti politici e istituzionali. Come spesso accade nei territori dove operano sistemi criminali integrati. E mi riferisco, ovviamente, ai sistemi criminali riferibili alla mafia in Sicilia e alla ‘ndrangheta in Calabria».

Come giudica la posizione dell’A.N.M. rispetto al caso De Magistris?
«Timida e inadeguata. In generale, soprattutto preoccupata di far apparire il governo Prodi meno ostile nei confronti dell’autonomia e indipendenza della magistratura del governo Berlusconi».

Che mi dice dei “poteri occulti”? Influenzano la nostra democrazia?
«Purtroppo sì. Il connubio tra poteri occulti e mafia è il famoso “gioco grande” sul quale stava lavorando Giovanni Falcone. E sul quale probabilmente è morto: e i veri mandanti della strage di Capaci, in fondo, non sono mai stati trovati».

Può spiegarmi meglio cosa intende per poteri occulti?
«Intendo – genericamente – quell’intreccio fra poteri criminali, come il potere delle grandi organizzazioni criminali mafiose, e altri poteri. Intreccio che molte indagini degli anni passati, in Sicilia ma anche in Calabria, hanno messo in luce, per esempio, tra le mafie e spezzoni della massoneria, così come con settori della destra eversiva o di ambienti politico-istituzionali, compresi appartenenti ad apparati dello Stato deviati».

Quanto incidono nella magistratura?
«Non è facile rispondere. In passato, ai tempi di Falcone e Borsellino, la magistratura, soprattutto i suoi vertici, era spesso fortemente condizionata dai poteri occulti. Negli ultimi anni si sono fatti grossi passi avanti anche per la maggiore autonomia e indipendenza che la magistratura ha conquistato. Ecco perché è importante difendere lo status di autonomia e indipendenza della magistratura. Se si fanno passi indietro su questo fronte, rischiamo di ripiombare nel passato più buio della nostra democrazia (...)».

Su questi argomenti, che paiono in qualche modo pressanti, è stata mai aperta una discussione all’interno dell’A.N.M.?
«L’A.N.M. attraversa una grave crisi di rappresentanza, che è poi la stessa crisi della politica, la stessa sensazione di scollamento fra rappresentati e rappresentanti. Il dibattito interno all’A.N.M. su questo punto è aperto e la parte più sensibile a questo problema lo ha avviato con interventi interni e pubblici. Ma l’A.N.M. è ancora ben lontana dall’avere superato questa crisi».

Quanto è credibile l’ipotesi che i “poteri occulti”, secondo lei, abbiano agito, indirizzando la vicenda De Magistris?
«L’indagine di De Magistris, per quanto abbiamo potuto apprendere, andava ben al di là di ciò che è divenuto più noto. Ben oltre quindi le intercettazioni di Mastella o l’iscrizione di Prodi nel registro degli indagati. Penso che il cuore dell’indagine fosse proprio l’intreccio tra poteri criminali e altri poteri sul territorio. Credo che il suo caso non possa essere affrontato se non si tiene conto della realtà in cui De Magistris, spesso in solitudine istituzionale, ha operato. (...) E’ certo, però, che De Magistris s’è messo contro certi poteri, ed è altrettanto certo che la reazione nei suoi confronti è stata forte ...».

Una delle accuse, per De Magistris, è stata quella di aver parlato in tv. Lei che ne pensa? Purché non entrino nel meritò delle indagini, i magistrati possono parlare?
«Prendiamo, per esempio, il rapporto tra Paolo Borsellino e la stampa: appartiene alla storia del nostro Paese. (...) Ricordo un’intervista storica: volle lanciare l’allarme sul calo di tensione nella lotta alla mafia. (...) Sono passati tanti anni. E credo sia stato conquistato il diritto, da parte della magistratura, d’intervenire. Fermo restando il riserbo sul contenuto delle indagini».

Parliamo dell’avocazione di Why Not a De Magistris.
«De Magistris la definisce illegittima, io la definisco impensabile. (...) La mia sensazione è che noi ci siamo trovati in una situazione in cui l’autonomia e l’indipendenza, interna ed esterna, è arrivata a un punto di rottura. Davvero siamo in un momento di crisi dello Stato di diritto».



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Nessuno vincerà le elezioni



di Roberto Saviano
(Giornalista)


da La Repubblica del 15 marzo 2008.

Se un voto si compra con cinquanta euro, nessuno vincerà le elezioni in Italia.

Nessuno. Perché finora tutti sembrano ignorare una questione fondamentale che si chiama “organizzazioni criminali” e ancor più “economia criminale”.

Non molto tempo fa il rapporto di Confesercenti valutò il fatturato delle mafie intorno a 90 miliardi di euro, pari al 7 per cento del Pil, l’equivalente di cinque manovre finanziarie.

Il titolo “La mafia s.p.a. è la più grande impresa italiana” fece il giro di tutti i giornali del mondo, eppure in campagna elettorale nessuno ne ha parlato ancora.

E nessuna parte politica sino a oggi è riuscita a prescindere dalla relazione con il potere economico dei clan. Mettersi contro di loro significa non solo perdere consenso e voti, ma anche avere difficoltà a realizzare opere pubbliche.

Non le vincerà nessuno, queste elezioni.

Perché se non si affronta subito la questione delle mafie le vinceranno sempre loro.

Indipendentemente da quale schieramento governerà il paese.

Sono già pronte, hanno già individuato con quali politici accordarsi, in entrambi gli schieramenti.

Non c’è elezione in Italia che non si vinca attraverso il voto di scambio, un’arma formidabile al sud dove la disoccupazione è alta e dopo decenni ricompare persino l’emigrazione verso l’estero. E’ cosa risaputa ma che nessuno osa affrontare.

Quando ero ragazzino il voto di scambio era più redditizio. Un voto: un posto di lavoro. Alle poste, ai ministeri, ma anche a scuola, negli ospedali, negli uffici comunali.

Mentre crescevo il voto è stato venduto per molto meno.

Bollette del telefono e della luce pagate per i due mesi precedenti alle elezioni e per il mese successivo.

Nelle penultime la novità era il cellulare. Ti regalavano un telefonino modificato per fotografare la scheda in cabina senza far sentire il click.

Solo i più fortunati ottenevano un lavoro a tempo determinato.

Alle ultime elezioni il valore del voto era sceso a 50 euro.

Quasi come al tempo di Achille Lauro, l’imprenditore sindaco di Napoli che negli anni cinquanta regalava pacchi di pasta e la scarpa sinistra di un paio nuovo di zecca, mentre la destra veniva recapitata dopo la vittoria.

Oggi si ottengono voti per poco, per pochissimo.

La disperazione del meridione che arriva a svendere il proprio voto per 50 euro sembra inversamente proporzionale alla potenza della più grande impresa italiana che lo domina.

Mai come in questi anni la politica in Italia viene unanimemente disprezzata.

Dagli italiani è percepita come prosecuzione di affari privati nella sfera pubblica.

Ha perso la sua vocazione primaria: creare progetti, stabilire obiettivi, mettere mano con determinazione alla risoluzione dei problemi.

Nessuno pretende che possa rigenerarsi nell’arco di una campagna elettorale.

Ma nel vuoto di potere in cui si è fatta serva di maneggi e interessate miopie prevalgono poteri incompatibili con una democrazia avanzata.

E’ una democrazia avanzata quella in cui 172 amministrazioni comunali negli ultimi anni sono stati sciolti per infiltrazione mafiosa?

O dove dal ‘92 a oggi, le organizzazioni [criminali] hanno ucciso più di 3.100 persone?

Più che a Beirut?

Se vuole essere davvero nuovo, il Partito Democratico di Walter Veltroni non abbia paura di cambiare. Non scenda a compromessi per paura di perdere.

Il governo Prodi è caduto in terra di camorra.

Ha forse sottovalutato non tanto Clemente Mastella, il leader del piccolo partito Udeur, ma i rischi che comportava l’inserimento nelle liste di una parte dei suoi uomini.

Personaggi sconosciuti all’opinione pubblica, ma che negli atti di alcuni magistrati vengono descritti come cerniera tra pubblica amministrazione e criminalità organizzata.

Nel frattempo il governo ha permesso al governatore della Campania Bassolino di galleggiare nonostante il suo fallimento nella gestione dell’emergenza rifiuti.

E non ha capito che quella situazione rappresenta solo l’esempio più clamoroso di quel che può accadere quando il cedimento anche solo passivo della politica ad interessi criminali porta allo scacco.

Tutto questo mentre il centrodestra guidato da Silvio Berlusconi assisteva muto o giustificatorio ai festeggiamenti del governatore della Sicilia Cuffaro per una condanna che confermava i suoi favori a vantaggio di un boss, limitandosi a scagionarlo dall’accusa di essere lui stesso un mafioso vero e proprio.

La questione della trasparenza tocca tutti i partiti e il paese intero.

Inoltre molta militanza antimafiosa si forma nei gruppi di giovani cattolici i cui voti non sempre vanno al centrosinistra.

Anche questi elettori dovrebbero pretendere che non siano candidate soubrette o personaggi capaci solo di difendere il proprio interesse.

Pretendano gli elettori di centrodestra che non ci siano solo soubrette e a sud esponenti di consorterie imprenditoriali.

E mi vengono in mente le parole che Giovanni Paolo II il 9 maggio del 1993 rivolse dalla collina di Agrigento alla Sicilia e all’Italia ferita dalle stragi di mafia: “Questo popolo ... talmente attaccato alla vita, che ama la vita, che dà la vita, non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà contraria, civiltà della morte ... Mi rivolgo ai responsabili ... Un giorno verrà il giudizio di Dio”.

Parole che avrebbero dovuto crescere nelle coscienze.

È tempo di rendersi conto che la richiesta di candidati non compromessi va ben oltre la questione morale. Strappare la politica al suo connubio con la criminalità organizzata non è una scelta etica, ma una necessità di vitale autodifesa.

Io non entrerò in politica. Il mio mestiere è quello di scrittore. E fin quando riuscirò a scrivere, continuerò a considerare questo lo strumento di impegno più forte che possiedo.

Racconto il potere, ma non riuscirei a gestirlo. Non si tratta di rinunciare ad assumersi la propria responsabilità, ma considerarla parte del proprio lavoro.

Tentare di impedire che il chiasso delle polemiche distolga l’attenzione verso problemi che meno fanno rumore, più fanno danno.

O che le disquisizioni morali coprano le scelte concrete a cui sono chiamati tutti i partiti. È questo il compito che a mio avviso resta nelle mani di un intellettuale.

Credo sia giunto il momento di non permettere più che un voto sia comprabile con pochi spiccioli.

Che futuri ministri, assessori, sindaci, consiglieri comunali possano ottenere consenso promettendo qualche misero favore. Forse è arrivato il momento di non accontentarci.

Nel 1793 la Costituzione francese aveva previsto il diritto all’insurrezione: forse è il momento di far valere in Italia il diritto alla non sopportazione.

A non svendere il proprio voto.

A dare ancora un senso alla scelta democratica, scegliendo di non barattare il proprio destino con un cellulare o la luce pagata per qualche mese.


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giovedì 20 marzo 2008

L’altra faccia di Bari - 2


di Giuseppe Milano
(Assistant Organizer del Meetup di Bari – I Grilli Attivi)


Mi fa piacere constatare che una manifestazione importante come quella di Bari abbia innescato questo ennesimo confronto che si è spostato, leggendo il commento del dott. Felice Lima all’articolo di Matteo Secchi, pure sul tema delle regole e su quanto valga che esse siano sempre applicate e condivise da tutti.

E pur apprezzando quanto sostenuto nella precedente discussione da Matteo, da cittadino barese che non solo ha vissuto l’evento ma che ne ha anche promosso la sua diffusione e pubblicità, sento di dover condividere con voi, serenamente, delle riflessioni.

Questa Giornata non è sintetizzabile solo nel corteo di sabato 15 marzo, ma si è sviluppata anche attraverso alcuni workshop, lo spettacolo teatrale di Nando dalla Chiesa, dal titolo “Poliziotta per amore”, bellissimo e che suggerisco di vedere, e soprattutto l'incontro tra tutti i familiari delle vittime, le associazioni aderenti e tutta la società cosiddetta civile.

Solo chi ha presenziato a questi appuntamenti, solo chi ha potuto calarsi in certe atmosfere, solo chi ha potuto intravedere in certi sguardi, in certe lacrime, in certi abbracci, un dolore, un dramma che mai nessun evento e nessuna pacca sulla spalla potrà lenire, a scapito del tempo inesorabile che passa, potrà capire come quelle stesse angosce e quelle stesse sensazioni siano diventate le nostre, come ci sia stata una profonda compartecipazione del dolore.

Non dimenticarsi di un Falcone, di un Borsellino, di un Dalla Chiesa, è relativamente facile, ma, quanti sono, onestamente, quei cittadini che conoscono la storia di Don Giuseppe Diana, di Don Pino Puglisi, di Pasquale Marcone, di Gabriella Campagna, di Peppino Impastato, di Michele Fazio, di Gaetano Marchitelli, di Daniele Sannino, di Pio La Torre, di Antonio Scopelliti, di Rocco Chinnici, di Giuseppe Fava, di Rosario Livatino, di Libero Grassi, di Beppe Alfano e di tutti le altre 700 vittime troppo spesso dimenticate ??

Quanti?

Credo pochissimi.

Credo che la “Non Memoria”, quella stessa che si riverbera in tutti i giorni dell'anno nella vita della stragrande maggioranza dei cittadini che si discostano da quelli che, invece, compongono l'antimafia sociale che, non solo rivendicano la Memoria, ma la praticano anche, sia estremamente pericolosa e sintomatica di un atteggiamento profondamente mafioso.

Perchè ci si dimentica di modelli esemplari di onestà, di trasparenza, di senso dello Stato e delle Istituzioni, di cittadini che sono morti per vedere ripristinata e non violata quella cultura della legalità e della giustizia.

Vogliamo contestare che sul palco ci siano stati i D'Alema, i Bertinotti, i Pecorario Scanio?

Contestiamoli ferocemente, e io sarei il primo, perchè con la loro inutile presenza hanno permesso che un simile evento da qualcuno fosse strumentalizzato politicamente e delegittimato, purchè queste riflessioni non tocchino la dignità, la moralità e il pudore non solo di persone straordinarie, come Don Luigi Ciotti, quanto anche di tutte le 120 mila persone che hanno attraversato Bari prefigurandosi come un cuore gonfio di amore pulsante.

Senza tuttavia dimenticare o sottovalutare l’esperienza di chi si ostina silenziosamente e nell'indifferenza collettiva a rivendicare e a pretendere giustizia per le proprie vicende, come tutti quei testimoni di giustizia (come Pino Masciari - http://www.pinomasciari.org/) che vivono da anni sotto scorta con una esistenza compromessa e un percorso giudiziario troppo spesso arrestato per vari motivi, sicuramente anche politici, che non vorrebbero essere commiserati da morti ma protetti da vivi affinchè non sia solo vero che "se qualcuno è morto è perchè noi non siamo stati abbastanza vivi per proteggerli" ma anche che "chi conosce la storia di questi testimoni di giustizia gli allunga la vita di un giorno".

Chiudo con un ricordo di Paolo Borsellino.

«La lotta alla mafia dev'essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità e quindi della complicità» (il video con l'intero commovente discorso di Paolo Borsellino può essere visto cliccando qui).

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P.s. Domani, Venerdi 21 Marzo, in quasi tutte le città di Italia, anche a Bari in Piazza Diaz dalle ore 16,30, nel primo giorno di Primavera, verranno ancora una volta ricordate tutte le vittime di mafia, proprio perché ciascuno di noi non si stanchi di testimoniare con la propria vita come una inversione di tendenza sia possibile, ma soprattutto, che nessuno di noi ha l’intenzione di lasciarsi corrompere e sopraffare dall’indifferenza.


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E' solo giustizia


A commento della sentenza di appello che ha confermato la condanna all'ergastolo per i due imputati dell'assassinio di Graziella Campagna, pubblichiamo uno scritto di Emanuele Scimone.


di Emanuele Scimone
(Blogger di Stostretto)


Oggi in Italia si è costretti a gioire di una giustizia che si compie.

Vent'anni di attesa, di lotte e di porte che si chiudono nei corridoi lastricati di marmo dei tribunali.

Una ragazza che viene barbaramente trucidata da due mafiosi, a soli 17 anni, deve attendere più della durata della sua stessa vita per vedere dietro le sbarre chi ha premuto il grilletto.

La sua famiglia, tra lacrime e dolore, assiste al compimento del percorso della giustizia.

Solo ora.

Dopo la prima condanna-farsa che non ha sortito alcun effetto detentivo per gli assassini, nello stesso palazzo oggi viene letta una nuova condanna con nuovi giudici, uguale alla prima, ma ora finalmente esecutiva.

La famiglia Campagna poteva mollare, abdicare dinanzi agli insabbiamenti, alle deviazioni, alle ingiustizie.

In molti l'avrebbero fatto.

Avrebbero pianto sulla tomba di chi era stata uccisa due, tre e quattro volte da questo Stato.

Avrebbero sentito il vento che asciuga le lacrime sulle guance, lasciando la loro salinità sulla pelle.

Avrebbero tenuto dentro i ricordi visivi di Graziella per paura di disperderli nel vento.

Pietro invece non ha gettato la spugna.

Avrà avuto certo anche lui paura di non farcela.

Avrà a volte pensato che tutto sarebbe finito come molte altre vicende di questo paese, travolto da un vortice di bugie e false attribuzioni di responsabilità, carambolato tra competenze e cavilli legali, schiaffeggiato da indifferenza e reticenza.

Questa volta ognuno ha fatto il proprio dovere.

Non è un miracolo.

E' il compimento di un atto dovuto.

E' la naturale aspettativa di ogni essere umano: è giustizia.



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I silenzi sul Garage Olimpo di Bolzaneto



di Giuseppe D’Avanzo
(Giornalista)


da La Repubblica del 19 marzo 2008.

Il processo per i fatti di Bolzaneto, scrivono i pubblici ministeri nella memoria consegnata ieri al tribunale di Genova, è «un processo dei diritti».

Le testimonianze, le fonti di prova raccolte, le timide ammissioni degli imputati, la ricostruzione di quel che è accaduto in una caserma italiana diventata, per tre giorni, un argentino Garage Olimpo parlano della dignità della persona umana, della libertà fisica e morale del cittadino detenuto.

Ci ripetono che anche una democrazia è capace di torturare.

Che anche la nostra giovane democrazia può avvitarsi, senza preavviso, in una spirale autoritaria, e non solo i regimi che si nutrono dell’annientamento dell’altro per sopravvivere. i ricordano che l’umiliazione di un uomo prigioniero e indifeso, abbandonato a un deserto di regole, garanzie e umanità apre un solco profondo tra il cittadino e lo Stato.

Ci annunciano come può collassare la cultura stessa della nostra convivenza civile.

L’indignazione non può bastare per quel che accaduto a Genova Bolzaneto.

Non è sufficiente un sentimento.

Occorrono ragione e intelligenza delle cose.

E’ necessario interrogarci con radicalità sulla debolezza delle nostre istituzioni; sui deficit culturali di chi – in alto o in basso – li rappresenta; sulla qualità delle prassi di governo e comando di quelle istituzioni; sulla peculiarità dei meccanismi di selezione dei ceti dirigenti di quelle amministrazioni, sulla loro permeabilità a una volontà – politica, burocratica – che può capovolgere i valori costituzionali.

«Bolzaneto è un “segnale di attenzione”», hanno ragione i pubblici ministeri di Genova.

E’ «un accadimento che insegna come momenti di buio si possono verificare anche negli ordinamenti democratici, con la compromissione dei diritti fondamentali dell’uomo per una perdurante e sistematica violenza fisica e verbale da parte di chi esercita il potere».

I magistrati sembrano chiedere ascolto, più che al tribunale, a chi ha il dovere di custodire gli equilibri del-la nostra democrazia.

Bolzaneto, sostengono, insegna che «bisogna utilizzare tutti gli strumenti che l’ordinamento democratico consente perché fatti di così grave portata non si verifichino e comunque non abbiano più a ripetersi».

E’ un’invocazione, ci pare.

Quei magistrati, con misura e rispetto, dicono alla politica, al Parlamento, alle più alte cariche dello Stato, alla cittadinanza consapevole: attenzione, gli strumenti offerti alla giustizia per punire questi comportamenti non sono adeguati.

Non esiste una norma che custodisca espressamente come titolo autonomo di reato «gli atti di tortura», «i comportamenti crudeli, disumani, degradanti».

E comunque, il pericolo non può essere affrontato dalla sola macchina giudiziaria perché quando si mette in moto è troppo tardi.

La violenza già c’è stata.

I diritti fondamentali sono stati già schiacciati.

La democrazia ha già perso.

I segnali di un incrudelimento delle pratiche nelle caserme, nelle questure, nelle carceri – dove i corpi vengono rinchiusi – dovrebbero essere percepiti, decifrati e risolti prima che si apra una ferita che non sarà una sentenza di condanna a rimarginare, anche se quella sentenza – e non è il nostro caso – fosse effettiva.

L’invito della magistratura di Genova dovrebbe indurre tutti – e soprattutto le istituzioni – a guardarsi da ogni minima tentazione d’indulgenza, da ogni relativizzazione dell’orrore documentato dal processo.

Ora se si prova a esaminare gli umori delle amministrazioni dello Stato, coinvolte nel plumbeo affresco di violenze ricostruito a Genova, si raccoglie soltanto un imperturbabile disinteresse.

Non un fiato.

Al più, spallucce.

In qualche caso, un sorrisetto di disprezzo.

Quel che, a buona parte dell’opinione pubblica, appare a ragione una lesione e una grave ipoteca, non lascia traccia nelle istituzioni.

Non è nemmeno un amaro ricordo.

E’ soltanto un nulla di cui non vale più la pena occuparsi.

Non deve essere nemmeno un fatto politico, una questione pubblica – come si doleva qualche giorno fa Marco Revelli – perché la politica guarda da un’altra parte.

Distratta?

Complice?

Inconsapevole?

Senza dubbio sorda ai coerenti argomenti di Valerio Onida: «Uno Stato che vessa e maltratta le persone private della libertà non è uno Stato democratico. Una polizia che usa la forza non per impedirne reati, ma per commetterne, non può essere considerata “forza dell’ordine”. Fatti di questo genere distruggono la credibilità delle istituzioni più di tanti insuccessi dei poteri pubblici».

Forse non si possono usare formule più preoccupate, e tuttavia anche le parole del presidente emerito della Corte costituzionale sono cadute nel vuoto.

Il governo in carica tace come se l’affare non lo interpellasse e riguardasse gli altri che governavano nel 2001.

Tace il centro-destra, dimentico che quelle violenze si consumarono nel giorno in cui si presentò alla scena del mondo mentre un vice-presidente del Consiglio (Fini) era ospite della “sala operativa” in questura e un ministro di Giustizia (Castelli), nel cuore delle notte, visitava la caserma di Bolzaneto bevendosi la storiella che i detenuti erano nella «posizione del cigno» contro un muro (gambe divaricate, braccia alzate) per evitare che gli uomini molestassero le donne.

Tace Bertinotti, tace Veltroni come se la promessa di un’Italia «nuova» potesse fare a meno di chiedersi: perché c’è stato l’inferno di Bolzaneto? E quale garanzie abbiamo che non accada più?



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G8 di Genova. La requisitoria dei pubblici ministeri in aula.



da L’Unità del 19 marzo 2008

Tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001. Due notti. Violenze, umiliazioni. Torture.

Genova 2001, l’orrore della casema di Bolzaneto: i manifestanti del G8, 55 «fermati» e 252 «arrestati». Ma quanti davvero con esattezza siano stati «catturati», «identificati», «trattenuti», «curati», non è ancora possibile dirlo con assoluta certezza.

E’ la requisitoria dei pm Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati che hanno portato alla richiesta di condanna di 44 persone tra ispettori di polizia giudiziaria, funzionari di polizia, medici, per un totale di 76 anni di carcere.

Botte di tutti i generi, insulti razzisti, pestaggi anche «di arti artificiali».

«Trattamenti inumani e degradanti» secondo i pubblici ministeri. Che però al massimo sono riusciti a contestare il reato di abuso d’ufficio.

Perchè il nostro paese non prevede quello specifico di tortura – i magistrati parlando di Bolzaneto hanno evocato il riferimento alle «tecniche» di interrogatorio usate nella repressione dei tumulti in Irlanda negli anni Settanta – ed è inadempiente rispetto all’obbigo di adeguare il proprio ordinamento alla convenzione dell’Onu che pure abbiamo ratificato 20 anni fa.

Ed ecco perchè nel 2009 tutto sarà prescritto.

Ha detto in aula la dottoressa Pettruzziello: «Abbiamo visto che la tortura è stata molto vicina a Bolzaneto, si sono verificate una serie di sofferenze fisiche e morali continuate, dettate da due dei peggiori fini che la dottrina indica nei comportamenti disumani e degradanti, il fine di intimidazione e costrizione e quello di discriminazione».

E ancora: «E’ stato il segnale, Bolzaneto, di come questi fatti si possano verificare anche in ordinamenti democratici. Non c’è emergenza e non c’è giustificazione».

I manifestanti fermati «meritavano il rispetto dei diritti di una persona».

E proprio su questo hanno insistito i pm nella memoria di 1000 pagine presentata ieri in cui appunto ricalcano la requisitoria: «La più grave delle violazioni di legge posta in essere dai soggetti del cosiddetto livello apicale è senza dubbio quella che riguarda l’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; questa norma infatti racchiude il principio fondamentale dell’inviolabilità della dignità dell’uomo, cui tutte le altre norme si richiamano». e.n.

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«Pestaggi e torture»: cronaca di un orrore.

Sette udienze, una mole di lavoro impressionante.

E’ la requisitoria dei pm di Genova su Bolzaneto che ricostruisce passo passo quei giorni: «Abbiamo 200 e rotte deposizioni, tutte precise, dettagliate, univoche e reiterate, gli avvenimenti sono descritti con precisione, in maniera dettagliata e con espressioni chiare e non equivocabili».

Il comitato d’accoglienza: «Facciamo come in Kosovo».

«Le persone offese ci hanno raccontato che all’uscita dai mezzi c’era un trattamento vessatorio: sputi, spintoni, insulti, insulti politici, e anche minacce, particolarmente gravi quando indirizzate verso donne e a sfondo sessuale «entro stasera vi facciamo tutte», «bisogna fare come in Kosovo».

Noi lo abbiamo chiamato il «comitato di accoglienza», era la ricezione di chi arrivava.

Ci sono descrizioni di calci, sputi, e altro.

Sono state descritte situazioni di attesa in questo piazzale, o contro il muro della palazzina, o contro la rete del campetto da tennis.

Ad es. tutto il gruppo degli arrestati alla Paul Klee vengono tenuti in piedi sotto il sole contro questa rete.

Altri ancora, ed è il caso di due arrestati della Diaz, contro un albero che era – lo abbiamo visto – nel piazzalino.

E dobbiamo cominciare a parlare della posizione in cui venivano spesso tenuti: in piedi, gambe divaricate, braccia alzate o lungo il corpo, faccia al muro.

Questa posizione è evidente che se imposta per un certo tipo di tempo comporta una sofferenza fisica, ed è evidentemente umiliante per chi la subisce.

L’abbiamo chiamata «posizione vessatoria di stazionamento o di attesa», per distinguerla dalla «posizione vessatoria di transito».

Abbiamo la testimonianza dell’infermiere Poggi che ci ha ricordato questa posizione, che ci hanno descritto anche molti arrestati, e ci ha detto che nel gergo della polizia penitenziaria veniva chiamata «la posizione del cigno». (Ranieri Miniati)

«1-2-3 viva Pinochet, 4-5-6 a morte gli ebrei».

«Nelle celle sono riferite percosse di vario tipo: manganelli, schiaffi, pugni, pugni guantati, calci, colpo sulla nuca per far sbattere la fronte contro il muro, tanto è vero che parecchi testimoni hanno ricordato di avere visto macchie di sangue sui muri della cella più o meno all’altezza delle teste. Poi abbiamo i lanci ... gli spruzzi di spray, sia il venerdì che il sabato, caso emblematico perché è ricordato da tutti, con lo spruzzo su LK, che si sente male, vomita, l’intervento di Toccafondi (medico responsabile della polizia penitenziaria), e poi di Perugini (ex numero due della Digos genovese) chiamato dai carabinieri.

Ma non è l’unico caso.

Oltre alle percosse abbiamo poi il riferimento a offese verbali, sia insulti che minacce: si va dalle frasi volgari che a una serie di insulti a sfondo sessuale che a sfondo politico: riferimenti allo stupro, per fortuna limitati alla minaccia, grazie a dio; riferimenti al Kosovo, alla spartizione delle prede; ingiurie politiche varie, l’obbligo di riferire frasi contro personaggi di sinistra, prese in giro su D’Alema, Bertinotti, Manu Chao, che farebbero ridere se non in quel contesto; alcune brutte se non insopportabili, come i continui riferimenti alla morte di Carlo Giuliani, il riferimento agli episodi di piazza ovvero alla morte di un membro delle ffoo e la necessità di pareggiare il conto, per fortuna non vero.

Addirittura il teste Giovannetti, che è stato citato dalla difesa, e certamente non è una persona vicina ai no-global, ci ha ricordato che mentre lui era a Bolzaneto si era sparsa la voce della morte di un poliziotto tanto che lui si adoperò per tranquillizzare le persone.

E ancora altri tipi di minacce politiche: filastrocche come quella di Pinochet “1-2-3 viva Pinochet, 4-5-6 a morte gli ebrei”, la suoneria con Faccetta Nera, abbiamo riferimenti continui al fascismo “viva il duce” “viva Mussolini”.

B. ricorda che mentre era al muro ricorda che era venuto un poliziotto che faceva il giochino: “Chi è lo Stato?” “La polizia” “Chi è il capo?” “Mussolini”.

Ancora peggio i riferimenti a Hitler, ai nazisti e agli ebrei.

F. ci ricorda un dialogo: “Per queste persone ci vorrebbe Mussolini” “Ma no, che Mussolini, ci vorrebbe Adolf e i suoi forni”. I “benvenuti ad Auschwitz”». (RM)

«Allora firma».

«All’interno dell’ufficio trattazione atti, le stanze nell’atrio, dove gli arrestati avrebbero dovuto firmare gli atti relativi al loro arresto. Ci hanno ricordato, anche gli stessi appartenenti dell’ufficio, che alcune volte erano gli agenti che andavano nelle celle, ma quasi sempre viceversa. Le persone hanno ricordato pressioni e atti violenti per firmare gli atti. Il caso tipico è della testimonianza di una ragazza a cui viene mostrata la foto dei suoi figli con la minaccia che se non firmava non li avrebbe visti tanto presto ... minaccia assai vile, tra l’altro». (RM)

Il piercing vaginale fatto rimuovere davanti a tutti.

«Poi due perquisizioni, una della polizia e una della polizia penitenziaria, una nell’atrio e una in infermeria.

Anche qui ricordo di oggetti gettati via a casaccio, piercing giustamente rimossi ma in maniera brutale e con minacce, oppure davanti ad altre persone.

E il caso della ragazza con il piercing vaginale, obbligata a rimuoverlo con le mestruazioni davanti a 4-5 persone». (RM)

AK, buttata a terra con una mascella rotta.

«Ma c’è di peggio: ci sono ricordati più episodi di violenza e percosse nel bagno. Tra cui AK che aveva una mascella rotta e che mentre sta facendo i suoi bisogni viene spinta a terra.

Poi abbiamo la mancanza di assorbenti per le donne, cosa ampiamente umiliante e vessatoria: viene ricordato il lancio di pallottole di giornale; addirittura la M. una persona con una certa età, madre, che ha dovuto strappare una maglietta e si è dovuta arrangiare». (RM)

I manganelli e la minaccia di sodomizzazione.

«Fortunatamente non abbiamo avuto casi di violenza sessuale, grazie a Dio, ma ci sono state minacce di violenza sessuale sia per le donne che per gli uomini, in molti casi allusivi con l’uso di bastoni o manganelli.

Ad es P. è in infermeria nudo e cominciano battute legate all’aspetto del suo membro, del suo aspetto fisico “carino il comunista, ce lo facciamo?”, fino alla minaccia di sodomizzazione».

La «testa rasata» entra in cella e prende tutti a calci.

«Iniziando dal venerdì 20 luglio abbiamo individuato BM, che ha deposto il 30.1.2006: abbiamo la data di arresto sul verbale, anche se non è segnata l’ora di arrivo a Bolzaneto, e l’ora di immatricolazione e di traduzione.

BM è arrestato il 20 luglio alle 16.40 ca, preso in carico alla 1.15 dalla matricola, e arriva al carcere alle 3.15.

Riferisce di essere arrivato a Bolzaneto e che di essere dovuto passare nel comitato di accoglienza in corridoio dove viene colpito con manganelli.

Viene messo in punta di piedi, fronte al muro, mani legate con laccetti dietro la schiena.

Ricorda che gli facevano sbattere la testa contro il muro.

Ricorda che arrivò una persona rasata con accento emiliano in cella e picchiò un po’ tutti con calci.
Ricorda di aver chiesto ma di non essere stato lasciato andare in bagno, ricorda la puzza di urina in cella e le macchie di sangue.

Era ferito, ricorda che gli viene dato un sacchetto bianco con del ghiaccio per metterla sull’occhio ferito, e dato che non poteva usare le mani doveva premere la testa contro il muro.

Sente rumore di accendino e le urla di un ragazzo.

Poi ricorda nella fase finale il passaggio in corridoio dove è preso a calci ed è costretto a dire “duce duce”». (RM)

In ginocchio, sputi addosso e versi di animali.

Passiamo a un’altra arrestata del venerdì ET: è arrestata il venerdì verso le 17.30, fa parte del gruppo del carrello di generi alimentari.

Ricorda di essere arrivata a Bolzaneto, ricorda i laccetti e le mani dietro la schiena, l’arrivo nel piazzale, gli sgambetti nel corridoio, ricorda una posizione in ginocchio in cella faccia al muro.

Ricorda di aver visto EP e FD in cella. Ricorda sputi e versi di animali, espressioni in lingua italiana che non capisce.

EP traduce per lei dal francese in italiano. Chiede di andare in bagno e un agente le dice di farsela addosso.

Viene accompagnata in bagno e viene percossa nel corridoio.

Riconosce l’agente che l’accompagna in bagno come una di quelle che la traduce, le fa sbattere la testa contro il muro. Un agente uomo le dice di lavarsi le mani e quando si avvicina al lavabo viene colpita a calci». (RM)

Spray in faccia due volte e poi bastonate.

«Ultimo arrestato del venerdì che esaminiamo è RA, quello che subisce lo spruzzo di spray e che deve essere decontaminato con una doccia e deve stare con una cappa.

Ricorda i lacci, di lamentarsi per i lacci.

Ricorda il passaggio all’ufficio trattazione atti dove chiede di fare una telefonata e riceve schiaffi.

Ricorda che qualcuno in ufficio trattazione atti si mette dei guanti e lo costringono percuotendolo a dire “sono una merda”.

Viene riportato in cella e deve rimettersi contro il muro. Entra un agente e gli spruzza in faccia per due volte il gas urticante, lui sta male, ricorda la doccia di decontaminazione e mentre la fa viene colpito a manganellate.

Ricorda il camice verde ospedaliero che deve mettere sotto la doccia. Poi viene riportato in cella». (RM)

All’operaio di Brescia: «Compagno, io t’ammazzo».

«PB operaio di Brescia che subisce quella vicenda in infermeria di minacce di sodomizzazione.

Indossa una maglietta nera con falce e martello gialla e con una scritta di Mao Tse Tung.

Questa maglietta fu l’inizio di una serie di guai, perché fu bersagliato per essa.

Ricorda nel cortile il primo commento “questo sì è un comunista con le palle”.

Ricorda peraltro anche cose positive: in tutti i suoi spostamenti viene accompagnato dal solito agente che cerca di ripararlo un po’.

Ricorda vari insulti, ricorda il trasferimento a testa china, minacce, percosse nei corridoi, chiede di andare in bagno ma non l’ottiene, ricorda l’odore di urina, ricorda che durante la perquisizione alcuni oggetti vengono buttati via, ricorda di essere stato colpito con colpi di manganello e di essere stato oggetto di una minaccia “compagno io ti ammazzo” e al suo girarsi di essere stato spruzzato con lo spray».

Saluti romani, «viva Mussolini» e «Heil Hitler».

«Passiamo proprio a HJ, citato da IMT: arrestato alla Diaz, ricorda uno spagnolo di nome J con delle fasciature, lui viene dall’ospedale e arriva a ponte x la domenica, e ricorda all’ingresso nel piazzale l’imposizione ad altri di fare il saluto romano e di dire “Heil hitler”.

Ha riferito del suo disagio per l’inconveniente di cui sopra, e di questa sua esigenza di lavarsi, e ricorda che gli agenti lo indicavano facendo il gesto di turarsi il naso.

Ricorda gli insulti e la stessa cosa che ricorda anche B., un inglese che non ha rapporti con HJ: tra i vari insulti ricorda l’imposizione del giochino “Chi è lo Stato?” “La polizia” “Chi è il capo?” “Mussolini”.

Ricorda il trasporto camminando chino, gli insulti alla morte di Carlo Giuliani, di essere andato in bagno con la porta aperta, ricorda AK con la bocca rotta, ricorda un’altra ragazza che aveva dei figli.

Ricorda perquisizione e situazione in infermeria: viene portato insieme a un altro, che lo riscontra, ricorda che all’altro viene tolta la cintura e lui viene minacciato con la cintura».

«Stai zitto, non sei un cittadino ma una merda».

«T. è uno dei pochi italiani transitati domenica, e ricorda di essere arrivato insieme a un inglese che aveva una gamba rotta, RM.

Ricorda che mentre era nel piazzale è stato irriso, e minacciato “comunisti per voi è finita”.

In cella doveva stare contro il muro e ricorda un’altra cella con le persone con le mani dietro la nuca.

Ricorda in cella un tedesco di nome T., uno spagnolo, e ricorda questi appelli che continuano a fare gli agenti, cosa riscontratissima, anche da parecchi appartenenti dell’ufficio trattazione atti che ricorda di aver dovuto fare l’appello degli arrestati più volte.

Ricorda di essere stato più volte insultato e paragonato a una capra.

Lui disse che fece un intervento dicendo “io sono un cittadino italiano e voglio essere rispettato”, e un agente alla presenza del medico disse “stai zitto non sei un cittadino, ma una merda”».

«Ne dovevamo ammazzare cento, te gusta el manganello?».

«Arriviamo a BSG, arrestata alla Diaz, arriva a Bolzaneto e ricorda una lunga attesa prima di essere introdotta in cella, ricorda l’etichettatura con il pennarello rosso sul viso, e che altri vennero etichettati in verde.

Al momento della perquisizione le sue cose vengono buttate a terra, insulti tipo “troia” e “puttana”, calci durante il transito in corridoio.

In cella ricorda alcune espressioni: “Ne abbiamo ammazzato uno, ma ne dovevamo ammazzare cento”, “faccetta nera”, “puttane”, “fate schifo”, “vediamo se Bertinotti e Manu Chao vengono a salvarvi” e poi la canzoncina di Pinochet, e anche una canzona di Manu Chao parafrasata in “te gusta il manganello”. Altri ricordano “te gusta la galera”».

Gli agenti, le «garanzie» e il senso di impunibilità.

«Una osservazione sui livelli di vertice: sicuramente loro non hanno materialmente svolto l’attività di vigilanza davanti alle celle, che è stato svolto da altri che noi abbiamo ascritto ad altro livello di responsabilità.

Ma a nostro avviso siccome i livelli di vertice di Bolzaneto erano ufficiali di PG e avevano il dovere di impedire la commissione di reato, erano anche responsabili dell’incolumità delle persone in stato di custodia: avevano l’obbligo di impedire che si verificassero o che continuassero a verificarsi una volta verificatesi.

Si è verificato un mancato doveroso intervento per impedire le azioni criminose.

Vi è stato ben oltre l’omissione di denuncia: in alcuni casi vi è stata anche quella, ed è sintomatico dell’atteggiamento doloso, ma vi è stato di più, con questa tolleranza delle condotte, che ha di fatto rafforzato la determinazione nello svolgere queste condotte nella convinzione dell’impunibilità».

«Brutto nano pedofilo buono per il circo».

«Poi arriviamo ad A. molto basso, ricordato da molti. Cosa dice A.: ricorda alcuni, come una persona più matura con nome tipo Dalla; ricorda di aver dovuto attendere alla rete del campo da tennis in piedi sotto il sole; ricorda l’ingresso; ricorda di aver dovuto stare in cella nella solita posizione; ricorda una serie di insulti che vengono ricordati da molti tipo “nano buono per il circo”.

Ripeto su questo punto i riscontri sono innumerevoli, dato che moltissime persone si ricordano di questi insulti.

Ricorda che a un certo punto si spruzzò del gas e una ragazza stette male.

Ricorda una persona con una gamba artificiale, TM, che di notte non riesce a mantenere la posizione, si siede e viene picchiato per questo.

Ricorda poi un episodio: lo accompagnano in bagno un po’ all’ultimo momento, e che il tempo che gli misero a disposizione per fare i bisogni non fu sufficiente e dovette rimanere non proprio pulito, e maleodorante, e quindi ulteriori derisioni.

Ricorda un altro episodio con decine di riscontri, e ce lo ricorda addirittura la deposizione dell’agente Astici: A. ricorda che a un certo punto fu accusato di essere un pedofilo, e questo fu fonte di preoccupazione e umiliazione; dal nano non profumato si passò al nano pedofilo».

«Farete la stessa fine di Maria “Sole”».

«KL è la ragazza del vomito. Viene arrestata in via Maggio, ricorda l’attesa vicino alla rete, la posizione vessatoria in cella, ricorda gli insulti “vi facciamo fare la stessa fine di Sole” (Maria Soledad Rosas, l’attivista arrestata nel ‘98 durante un’irruzione al centro sociale di Collegno con l’accusa di ecoterrorismo e poi impiccatasi, ndr), ricorda il cellulare faccetta nera, ricorda lo spruzzo, e il suo vomito di sangue, perdendo quasi i sensi.

Si riprende in infermeria dove c’è un dottore con la maschera che indossa una maglietta della polizia penitenziaria, robusto.

Si riprende, il dottore chiede di preparare un’iniezione e lei vuole sapere di che cosa si tratta.

Il dottore dice “non ti fidi di me?”, lei dice che non vuole fare l’iniezione, e ricorda la risposta “vai pure a morire in cella”».

La stanza dei manganelli e delle canzoncine.

«Capo 93: Ingiurie contro AK per averla derisa puntandole contro la bocca ferita il manganello e dicendole “manganello, manganello”.

AK: “Sono stata tre volte in questa stanza, c’erano cinque o sei persone, e la porta era sempre aperta; non si è presentato come dottore ma dall’abbigliamento si riconosceva, non so se era verde chiaro o bianco. Mi sono sdraiata sulla barella e il medico mi ha chiesto cosa fosse successo. Io gli ho fatto capire che c’era una ferita per un colpo, lui ha preso un manganello e lo ha avvicinato velocemente fermandosi prima di colpirmi, ha cantato una canzoncina “manganello, manganello”, gli altri intorno si sono messi a ridere con lui.

Aveva una quarantina d’anni, lui cantava e gli altri ridevano molto forte”.

Il diario clinico è firmato da Toccafondi (responsabile del servizio sanitario all’interno di Bolzaneto, per lui richiesti 3 mesi 6 giorni 25, ndr), che è presente e indossa un camice. L’identificazione è provata».

Il braccio rotto, ma nemmeno una lastra.

«Capo 97: contestazione di omissione d’atti d’ufficio a carico di Toccafondi.

La contestazione riguarda il rifiuto del ricovero di OK, atto dovuto in ragione della gravità delle lesioni di OK, frattura scomposta dell’ulna.

Esaminiamo il caso: arrestata alla Diaz, immatricolata alle 22.15 di domenica e posta in traduzione lunedì a mezzogiorno.

OK aveva fatto querela il 18 ottobre 2001: aveva precisato che in infermeria le avevano buttato le lenti a contatto nell’immondizia.

Ha testimoniato: «Avevo un braccio rotto, il gomito sinistro, colpi su entrambe le braccia, sulla schiena e sul collo, il braccio era in una posizione non normale, si vedeva che era rotto; credo che sul lato destro dell’infermeria vi fosse una scrivania, una donna e un uomo, l’uomo con i capelli grigi sul lungo con la faccia rossa e una cappa verde, la donna era bionda; io l’ho guardato e ho detto: “Frattura! frattura!”; la cosa è stata frettolosa, mi hanno dato una crema e una benda».

Poi ricorda un secondo passaggio in infermeria: «Era lunedì mattina verso le 11.00, mi sono dovuta spogliare, era un altro medico, i capelli neri, non magro, una polo scura, gli occhiali; c’erano due donne, mi sono dovuta spogliare e girare su me stessa; l’uomo mi ha chiesto se mi drogavo e se avevo problemi di salute; io ho detto “sì, sì, frattura” mostrando il braccio, lui ha alzato le spalle e non ha detto niente; avevo un ematoma sul collo e non riuscivo quasi a parlare ed ematomi sulle braccia”».

Chiedemmo se fosse stata rauca, e lei ha risposto di sì.

Questo perché nel diario clinico di Voghera era diagnosticata anche la raucedine, oltre il ricovero d’urgenza in ospedale per una frattura all’ulna non diagnosticata a Bolzaneto.

Il diario clinico è firmato da Bolzaneto.

Abbiamo sentito il dr Caruso. Circa la mancata diagnosi: “Una frattura scomposta può determinare ecchimosi e dismorfismo rilevabile anche senza esami radiografici”.

Sappiamo che il 328 al primo comma punisce il pubblico ufficiale che non procede a un atto dovuto per ragioni di sanità: prevede quindi un rifiuto e un atto indilazionabile.

Dal nostro prospetto delle presenze sappiamo che nella notte tra domenica e lunedì il dr. Toccafondi era l’unico presente».

Partono i pugni, e il medico non muove un dito.

«Capo 108: contestate ad Amenta (Aldo Amenta, medico in servizio a Bolzaneto, per lui chiesti 2 anni e 8 mesi, ndr) lesioni in concorso con Incoronato Alfredo (agente della polizia penitenziaria, ndr) in danno di LGLA.

L’episodio è già stato esaminato dalla collega sulla posizione Incoronato.

Sul pestaggio ha deposto anche Pratissoli (Ivano Pratissoli, infermiere quel giorno presente a Bolzaneto, ndr): “Ad un certo punto un agente è venuto dentro con un ragazzone, questo G. ero di fianco ... Il dr Amenta era seduto, ho visto questo agente che si è infilato i guanti, gli ha dato un pugno e il ragazzo si è appoggiato al tavolo.

Io ho chiesto lumi ad Amenta che ha detto che aveva offeso qualcuno di grosso.

Si è rialzato e lo continuavano a colpire.

Non c’era Poggi (Marco Poggi, altro infermiere in servizio a Bolzaneto, ndr) e gli ho detto “Oh Marco ma dove siamo capitati?”.

Amenta è sicuramente presente, è in servizio venerdì dalle 20 fino alle 8 di sabato mattina, proprio nella fascia oraria in cui transita in infermeria LGLA.

La condotta è in evidente concorso morale, confermando negli agenti la sensazione di impunità e che è una delle cause del trattamento inumano e degradante».



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martedì 18 marzo 2008

L’altra faccia di Bari



di Matteo Secchi
(Studente universitario)


“Una società responsabile, non più solamente civile”.

Queste le parole usate con grande fervore ed emozione da Don Ciotti, presidente di Libera, il gruppo che coordina più di 1300 associazioni, gruppi, scuole, realtà di base, nella lotta alle mafie e per la promozione di legalità e giustizia.

E con queste parole, lo scorso 15 marzo a Bari, circa centomila persone, hanno partecipato alla XIII edizione della “Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo di tutte le vittime delle mafie”.

Un corteo pacifico che ha attraversato il lungomare del capoluogo pugliese, mentre gli altoparlanti scandivano più di 700 nomi: persone che hanno dato la vita per la lotta alla mafia.

Settecento inquietanti rintocchi che cozzavano con l’allegria e i cori dei tanti giovani presenti.

Anche i politici, presenti in massa, hanno dato il loro apporto alla causa. E poi, laboratori, feste e concerti fino a tarda notte.

Questa è stata la faccia oggettiva di Bari, quella che è venuta fuori dai giornali e dalle televisioni, quella di un popolo (amministratori e politici compresi) che crede seriamente nella lotta alla mafia.

C’è un’ altra faccia però, che spesso viene lasciata da parte, quella che pochi raccontano.

E’ quella dell’ipocrisia.

Credo che tutti in Italia condannino la mafia e che tutti siano pronti a manifestare contro questa. Credo che si debba parlare di atteggiamento mafioso e non solo di mafia.

È questo comportamento a farci prendere il bus senza pagare il biglietto, che non fa fare uno scontrino per pagare meno, e così tutti gli atteggiamenti che ormai noi, nessuno escluso, facciamo e che chiaramente alimentano questa rete.

La mafia vive anche e soprattutto di questo.

Ma mentre la mafia ha una struttura piramidale, dove può esservi identificato un boss e quindi si può arrivare (in qualche modo) all’apice del sistema, la rete ha in sé un concetto molto diverso: un sistema che si autoalimenta dove non ci sono apici, dove tutti concorrono allo stesso livello, e dove ognuno cerca il modo di ricavare profitto per sé a scapito di qualcun’altro.

Credere che la mafia sia localizzata solo in quei luoghi dove fa più parlare di sé è un grande errore.

Essa è ovunque.

È nell’ipocrisia che fa dire ad un giovane “sono contro la mafia” e poi si fa uno spinello, in quella dei politici che hanno fatto sempre troppo poco per contrastare questa cultura, ma che in tempo di campagna elettorale manifestano a Bari in prima fila.

Ebbene credo che l’unica via di fuga per combattere l’ipocrisia sia la coerenza.

Dobbiamo lasciare da parte le parole e vivere coerentemente i fatti.

L’unica faccia pulita è quella di persone che coerentemente stanno spendendo la loro vita senza profitti personali per contrastare l’atteggiamento mafioso.

Parlo di Don Ciotti, parlo di Don Pino de Masi ma parlo anche di tante persone che vivono nell’ombra, senza parole, con la coerenza del fare.

Con questo non voglio contestare questo movimento giovane che, anche se incoerentemente, si è dimostrato interessato all’argomento ed ha voluto manifestare per il ricordo delle vittime.

Il mio vuole piuttosto essere un monito, un richiamo all’interruzione di questa tremenda rete che affligge l’Italia.

Manifestare un giorno è semplice, non farsi raccomandare, non superare i limiti di velocità pagare, i biglietti tutti i giorni, questo è veramente difficile.

Ma solo così potremo sconfiggere la mafia e il suo atteggiamento.



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Il piccolo paese


di Achille

Scusate, spero di non violare qualche legge, di non apparire scorretto, di non offendere i legittimi sentimenti politici di nessuno, ma, girovagando per Youtube, ho trovato questo video e mi ha fatto ridere e piangere.

E ho chiesto ospitalità alla Redazione per proporvelo.








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Le violenze impunite del lager di Bolzaneto




di Giuseppe D’Avanzo
(Giornalista)


da La Repubblica del 17 marzo 2008

C’era anche un carabiniere “buono”, quel giorno. Molti “prigionieri” lo ricordano.

“Giovanissimo”. Più o meno ventenne, forse “di leva”. Altri l’hanno in mente con qualche anno in più.

In tre giorni di “sospensione dei diritti umani”, ci sono stati dunque al più due uomini compassionevoli a Bolzaneto, tra decine e decine di poliziotti, carabinieri, guardie di custodia, poliziotti carcerari, generali, ufficiali, vicequestori, medici e infermieri dell’amministrazione penitenziaria.

Appena poteva, il carabiniere “buono” diceva ai “prigionieri” di abbassare le braccia, di levare la faccia dal muro, di sedersi. Distribuiva la bottiglia dell’acqua, se ne aveva una a disposizione.

Il ristoro durava qualche minuto. Il primo ufficiale di passaggio sgridava con durezza il carabiniere tontolone e di buon cuore, e la tortura dei prigionieri riprendeva.

Tortura. Non è una formula impropria o sovrattono. Due anni di processo a Genova hanno documentato – contro i 45 imputati – che cosa è accaduto a Bolzaneto, nella caserma Nino Bixio del reparto mobile della polizia di Stato nei giorni del G8, tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001, a 55 “fermati” e 252 arrestati.

Uomini e donne. Vecchi e giovani. Ragazzi e ragazze. Un minorenne. Di ogni nazionalità e occupazione; spagnoli, greci, francesi, tedeschi, svizzeri, inglesi, neozelandesi, tre statunitensi, un lituano.

Studenti soprattutto e disoccupati, impiegati, operai, ma anche professionisti di ogni genere (un avvocato, un giornalista ...).

I pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati hanno detto, nella loro requisitoria, che “soltanto un criterio prudenziale” impedisce di parlare di tortura. Certo, “alla tortura si è andato molto vicini”, ma l’accusa si è dovuta dichiarare impotente a tradurre in reato e pena le responsabilità che hanno documentato con la testimonianza delle 326 persone ascoltate in aula.

Il reato di tortura in Italia non c’è, non esiste. Il Parlamento non ha trovato mai il tempo – né avvertito il dovere in venti anni – di adeguare il nostro codice al diritto internazionale dei diritti umani, alla Convenzione dell’Onu contro la tortura, ratificata dal nostro Paese nel 1988. Esistono soltanto reatucci d’uso corrente da gettare in faccia agli imputati: l’abuso di ufficio, l’abuso di autorità contro arrestati o detenuti, la violenza privata.

Pene dai sei mesi ai tre anni che ricadono nell’indulto (nessuna detenzione, quindi) e colpe che, tra dieci mesi (gennaio 2009), saranno prescritte (i tempi della prescrizione sono determinati con la pena prevista dal reato).

Come una goccia sul vetro, penosamente, le violenze di Bolzaneto scivoleranno via con una sostanziale impunità e, quel che è peggio, possono non lasciare né un segno visibile nel discorso pubblico né, contro i colpevoli, alcun provvedimento delle amministrazioni coinvolte in quella vergogna.

Il vuoto legislativo consentirà a tutti di dimenticare che la tortura non è cosa “degli altri”, di quelli che pensiamo essere “peggio di noi”.

Quel “buco” ci permetterà di trascurare che la tortura ci può appartenere.

Che – per tre giorni – ci è già appartenuta.

Nella prima Magna Carta – 1225 – c’era scritto: “Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, spossessato della sua indipendenza, messo fuori legge, esiliato, molestato in qualsiasi modo e noi non metteremo mano su di lui se non in virtù di un giudizio dei suoi pari e secondo la legge del paese”.

Nella nostra Costituzione, 1947, all’articolo 13 si legge: “La libertà personale è inviolabile. È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà”.
La caserma di Bolzaneto oggi non è più quella di ieri. Con un’accorta gestione, si sono voluti cancellare i “luoghi della vergogna”, modificarne anche gli spazi, aprire le porte alla città, alle autorità cittadine, civili, militari, religiose coltivando l’idea di farne un “Centro della Memoria” a ricordo delle vittime dei soprusi.

C’è un campo da gioco nel cortile dove, disposti su due file, i “carcerieri” accompagnavano l’arrivo dei detenuti con sputi, insulti, ceffoni, calci, filastrocche come “Chi è lo Stato? La polizia! Chi è il capo? Mussolini!”, cori di “Benvenuti ad Auschwitz”.

Dov’era il famigerato “ufficio matricole” c’è ora una cappella inaugurata dal cardinale Tarcisio Bertone e nei corridoi, dove nel 2001 risuonavano grida come “Morte agli ebrei!”, ha trovato posto una biblioteca intitolata a Giovanni Palatucci, ultimo questore di Fiume italiana, ucciso nel campo di concentramento di Dachau per aver salvato la vita a 5000 ebrei.

Quel giorno, era venerdì 20 luglio, l’ambiente è diverso e il clima di piombo. Dopo il cancello e l’ampio cortile, i prigionieri sono sospinti verso il corpo di fabbrica che ospita la palestra. Ci sono tre o quattro scalini e un corridoio centrale lungo cinquanta metri. È qui il garage Olimpo. Sul corridoio si aprono tre stanze, una sulla sinistra, due sulla destra, un solo bagno.

Si è identificati e fotografati. Si è costretti a firmare un prestampato che attesta di non aver voluto chiamare la famiglia, avvertire un avvocato. O il consolato, se stranieri (agli stranieri non si offre la traduzione del testo).

A una donna, che protesta e non vuole firmare, è mostrata la foto dei figli. Le viene detto: “Allora, non li vuoi vedere tanto presto ...”.

A un’altra che invoca i suoi diritti, le tagliano ciocche di capelli.

Anche H. T. chiede l’avvocato. Minacciano di “tagliarle la gola”.

M. D. si ritrova di fronte un agente della sua città. Le parla in dialetto. Le chiede dove abita. Le dice: “Vengo a trovarti, sai”.

Poi, si è accompagnati in infermeria dove i medici devono accertare se i detenuti hanno o meno bisogno di cure ospedaliere.

In un angolo si è, prima, perquisiti – gli oggetti strappati via a forza, gettati in terra – e denudati dopo.

Nudi, si è costretti a fare delle flessioni “per accertare la presenza di oggetti nelle cavità”.

Nessuno sa ancora dire quanti sono stati i “prigionieri” di quei tre giorni e i numeri che si raccolgono – 55 “fermati”, 252 “arrestati” – sono approssimativi.

Meno imprecisi i “tempi di permanenza nella struttura”.

Dodici ore in media per chi ha avuto la “fortuna” di entrarvi il venerdì.

Sabato la prigionia “media” – prima del trasferimento nelle carceri di Alessandria, Pavia, Vercelli, Voghera – è durata venti ore. Diventate trentatré la domenica quando nella notte tra 1.30 e le 3.00 arrivano quelli della Diaz, contrassegnati all’ingresso nel cortile con un segno di pennarello rosso (o verde) sulla guancia.

È saltato fuori durante il processo che la polizia penitenziaria ha un gergo per definire le “posizioni vessatorie di stazionamento o di attesa”.

La “posizione del cigno” – in piedi, gambe divaricate, braccia alzate, faccia al muro – è inflitta nel cortile per ore, nel caldo di quei giorni, nell’attesa di poter entrare “alla matricola”.

Superati gli scalini dell’atrio, bisogna ancora attendere nelle celle e nella palestra con varianti della “posizione” peggiori, se possibile.

In ginocchio contro il muro con i polsi ammanettati con laccetti dietro la schiena o nella “posizione della ballerina”, in punta di piedi.

Nelle celle, tutti sono picchiati. Manganellate ai fianchi. Schiaffi alla testa. La testa spinta contro il muro.

Tutti sono insultati: alle donne gridato “entro stasera vi scoperemo tutte”; agli uomini, “sei un gay o un comunista?”

Altri sono stati costretti a latrare come cani o ragliare come asini; a urlare: “viva il duce”, “viva la polizia penitenziaria”.

C’è chi viene picchiato con stracci bagnati; chi sui genitali con un salame, mentre steso sulla schiena è costretto a tenere le gambe aperte e in alto: G. ne ricaverà un “trauma testicolare”.

C’è chi subisce lo spruzzo del gas urticante-asfissiante. Chi patisce lo spappolamento della milza. A.

D. arriva nello stanzone con una frattura al piede. Non riesce a stare nella “posizione della ballerina”. Lo picchiano con manganello. Gli fratturano le costole. Sviene. Quando ritorna in sé e si lamenta, lo minacciano “di rompergli anche l’altro piede”. Poi, gli innaffiano il viso con gas urticante mentre gli gridano. “Comunista di merda”.

C’è chi ricorda un ragazzo poliomielitico che implora gli aguzzini di “non picchiarlo sulla gamba buona”.

I. M. T. lo arrestano alla Diaz. Gli viene messo in testa un berrettino con una falce e un pene al posto del martello. Ogni volta che prova a toglierselo, lo picchiano. B. B. è in piedi. Gli sbattono la testa contro la grata della finestra. Lo denudano. Gli ordinano di fare dieci flessioni e intanto, mentre lo picchiano ancora, un carabiniere gli grida: “Ti piace il manganello, vuoi provarne uno?”.

S. D. lo percuotono “con strizzate ai testicoli e colpi ai piedi”.

A. F. viene schiacciata contro un muro. Le gridano: “Troia, devi fare pompini a tutti”, “Ora vi portiamo nei furgoni e vi stupriamo tutte”.

S. P. viene condotto in un’altra stanza, deserta. Lo costringono a denudarsi. Lo mettono in posizione fetale e, da questa posizione, lo obbligano a fare una trentina di salti mentre due agenti della polizia penitenziaria lo schiaffeggiano.

J. H. viene picchiato e insultato con sgambetti e sputi nel corridoio. Alla perquisizione, è costretto a spogliarsi nudo e “a sollevare il pene mostrandolo agli agenti seduti alla scrivania”.

J. S., lo ustionano con un accendino.

Ogni trasferimento ha la sua “posizione vessatoria di transito”, con la testa schiacciata verso il basso, in alcuni casi con la pressione degli agenti sulla testa, o camminando curvi con le mani tese dietro la schiena.

Il passaggio nel corridoio è un supplizio, una forca caudina. C’è un doppia fila di divise grigio-verdi e blu. Si viene percossi, minacciati.

In infermeria non va meglio. È in infermeria che avvengono le doppie perquisizioni, una della polizia di Stato, l’altra della polizia penitenziaria. I detenuti sono spogliati. Le donne sono costrette a restare a lungo nude dinanzi a cinque, sei agenti della polizia penitenziaria. Dinanzi a loro, sghignazzanti, si svolgono tutte le operazioni. Umilianti.

Ricorda il pubblico ministero: “I piercing venivano rimossi in maniera brutale. Una ragazza è stata costretta a rimuovere il suo piercing vaginale con le mestruazioni dinanzi a quattro, cinque persone”.

Durante la visita si sprecano le battute offensive, le risate, gli scherni.

P. B., operaio di Brescia, lo minacciano di sodomizzazione. Durante la perquisizione gli trovano un preservativo. Gli dicono: “E che te ne fai, tanto i comunisti sono tutti froci”. Poi un’agente donna gli si avvicina e gli dice: “È carino però, me lo farei”.

Le donne, in infermeria, sono costrette a restare nude per un tempo superiore al necessario e obbligate a girare su se stesse per tre o quattro volte.

Il peggio avviene nell’unico bagno con cesso alla turca, trasformato in sala di tortura e terrore.

La porta del cubicolo è aperta e i prigionieri devono sbrigare i bisogni dinanzi all’accompagnatore. Che sono spesso più d’uno e ne approfittano per “divertirsi” un po’.

Umiliano i malcapitati, le malcapitate.

Alcune donne hanno bisogno di assorbenti. Per tutta risposta viene lanciata della carta da giornale appallottolata.

M., una donna avanti con gli anni, strappa una maglietta, “arrangiandosi così”.

A. K. ha una mascella rotta. L’accompagnano in bagno. Mentre è accovacciata, la spingono in terra.

E. P. viene percossa nel breve tragitto nel corridoio, dalla cella al bagno, dopo che le hanno chiesto “se è incinta”. Nel bagno, la insultano (“troia”, “puttana”), le schiacciano la testa nel cesso, le dicono: “Che bel culo che hai”, “Ti piace il manganello”.

Chi è nello stanzone osserva il ritorno di chi è stato in bagno. Tutti piangono, alcuni hanno ferite che prima non avevano. Molti rinunciano allora a chiedere di poter raggiungere il cesso. Se la fanno sotto, lì, nelle celle, nella palestra. Saranno però picchiati in infermeria perché “puzzano” dinanzi a medici che non muovono un’obiezione.

Anche il medico che dirige le operazioni il venerdì è stato “strattonato e spinto”.

Il giorno dopo, per farsi riconoscere, arriva con il pantalone della mimetica, la maglietta della polizia penitenziaria, la pistola nella cintura, gli anfibi ai piedi, guanti di pelle nera con cui farà poi il suo lavoro liquidando i prigionieri visitati con “questo è pronto per la gabbia”.

Nel suo lavoro, come gli altri, non indosserà mai il camice bianco. È il medico che organizza una personale collezione di “trofei” con gli oggetti strappati ai “prigionieri”: monili, anelli, orecchini, “indumenti particolari”.

È il medico che deve curare L. K.. A L. K. hanno spruzzato sul viso del gas urticante. Vomita sangue. Sviene. Rinviene sul lettino con la maschera ad ossigeno. Stanno preparando un’iniezione. Chiede: “Che cos’è?”. Il medico risponde: “Non ti fidi di me? E allora vai a morire in cella!”.

G. A. si stava facendo medicare al San Martino le ferite riportate in via Tolemaide quando lo trasferiscono a Bolzaneto. All’arrivo, lo picchiano contro un muretto. Gli agenti sono adrenalinici. Dicono che c’è un carabiniere morto. Un poliziotto gli prende allora la mano. Ne divarica le dita con due mani. Tira. Tira dai due lati. Gli spacca la mano in due “fino all’osso”. G. A. sviene. Rinviene in infermeria. Un medico gli ricuce la mano senza anestesia. G. A. ha molto dolore. Chiede “qualcosa”. Gli danno uno straccio da mordere. Il medico gli dice di non urlare.

Per i pubblici ministeri, “i medici erano consapevoli di quanto stava accadendo, erano in grado di valutare la gravità dei fatti e hanno omesso di intervenire pur potendolo fare, hanno permesso che quel trattamento inumano e degradante continuasse in infermeria”.

Non c’è ancora un esito per questo processo (arriverà alla vigilia dell’estate). La sentenza definirà le responsabilità personali e le pene per chi sarà condannato. I fatti ricostruiti dal dibattimento, però, non sono più controversi. Sono accertati, documentati, provati. E raccontano che, per tre giorni, la nostra democrazia ha superato quella sempre sottile ma indistruttibile linea di confine che protegge la dignità della persona e i suoi diritti.

È un’osservazione che già dovrebbe inquietare se non fosse che – ha ragione Marco Revelli a stupirsene – l’indifferenza dell’opinione pubblica, l’apatia del ceto politico, la noncuranza delle amministrazioni pubbliche che si sono macchiate di quei crimini appaiono, se possibile, ancora più minacciose delle torture di Bolzaneto.

Possono davvero dimenticare – le istituzioni dello Stato, chi le governa, chi ne è governato – che per settantadue ore, in una caserma diventata lager, il corpo e la “dimensione dell’umano” di 307 uomini e donne sono stati sequestrati, umiliati, violentati?

Possiamo davvero far finta di niente e tirare avanti senza un fiato, come se i nostri vizi non fossero ciclici e non si ripetessero sempre “con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia alla coerenza”?



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