mercoledì 2 luglio 2008

Il testo intergale del parere del C.S.M. sul c.d. “Decreto sicurezza”


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Testo integrale del parere adottato dal Plenum del C.S.M. l’1 luglio 2008 sulla normativa inerente la sicurezza pubblica contenuta nel decreto legge n. 92 del 23 maggio 2008, concernente “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica” (Fasc. 32/RI/2008, relatori dott. Roia e dott. Pepino).



Consiglio Superiore della Magistratura
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«1. Il presente parere ha per oggetto il decreto legge 23 maggio 2008, n. 92. Nel corso della elaborazione del parere, è, peraltro, intervenuta, il 24 giugno 2008, l’approvazione, da parte del Senato, del disegno di legge di conversione del decreto che ha apportato al testo originario numerosi e significativi emendamenti. Ad essi deve necessariamente estendersi il parere – come ripetutamente ritenuto dal Consiglio superiore in casi analoghi (1) – al fine di evitare di offrire al Parlamento un contributo superato dalla evoluzione del testo normativo.

I pareri resi dal Consiglio superiore al ministro della Giustizia, su richiesta o autonomamente, ai sensi dell’art. 10 della legge del 24 marzo 1958, n. 195, sulle proposte e sui disegni di legge, nonché sui decreti legge in vista della loro conversione si estendono – secondo il testo della legge e la costante prassi consiliare (2) – ai profili riguardanti l’ordinamento giudiziario, l’organizzazione e il funzionamento della giustizia, la disciplina dei diritti fondamentali costituzionalmente previsti. A questi profili – e ad essi soltanto – ci si atterrà, dunque, nel formulare il presente parere, che, conseguentemente, non prenderà in esame le questioni concernenti altri profili, rilevanti solo in modo indiretto sulla giurisdizione (come quelli relativi alla definizione delle competenze della polizia municipale e del concorso delle Forze armate nel controllo del territorio).

Prima di addentrarsi nell’analisi delle singole disposizioni del decreto è opportuna una osservazione di carattere generale. Le innovazioni introdotte con il provvedimento normativo in esame incidono, in parte significativa, non solo su aspetti settoriali legati a situazioni specifiche ma sul sistema penale (sia sostanziale che processuale) e su quello dell’ordinamento giudiziario. Ciò rende problematico lo strumento del decreto legge anche per ragioni pratiche e organizzative, essendo evidente, da un lato, l’impossibilità di una produttiva interlocuzione con gli operatori della giustizia e con lo stesso Consiglio superiore (preclusa dalla brevità dei tempi per la conversione e dal sovrapporsi, in tale periodo, di emendamenti anche rilevanti) (3) e, dall’altro, il rischio – in caso di modifiche in sede di conversione – del susseguirsi, nell’arco di pochi mesi, di regimi diversi operanti addirittura sugli stessi processi, con effetti gravemente negativi per la certezza del sistema normativo e per la funzionalità del servizio giustizia. Gli emendamenti introdotti in sede di conversione poi – tutti di grande rilievo e incidenti su delicati profili ordinamentali, processuali e sostanziali – sono in gran parte estranei all’oggetto originario del decreto legge (concernente, come noto, «Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica»).


2. Le disposizioni del decreto legge che hanno le maggiori ricadute sul piano organizzativo e, conseguentemente, sui tempi del procedimento penale sono quelle contenute nell’art. 2, recante «modifiche al codice di procedura penale».

2.1. La lettera a del comma 1 di detto articolo modifica l’art. 260 del codice processuale in punto alienazione e distruzione delle cose sottoposte a sequestro probatorio. Il primo profilo di modifica, realizzato mediante l’inserimento del comma 3 bis, dispone la distruzione anche dei beni sotto sequestro non deperibili dei quali sono vietati il possesso, la detenzione, la commercializzazione o la fabbricazione quando risultino di difficile custodia, quando la custodia sia particolarmente onerosa o pericolosa per la sicurezza, la salute o l’igiene pubblica ovvero quando, anche all’esito di accertamenti tecnici, risulti evidente la violazione dei predetti divieti. In tutti questi casi, anziché procedere alla conservazione dei beni in sequestro in attesa del giudizio, l’autorità giudiziaria, previa acquisizione e conservazione di campioni dei beni che soddisfino le esigenze della prova per le successive fasi di giudizio, ne dispone la distruzione. Inoltre, con la previsione di un ulteriore comma 3 ter, si dispone che, per i procedimenti a carico di ignoti, decorsi tre mesi dalla esecuzione del sequestro probatorio, la polizia giudiziaria può di propria iniziativa procedere alla distruzione dei beni, qualora sussistano i presupposti previsti dal comma 3 bis, previa comunicazione all’autorità giudiziaria procedente. L’effettiva distruzione deve avvenire non prima di quindici giorni dalla comunicazione, in modo da consentire all’autorità giudiziaria di impartire differenti direttive. Anche in questo caso è prevista l’acquisizione e la conservazione di campioni per salvaguardare le esigenze della prova.

La modifica è positiva in quanto semplifica e razionalizza la custodia e la conservazione dei reperti in sequestro durante le fasi dell’indagine e del giudizio, raggiungendo un buon equilibrio tra le esigenze della prova e le ragioni di economia generale delle spese di giustizia, liberando il processo di oneri economici, collegati alla custodia dei beni, spesso ingenti e raramente recuperati dall’erario. Tale positivo intervento di razionalizzazione potrebbe essere completato, nella stessa ottica, abrogando la parte dell’art. 171 ter, comma 4, legge n. 633/1941 (in materia di diritto d’autore) che prevede la pubblicazione della sentenza di condanna su uno o più quotidiani, di cui uno di dimensione nazionale, e su periodici specializzati (pubblicazione che comporta spese elevate difficilmente recuperabili). Nello specifico va, peraltro, evidenziato che le modifiche introdotte non prevedono, soprattutto nei procedimenti relativi a indagati noti, la procedura per la distruzione e non chiariscono se nella stessa sia necessaria la garanzia della partecipazione del difensore, se debbano essere dati avvisi alle parti in ordine alle modalità e ai tempi nei quali verranno effettuati i campionamenti e la distruzione, quali siano le modalità corrette per la documentazione delle operazioni di campionamento e di distruzione.

2.2. Con la lett. b bis del comma 1 dell’articolo in esame vengono ampliate le ipotesi di arresto facoltativo in flagranza inserendo tra i delitti che lo legittimano la falsa attestazione o dichiarazione di identità di cui all’art. 495 e le fraudolente alterazioni per impedire l’identificazione di cui all’art. 495 ter c.p.

Le ricadute organizzative della norma saranno, verosimilmente, assai rilevanti ché i reati in questione – soprattutto da parte di cittadini stranieri irregolarmente soggiornanti sul territorio nazionale – sono assai frequenti.

2.3. Le previsioni contenute nell’art. 2, comma 1, lett. c, d ed e modificano la disciplina del rito direttissimo previsto dall’art. 449 e ss. del codice di rito. In particolare, le disposizioni di cui alle lett. c e d incidono sui commi 4 e 5 dell’art. 449 prevedendo che, oltre ai casi di convalida dell’arresto e contestuale giudizio, il pubblico ministero procede con il rito direttissimo, salvo che la cosa pregiudichi gravemente le indagini: a1) nei casi in cui l’arresto sia stato convalidato dal GIP; a2) nei confronti dell’indagato che abbia reso confessione, anche se libero. In tal modo l’originaria facoltà rimessa alla valutazione del pubblico ministero diventa sostanzialmente un obbligo (come, del resto, evidenziato dalla modifica introdotta con la lettera e, in forza della quale, nell’art. 450, comma 1, le parole «se ritiene di procedere a giudizio direttissimo» sono sostituite da quelle «quando procede a giudizio direttissimo»).

La scelta di incentivare l’utilizzo del rito direttissimo risponde a un intento di accelerazione del processo di per sé condivisibile, pur se non mancano margini di opinabilità in considerazione sia della cultura sottostante a tale opzione (tesa a differenziare i riti in base a esigenze spesso contingenti) sia della effettiva idoneità di tale rito a produrre automaticamente gli effetti perseguiti, almeno nel caso di imputato libero (come dimostra la sorte di alcuni procedimenti direttissimi atipici, a cominciare da quelli per reati commessi a mezzo stampa). In concreto, peraltro, è agevole prevedere che non pochi problemi si porranno nei processi con pluralità di imputati per alcuni dei quali soltanto esiste una situazione che impone il rito direttissimo. Ciò renderebbe opportuna la previsione di un sistema meno rigido, sulla scia di quanto previsto – opportunamente – per le esigenze di indagine, la cui esistenza consente al pubblico ministero di optare per il rito ordinario.

2.4. Con le norme contenute nell’art. 2, comma 1, lett. f, g ed h, viene modificata la disciplina del rito immediato di cui agli artt. 453 e ss. del codice processuale. La prima modifica, prevista alla lett. f, comporta che, in caso di evidenza della prova, il pubblico ministero proceda senz’altro con il giudizio immediato, a meno che tale scelta non rechi grave pregiudizio alla prosecuzione delle indagini. Altra modifica riguarda l’inserimento nell’art. 453 c.p.p. dei commi 1 bis e 1 ter, che impongono al pubblico ministero di richiedere il giudizio immediato, anche fuori dal termine di novanta giorni dall’iscrizione della notizia di reato (previsto dall’art. 454, comma 1), quando la persona sottoposta alle indagini si trovi in stato di custodia cautelare. Tale richiesta deve avvenire entro centottanta giorni dall’esecuzione della misura, dopo la definizione dell’eventuale giudizio di riesame, o comunque dopo che sia decorso il termine per la presentazione dell’istanza di riesame. Infine, in ragione delle modifiche apportate all’art. 455 c.p.p., mediante l’inserimento del comma 1 bis, il giudice rigetta la richiesta di giudizio immediato formulata in base alle nuove disposizioni, quando la custodia cautelare sia stata revocata o annullata per sopravvenuta insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza.

Le modifiche descritte, come quelle relative al rito direttissimo, sono dirette a esaltare la funzione acceleratoria del rito, ampliandone i presupposti. La scelta operata con riferimento ai procedimenti per i quali l’indagato è sottoposto a misura custodiale (compresi gli arresti domiciliari) si muove, poi, in un’ottica di contenimento del rischio di scarcerazioni per decorrenza dei termini cautelari nella fase delle indagini. La nuova disciplina è complessivamente condivisibile, ma alcuni passaggi dovrebbero essere precisati al fine di evitare incertezze interpretative che potrebbero, soprattutto nelle prime esperienze applicative, frustrare i risultati virtuosi ai quali la modifica tende. In particolare il comma 1 ter dell’art. 453 dispone che la richiesta di giudizio immediato debba essere formulata dopo che il procedimento di cui all’art. 309 c.p.p. è definito, ovvero dopo che sono decorsi i termini per la proposizione della richiesta di riesame. Per la prima ipotesi si pone il dubbio se la definizione del procedimento comprenda soltanto la fase del riesame o si estenda al giudizio di Cassazione; con riguardo ai termini per la proposizione del riesame, resta incerta la disciplina relativa ai diversi termini indicati dall’art. 309 c.p.p. Anche in questo caso appare opportuna la prevista riserva in favore del rito ordinario in tutti i casi in cui la scelta del giudizio immediato può pregiudicare le indagini (evenienza frequente nei procedimenti in cui la misura cautelare viene richiesta non dopo il completamento delle indagini ma nel corso delle stesse).

2.5. Con le disposizioni di cui all’art. 2, comma 1, lett. i ed l, incidenti rispettivamente sulle norme che disciplinano il giudizio camerale (art. 599 c.p.p.) e il dibattimento di appello (art. 602 c.p.p.), viene abrogato il cd. patteggiamento in appello.

La modifica è, in sé, condivisibile. L’istituto abrogato, infatti, ha dato risultati non sempre conformi alle logiche deflative perseguite. In particolare, la possibilità di accedere comunque a una riduzione di pena nel giudizio di appello (attraverso un meccanismo interamente rimesso all’accordo delle parti nella determinazione dell’entità della riduzione) ha, di fatto, disincentivato la scelta di riti alternativi nella fase di primo grado. Nella stragrande maggioranza dei casi, la definizione concordata della pena in appello è, così, intervenuta dopo che in primo grado si è fatto ricorso al più ampio dispiego di mezzi istruttori, con conseguente dispersione di risorse processuali. La modifica introdotta riporta opportunamente la dinamica deflattiva collegata ai riti alternativi nel giudizio di primo grado nell’ambito dell’originaria previsione codicistica. Lo strumento del decreto legge – con i tempi ristretti ad esso connessi – ha, peraltro, precluso una analisi di sistema circa gli effetti complessivi di tale abrogazione che verosimilmente produrrà un ulteriore aggravio al già difficilmente sostenibile carico della Corte di cassazione.

2.6. L’ultimo punto dell’art. 2 reca modifiche all’esecuzione delle pene detentive, prevedendo che non possa essere concessa la sospensione dell’esecuzione delle condanne definitive a norma dell’art. 656, comma 5, oltre che nelle ipotesi previste dal comma 9 di detta norma, in caso di condanna per i delitti di incendio boschivo, furto pluriaggravato, furto in abitazione e con strappo e per i delitti in cui ricorre l’aggravante di cui all’art. 61, n. 11 bis c.p. (commissione del fatto da parte di soggetto che si trova irregolarmente sul territorio nazionale). La disposizione avrà come evidente conseguenza una crescita della carcerazione estremamente elevata, estesa – con scarsa coerenza sistematica – a molte ipotesi per le quali resta ferma la possibilità di concessione delle misure alternative.


3. Il decreto legge contiene alcune innovazioni significative in materia di contrasto alla mafia e alla criminalità organizzata.

3.1. L’art. 1, lett. b bis, estende l’associazione di cui all’art. 416 bis anche alle mafie straniere e aumenta significativamente le pene previste in tale norma. La previsione normativa è condivisibile anche se, nella parte più significativa concernente l’estensione della fattispecie delittuosa alle mafie straniere, è, in realtà, meramente confermativa di un orientamento giurisprudenziale del tutto pacifico.

3.2. Gli articoli 10, 11 e 12 prevedono un ampio sistema di interventi tesi a potenziare il sistema delle misure di prevenzione antimafia sia sotto il profilo sostanziale che sotto quello procedurale.

In particolare, per quanto riguarda i profili sostanziali, in sede di conversione sono state apportate alcune significative modifiche. Tra le principali va evidenziato, in primo luogo, che all’art. 1 della legge n. 575/1965 («Disposizioni contro la mafia») è stata prevista l’estensione delle misure di prevenzione agli autori dei reati di cui all’art. 51, comma 3 bis, c.p.p. e in particolare: a) agli indiziati del delitto di associazione a delinquere finalizzata allo spaccio ed al traffico di sostanze stupefacenti (art. 74 DPR n. 309/1990); b) agli indiziati del delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 c.p.); agli indiziati dei delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis o al fine di agevolare l’attività della stessa associazione a delinquere di stampo mafioso. Inoltre è stata apportata una modifica all’art. 2 bis della legge n. 575/1965 mediante l’introduzione di un comma 6 bis che consente la richiesta e l’applicazione disgiunta delle misure di prevenzione personali e patrimoniali e, per queste ultime, prevede che il relativo procedimento prosegua anche dopo la morte del proposto, nei confronti degli eredi e degli aventi causa.

Significativo è anche l’intervento operato sull’art. 2 ter della legge n. 575/1965: nel primo periodo del comma 3 si prevede che si possa disporre la confisca dei beni di cui il proposto risulti essere titolare tramite interposta persona, fisica o giuridica; inoltre viene introdotta una presunzione di illecita provenienza per tutti i beni, a qualsiasi titolo nella disponibilità del proposto, il cui valore risulti sproporzionato rispetto ai redditi dichiarati ai fini delle imposte, o comunque rispetto alla propria attività economica. Nello stesso articolo vengono, poi, inseriti cinque ulteriori commi, secondo i quali: a) in caso di sottrazione dei beni alla procedura per l’irrogazione della misura di prevenzione patrimoniale, anche mediante cessione a terzi di buona fede, la confisca può essere disposta su somme di denaro o altri beni di valore equivalente (analogamente a quanto previsto, parallelamente, per il sequestro di cui all’art. 12 sexies del decreto legge n. 306/1992, convertito con modifiche dalla legge n. 356/1992); b) in caso di morte del proposto, la confisca può essere disposta nei confronti degli eredi e aventi causa entro cinque anni dal decesso; c) se i beni confiscati dopo l’assegnazione o la destinazione rientrano nella sfera di disponibilità o sotto il controllo del proposto può essere disposta la revoca dell’assegnazione o della destinazione; d) in caso di intestazione o trasferimento fittizio a terzi, con la sentenza che dispone la confisca, viene dichiarata la nullità degli atti di disposizione; e) viene presunta, salvo prova contraria, la natura fittizia del trasferimento oneroso dei beni operato nei due anni precedenti la proposta di misura, purché effettuati nei confronti di ascendenti, discendenti, coniuge e convivente, parenti entro il sesto grado o affini entro il quarto, nonché di ogni trasferimento gratuito effettuato nei due anni precedenti la richiesta della misura.

Il complesso degli interventi adottati in tema di misure di prevenzione antimafia deve essere valutato positivamente in quanto potenzia gli strumenti preesistenti e risolve alcuni complessi problemi applicativi.

3.3. Con l’art. 10 vengono inoltre modificati alcuni aspetti in tema di competenze. In particolare, mediante modifiche alla legge 31 maggio 1965, n. 575, la competenza per la richiesta di misure di prevenzione – seppur con qualche imprecisione letterale in punto misure patrimoniali – viene attribuita, anziché ai procuratori della Repubblica indistintamente, a quelli dei capoluoghi di distretto, così stabilendo una coerenza, prima inesistente, tra le competenze investigative e requirenti e quelle in materia di prevenzione (ferma restando la competenza, in ordine alla emissione della misura, del tribunale del luogo in cui il proposto dimora). La modifica appare condivisibile giacché la precedente distonia comportava, per le singole Procure intenzionate a promuovere richieste di misura di prevenzione antimafia, la necessità di fornirsi di una ampia serie di elementi conoscitivi già in possesso della Procura distrettuale, con inutile dispendio di energie. Resta, peraltro, inappropriata l’estensione della competenza in tema di misure patrimoniali alla sola Direzione investigativa antimafia e non anche alla Procura nazionale antimafia, dalla quale la prima dipende funzionalmente.

3.4. La lettera b del comma 1 dell’art. 2 estende, poi, ai procedimenti di prevenzione antimafia i poteri di coordinamento della Direzione nazionale antimafia. L’attribuzione alla Direzione nazionale antimafia, con riferimento alle misure di prevenzione antimafia, del potere di coordinamento di cui all’art. 371 bis del codice processuale – a fianco del potere di iniziativa già previsto dall’art. 2 della legge n. 575/1965 – risponde a condivisibili esigenze di razionalità sistematica e di funzionalità operativa. Altrettanto è a dirsi per l’introduzione nel regio decreto n. 12/1941 dell’art. 110 ter, che estende la possibilità di disporre applicazioni alle Procure distrettuali dei magistrati in servizio presso la Direzione nazionale antimafia, dettata dalla necessità di armonizzare le disposizioni del codice di procedura penale con quelle di ordinamento giudiziario. Nel testo di conversione licenziato dal Senato, tuttavia, è stata inserita una limitazione dell’applicazione ai soli procedimenti relativi alle misure di prevenzione patrimoniali. Tale limitazione appare asimmetrica rispetto alla definizione delle competenze in ordine alla richiesta, in quanto la relativa attribuzione, come sopra evidenziato, viene prevista solo in favore della DIA, con la conseguenza paradossale che la DNA potrebbe applicare i propri magistrati per la trattazione dei singoli procedimenti ma non potrebbe promuoverli.


4. Consistenti le innovazioni che hanno per oggetto la disciplina della immigrazione o reati con essa connessi.

4.1. L’art. 1, comma 1, lett. a e b del decreto legge modifica gli articoli 235 e 312 del codice penale in punto espulsione e allontanamento dello straniero dal territorio dello Stato come misura di sicurezza. Le novità riguardano: b1) l’estensione della espulsione e dell’allontanamento, nel caso previsto dall’art. 235, ai casi di condanna alla reclusione per un tempo superiore ai due anni (anziché a dieci come nel testo previgente); b2) la previsione che, in caso di trasgressione dell’ordine di espulsione emesso dal giudice, «è obbligatorio l’arresto dell’autore del fatto, anche fuori dei casi di flagranza, e si procede con rito direttissimo». Entrambe le innovazioni avranno ricadute organizzative assai rilevanti: nella prima ipotesi per far fronte ai necessari accertamenti e valutazioni sulla esistenza di situazioni di effettiva pericolosità e, nella seconda, per far fronte alle convalide degli arresti (verosimilmente in numero consistente) e alla successiva gestione del procedimento con il rito direttissimo. Va, inoltre, evidenziato che la previsione dell’allontanamento del cittadino comunitario deve essere coordinata con la direttiva europea 29 aprile 2004, n. 2004/38/CE, resa esecutiva in Italia con decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30, secondo cui «la sola esistenza di condanne penali non giustifica di per sé l’adozione del provvedimento di allontanamento».

4.2. La lettera f dell’art. 1 introduce, al n. 11 bis dell’art. 61 del codice penale, una nuova aggravante generale – e, dunque, applicabile a qualunque reato – per l’ipotesi in cui il colpevole abbia commesso il fatto mentre si trova illegalmente sul territorio nazionale. La sussistenza di tale aggravante ha come ulteriore effetto – come già segnalato – la inapplicabilità della sospensione della esecuzione della pena ai sensi dell’art. 656, comma 5, del codice di proceduta penale. L’innovazione immette nel sistema un tasso di elevata rigidità e si fonda su una presunzione di pericolosità che non può automaticamente conseguire a uno status di mera irregolarità amministrativa (quale è l’illegale presenza nello Stato). Al riguardo, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 22/2007, ha, infatti, rilevato che la condizione di straniero irregolare in quanto tale non può essere associata a una presunzione di pericolosità e lo stesso reato di indebito trattenimento nel territorio nazionale dello straniero espulso ha come presupposto la «semplice condotta di inosservanza dell’ordine di allontanamento dato dal questore, con una fattispecie che prescinde da una accertata o presunta pericolosità dei soggetti responsabili.

4.3. L’art. 5, comma 1 – significativamente modificato in sede di conversione – inserisce nell’art. 12 del decreto legislativo n. 286 del 1998, il comma 5 bis che prevede come delitto (con pena della reclusione da sei mesi a tre anni e con confisca dell’immobile in caso di condanna o di applicazione di pena concordata) il fatto di chi «a titolo oneroso, al fine di trarre ingiusto profitto, dà alloggio ad uno straniero, privo di titolo di soggiorno, in un immobile di cui abbia disponibilità, ovvero lo cede allo stesso, anche in locazione». La nuova fattispecie di reato può essere valutata positivamente data la sua ratio tesa alla repressione di fatti di “sfruttamento” della situazione di illegalità di terzi, resa evidente dalla previsione della finalità di trarre dal fatto «ingiusto profitto». Essa, peraltro, dà luogo ad alcune questioni interpretative di non agevole soluzione, sia in punto individuazione dei soggetti responsabili in caso di locazione effettuata attraverso un contratto di mediazione o di agenzia, sia in punto accertamenti richiesti a chi concede l’alloggio al cittadino straniero, sia in punto effetti della carenza del titolo di soggiorno sopravvenuta nel corso del rapporto di locazione.

4.4. L’art. 5, comma 1 ter, a sua volta, trasforma da contravvenzione in delitto, punito con pena da sei mesi a tre anni e con la multa di 5.000 euro per ogni lavoratore impiegato, il fatto – previsto dall’art. 22, comma 12, del decreto legislativo n. 286 – del «datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno (...) ovvero il cui permesso sia scaduto o del quale non sia stato chiesto, nei termini di legge, il rinnovo, revocato o annullato». Evidente, anche in punto entità della pena, la simmetria con il delitto concernente la concessione di alloggio al cittadino straniero in condizioni di irregolarità, che – peraltro – rende incomprensibile e irrazionale la mancata parificazione anche in punto punibilità della condotta solo in caso di perseguimento di un ingiusto profitto.

4.5. Il comma 1 bis dell’art. 5, modificando l’art. 13, comma 3, del decreto legislativo n. 286/1998, dispone che il nulla osta dell’autorità giudiziaria alla espulsione del cittadino straniero sottoposto a procedimento penale (e non in stato di custodia cautelare) «si intende concesso qualora l’autorità giudiziaria non provveda entro sette giorni dalla data di ricevimento della richiesta». La riduzione del termine per provvedere dagli attuali quindici a sette giorni avrà all’evidenza – nelle condizioni di lavoro degli uffici giudiziari del Paese – l’effetto di escludere ogni effettivo controllo della autorità giudiziaria in ordine alla esistenza di esigenze cautelari ostative alla espulsione.


5. Un ulteriore gruppo di norme ha per oggetto specifico l’introduzione di un maggior rigore repressivo (già conseguente, peraltro, alle modifiche sin qui descritte).

5.1. Vengono, anzitutto, in rilievo al riguardo le disposizioni che introducono nuove ipotesi di reato. Si tratta, in particolare: c1) dell’art. 1, comma 1, lett. b quater, che prevede, nell’art. 495 ter, il nuovo delitto di «fraudolente alterazioni per impedire l’identificazione o l’accertamento di qualità personali», punito con la pena da uno a sei anni; c2) dell’art. 4, comma 1, lett. d, che reintroduce, all’art. 186, comma 7, del decreto legislativo n. 285/1992 (codice della strada) la previsione della rilevanza a titolo di contravvenzione del rifiuto di sottoporsi agli accertamenti condotti mediante etilometro; c3) del già citato art. 5, comma 1, che introduce il delitto della fornitura, a titolo oneroso e a fine di profitto, di alloggio a cittadino straniero privo di titolo di soggiorno. Si tratta di previsioni che, pur non ponendo problemi particolari sul piano applicativo (a parte quelli già segnalati per l’ipotesi sub c3), non tengono conto del fatto che la continua dilatazione dell’intervento penale è solo apparentemente produttiva di maggior sicurezza, determinando in concreto, soprattutto in mancanza di provvedimenti organizzativi adeguati, un ulteriore allungamento dei già intollerabili tempi giudiziari.

5.2. Vanno poi ricordati – a fianco delle numerose disposizioni che aumentano tout court le pene previste per numerosi delitti: dalla già ricordata associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416 bis c.p. (art. 1 lett. b bis) alle false indicazioni o attestazioni su qualità personali di cui agli articoli 495 e 496 c.p. (art. 1, lett. b ter e b quinquies), all’analogamente citato impiego di lavoratore straniero privo di permesso di soggiorno (art. 5, comma 1 ter) – gli interventi sul sistema delle circostanze. Si tratta, in particolare: d1) della previsione della nuova aggravante prevista per l’omicidio in danno «di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria, ovvero un ufficiale o agente di pubblica sicurezza, nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni o del servizio» (art. 586, comma 5 bis, introdotto dall’art. 1, lett. b sexies); d2) della previsione che «in ogni caso, l’assenza di precedenti condanne per altri reati a carico del condannato non può essere, per ciò solo, posta a fondamento della concessione delle attenuanti di cui al primo comma» (art. 62 bis, comma 3, introdotto dall’art. 1, lett. f bis); d3) della previsione del diverso sistema di computo delle circostanze in caso di omicidio colposo e lesioni colpose commesse con violazione delle norme sulla circolazione stradale (art. 590 bis codice penale, introdotto dall’art. 1, lettera e, secondo cui, nel caso di riconosciuta esistenza dell’aggravante specifica di avere commesso il fatto di cui all’art. 589 o quello di cui all’art. 590 in stato di ebbrezza alcolica o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope, «le concorrenti circostanze attenuanti diverse da quelle previste negli articoli 98 e 114 non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti e le diminuzioni si operano sulla quantità di pena determinata ai sensi delle predette circostanze aggravanti»).
L’insieme delle norme richiamate limita in maniera significativa i poteri valutativi del giudice, introducendo così nel sistema rigidità e automatismi che possono determinare sanzioni non adeguate rispetto al caso concreto (4).


6. L’art. 2 bis del decreto legge, introdotto con specifico emendamento in sede di conversione, sostituisce l’art. 132 bis del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 in tema di formazione dei ruoli di udienza disponendo che «nella formazione dei ruoli d’udienza e nella trattazione dei processi il giudice assegna precedenza assoluta ai procedimenti relativi ai delitti puniti con la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a dieci anni, ai delitti di cui agli articoli 51, commi 3 bis e 3 quater, e 407, comma 2, lettera a, del codice di procedura penale, ai delitti di criminalità organizzata, ai procedimenti con imputati detenuti, anche per reato diverso da quello per cui si procede, e ai procedimenti da celebrarsi con giudizio direttissimo e con giudizio immediato». Il nuovo secondo comma dell’art. 132 bis prevede, poi, che «nella formazione dei ruoli di udienza il giudice assicura priorità assoluta alla trattazione dei procedimenti relativi a reati commessi in violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro».

La norma, dato il suo tenore letterale («il giudice assegna precedenza assoluta»), non si limita a fissare «criteri di priorità», che – come costantemente ritenuto dal Consiglio superiore anche in occasione della approvazione dei progetti organizzativi di alcuni uffici di Procura tra cui quello di Torino (5)«si collocano sul piano dell’organizzazione dell’attività giudiziaria e, in quanto tali, si distinguono da quella che è stata definita la “selezione finalistica” delle notitiae criminis o dei procedimenti» e vanno tenuti distinti da «iniziative tese ad autorizzare – di diritto o di fatto – la mancata trattazione di alcuni procedimenti». Con essa, infatti, vengono introdotte nel sistema rigidità tali da poter determinare, negli uffici più aggravati di lavoro nei quali sia impossibile portare a termine in tempo utile tutti gli affari, anche l’esclusione dell’azione penale per intere tipologie predeterminate di reati. Si aggiunga che la previsione astratta e vincolante per legge dell’ordine di trattazione degli affari è, di per sé, incongrua essendo laborioso e difficilmente praticabile un intervento legislativo ogni volta in cui tale ordine debba essere modificato, anche per ragioni contingenti. La soluzione adottata, pertanto, sotto questo profilo suscita le stesse perplessità circa la conformità al principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale che creerebbe ogni altra soluzione con le medesime caratteristiche di rigidezza e tendenziale immodificabilità, laddove altre soluzioni più elastiche tale problema, pur non potendolo eliminare del tutto, lo potrebbero certamente attenuare. Ciò è già avvenuto in passato con un modello al quale sarebbe forse opportuno ripensare anche nella presente contingenza, allorché, con l’istituzione del giudice unico di primo grado, al fine della formazione dei ruoli d’udienza l’art. 227 del decreto legislativo n. 51/1998 prescrisse di tener conto di una pluralità di criteri che comprendevano la gravità e la concreta offensività del fatto, il pregiudizio per la formazione della prova e l’accertamento dei fatti e l’interesse della persona offesa. Ad essi potrebbe anche aggiungersi, qualora ciò sia ritenuto opportuno, l’indicazione “in positivo” di alcune ipotesi di reato che si ritiene debbano avere la precedenza, purché tale indicazione non risulti esaustiva ed assorbente di ogni altro criterio di valutazione, così da non escludere a priori la possibilità che qualsiasi processo, alla luce del complesso dei criteri indicati, possa comunque essere celebrato in tempo utile perché il suo esito dispieghi i suoi effetti.

Nello specifico, poi, la disciplina di cui al novellato art. 132 bis del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 si presta a ulteriori rilievi. In particolare:

e1) sotto il profilo metodologico, la definizione di una questione complessa e dibattuta come quella delle regole che presiedono alla scansione temporale dei processi penali (materia tipica, da un lato, della disciplina processuale e ordinamentale e, dall’altro, della discrezionalità giudiziaria) mediante un emendamento a un decreto legge avente un diverso oggetto e senza un adeguato confronto con gli operatori e con la cultura giuridica è destinata a produrre, nella fase applicativa, incertezze e polemiche tali da rendere ancor più tormentata la delicata fase della gestione dei procedimenti;

e2) nel merito, poi, va osservato che se al legislatore compete definire in via generale e astratta istituti idonei a incidere sui tempi processuali (basti pensare alla differenza dei riti, ai termini per le indagini o per la custodia cautelare, etc.), ragioni di giustizia e di rispetto dell’autonomia della magistratura e dei diritti delle parti impongono che sia lasciata alla giurisdizione, anche tenuto conto della concreta dialettica tra le parti, la definizione della tempistica dei singoli procedimenti (legata a situazioni non suscettibili di regolamentazione astratta, come l’esistenza o meno di parti offese, le richieste degli imputati, le esigenze di accertamenti da commisurare con i tempi necessari, etc.).


7. L’art. 2 ter infine, anch’esso introdotto con apposito emendamento in sede di conversione, prevede – come recita la rubrica – la «sospensione dei processi penali relativi a fatti commessi fino al 30 giugno 2002». In realtà, in forza di tale norma, e limitandosi a segnalare i profili di maggiore rilevanza: f1) i processi penali relativi a fatti commessi fino al 30 giugno 2002 (con riferimento alla data dell’ultimo reato contestato) che si trovino in uno stato compreso tra la fissazione dell’udienza preliminare e la chiusura del dibattimento di primo grado (eccettuati quelli «relativi ai delitti di cui agli articoli 51, commi 3 bis e 3 quater, e 407, comma 2, lettera a del codice di procedura penale, ai delitti di criminalità organizzata, ai delitti puniti con la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a dieci anni determinata a norma dell’articolo 4 del codice di procedura penale, ai reati commessi in violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e, in ogni caso, ai procedimenti con imputati detenuti, anche per reato diverso da quello per cui si procede»), sono immediatamente sospesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto per la durata di un anno. In caso di pluralità di reati contestati, si ha riguardo alla data dell’ultimo reato»; f2) della sospensione è data comunicazione (con l’eventuale indicazione della nuova data d’udienza) ai difensori delle parti e al pubblico ministero e «durante la sospensione rimane sospeso anche il termine della prescrizione», che «riprende il suo corso dal giorno in cui è cessata la sospensione»; f3) il presidente del tribunale può, inoltre, «sospendere i processi quando i reati in essi contestati sono prossimi alla prescrizione e la pena eventualmente da infliggere non sarebbe eseguibile ai sensi della legge 31 luglio 2006, n. 241»; f4) l’imputato può chiedere al presidente del tribunale di non sospendere il processo ma la sua richiesta non determina automaticamente tale esito dovendo il presidente valutare a tali fine «le ragioni della richiesta, le esigenze dell’ufficio e lo stato del processo»; f5) l’imputato e il pubblico ministero possono formulare la richiesta di cui all’articolo 444 del codice di procedura penale entro tre giorni dalla notifica del provvedimento di sospensione o nella prima udienza utile successiva alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto, anche nei processi nei quali, alla data di entrata in vigore della presente legge, risulti decorso il termine previsto dall’articolo 446 comma 1 del codice di procedura penale e sino alla dichiarazione di chiusura del dibattimento ed altresì quando la richiesta sia stata già presentata nel corso del procedimento, ma vi sia stato il dissenso da parte del pubblico ministero ovvero sia stata rigettata dal giudice, e sempre che la nuova richiesta non costituisca mera riproposizione della precedente.

La nuova disposizione, così come ricostruita, si presta a non pochi rilievi critici.

7.1. Con riferimento alla sospensione obbligatoria dei processi prevista dal comma 1 dell’art. 2 ter è, infatti, agevole osservare che:

g1) la disciplina per essa prevista presenta profili di grave irragionevolezza. In particolare: α) lo spartiacque temporale tra processi che devono essere sospesi e processi che devono proseguire, coincidente con la commissione del reato entro il 30 giugno 2002, è svincolato da ogni parametro di riferimento rinvenibile nel sistema normativo ed è, conseguentemente, casuale e arbitrario; β) la scelta dei reati per i quali va disposta la sospensione dei processi – effettuata in base al titolo, alla pena prevista e alla fase in cui i processi di trovano nel giorno della entrata in vigore della legge di conversione – appare ugualmente non ragionevole, essendo tra tali reati compresi numerosi delitti che, secondo altre previsioni dello stesso decreto, determinano particolare allarme sociale; γ) non è dato vedere quale razionalità presieda alla attribuzione dello stesso trattamento (la sospensione) a processi il cui corso è del tutto diverso (in taluni casi ancora da iniziare, in altri prossimo a definizione magari dopo un iter di anni) δ la sospensione obbligatoria si imporrebbe anche presso uffici giudiziari (che pure esistono) in grado di smaltire anche i processi indicati dal comma 1 dell’art. 2 ter, così sacrificando immotivatamente le ragioni di giustizia sottostanti alla celebrazione di essi;

g2) la sospensione è all’evidenza incongrua rispetto al fine dichiarato di «assicurare la priorità assoluta alla trattazione dei procedimenti di cui all’articolo 132 bis del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, nonché dei procedimenti da celebrarsi con giudizio direttissimo e con giudizio immediato». Essa, infatti, riguarderà comunque un numero ingente di dibattimenti e provocherà – nel medio, ma anche nel breve, termine – l’effetto opposto di una ulteriore dilatazione dei tempi della giustizia complessivamente intesa. Dal mancato rispetto del principio della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), poi, discenderanno prevedibilmente crescenti richieste risarcitorie ai sensi della cd legge Pinto. Ciò per una pluralità di ragioni e, in particolare perché: α) la sospensione è istituto che non elimina i processi ma semplicemente ne differisce la trattazione allontanandola ancora di più dalla data di commissione dei fatti, con evidente nocumento per le possibilità di accertamento e per gli interessi delle parti offese, già gravemente danneggiati dalla mancata tempestiva definizione del procedimento; β) nell’immediato, gli adempimenti richiesti dalla sospensione (comunicazioni alle parti e fissazione delle nuove udienze) determineranno un significativo lavoro delle cancellerie tale da escludere una automatica conversione del tempo risparmiato con la mancata celebrazione dei dibattimenti sospesi in tempo dedicato alla definizione degli altri procedimenti; γ) decorso l’anno di sospensione, i dibattimenti sospesi dovranno riprendere, in ogni caso, con il deficit di conoscenza (e la necessità di nuovo studio degli atti) conseguente al tempo trascorso dal compimento degli ultimi anni e, in caso di intervenuto mutamento della persona fisica del giudice monocratico o anche di un solo componente del collegio giudicante (ipotesi niente affatto remota dati il numero significativo di trasferimenti e pensionamenti che interessa ogni anno i magistrati e i limiti di permanenza massima nelle diverse posizioni professionali previsti dal nuovo ordinamento giudiziario), con la necessità di ricominciare da capo il dibattimento (magari dopo una attività istruttoria di anni); δ) la sospensione durerà, per molti dei procedimenti interessati, ben più di un anno essendo evidente l’impossibilità che tutti i dibattimenti sospesi riprendano immediatamente allo scadere della sospensione;

g3) la sospensione obbligatoria, oltre a ledere talora in modo assai grave gli interessi e le aspettative delle parti offese, può violare anche diritti dell’imputato, non essendo allo stesso accordata – almeno a quanto sembra emergere dalla lettera della norma e a differenza di quanto accade per la sospensione facoltativa di cui al successivo comma 7 – la possibilità di chiedere e ottenere che il procedimento non venga sospeso;

g4) la disciplina della sospensione della prescrizione nel tempo in cui il processo è sospeso è lacunosa e imprecisa, non essendo chiarito se la ripresa del corso della prescrizione si verifichi alla scadenza dell’anno di sospensione ovvero al momento in cui riprende il dibattimento.

7.2. Quanto, poi, alla sospensione facoltativa prevista dal comma 7 dell’art. 2 ter, richiamato quanto detto in generale per la sospensione obbligatoria, va ulteriormente segnalato che:

h1) detta sospensione, a differenza di quella obbligatoria, è ancorata a parametri normativi comprensibili (prossimità della prescrizione o non eseguibilità della pena eventualmente irrogata per essere la stessa coperta da indulto) ma la sua struttura la fa apparire una sorta di amnistia occulta applicata al di fuori della procedura prevista dall’art. 79 della Carta costituzionale. Per essa infatti – anche a prescindere dall’incertezza circa l’operatività una tantum ovvero il carattere di istituto permanente del sistema – sembra non operare la sospensione della prescrizione, limitata dal comma 2 dell’articolo in esame alla ipotesi di sospensione obbligatoria di cui al comma 1, ed è evidente che la sospensione dei procedimenti per reati prossimi alla prescrizione determina inevitabilmente il maturare della stessa per legge mentre quella dei procedimenti per reati coperti da indulto ne avvicina, in ogni caso, la maturazione;

h2) l’attribuzione al presidente del tribunale – e non al giudice naturale che procede – del potere discrezionale di sospendere i processi, svincolato per di più da parametri prestabiliti, è del tutto anomalo nel sistema ordinamentale e processuale: ciò non solo nel caso in cui il riferimento sia al presidente del tribunale tout court, ma anche nella ipotesi in cui il riferimento sia al presidente del collegio giudicante (a cui il sistema attribuisce poteri organizzativi o di disciplina dell’udienza e solo in casi eccezionali competenze lato sensu giurisdizionali);

h3) la possibilità di procedere al dibattimento nei confronti di uno o più imputati, su richiesta degli stessi, comporta – nel caso di dibattimenti cumulativi – stralci antieconomici e forieri di moltiplicazione delle incompatibilità (insostenibili negli uffici di piccole dimensioni) e di esiti processuali potenzialmente diversi e contraddittori con gravi, e non inevitabili, inconvenienti sulla credibilità del sistema».


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Note:

(1) Ciò corrisponde a un costante orientamento del Consiglio superiore: cfr., per tutti, il parere 17 febbraio 2000 sul decreto legge 5 gennaio 2000 in materia di giusto processo, nel quale il Consiglio ha ritenuto di «dover valutare anche il testo licenziato dalla Camera dei deputati perché esso può essere indicativo delle linee di tendenza della futura normativa».

(2) Così, da ultimo, i pareri 17 gennaio 2008 sul disegno di legge recante «Disposizioni concernenti i delitti contro l’ambiente. Delega al governo per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della relativa disciplina» approvato dal Consiglio dei ministri il 24 aprile 2007, 20 febbraio 2008 sul disegno di legge di conversione del decreto legge 1° novembre 2007 n. 181 concernente: «Disposizioni urgenti in materia di allontanamento dal territorio nazionale per esigenze di pubblica sicurezza», 19 giugno 2008 sul decreto legge 23 maggio 2008, n. 90, recante «Misure straordinarie per fronteggiare l’emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti nella regione Campania ed ulteriori disposizioni di protezione civile».

(3) L’inopportunità di interventi simili a quello in esame realizzati mediante decreto legge è stata ripetutamente segnalata dal Consiglio superiore. Si veda, per tutti, il parere sul decreto legge n. 266 approvato dal Consiglio dei ministri il 9 novembre 2004, reso dal CSM nella seduta del 15 dicembre 2004 in cui si legge: «Va messo in evidenza, in primo luogo, che la delicatezza della materia ordinamentale suggerirebbe, come il Consiglio ha già avuto modo di affermare, di non procedere a interventi modificativi con lo strumento della decretazione d’urgenza, anche al fine di consentire una opportuna consultazione preventiva con il CSM sulle materie interessate. Analoghe ragioni imporrebbero, soprattutto in presenza di tempi di trattazione parlamentare necessariamente molto ristretti, che il Consiglio fosse interessato rapidamente onde evitare il rischio che esso non abbia modo di esprimere un parere utile e tempestivo. L’attuazione del principio di leale collaborazione, infatti, non ha riguardo soltanto a finalità di equilibrio istituzionale, ma anche alle ragioni di efficienza e di buona amministrazione».

(4) Sulla inopportunità della previsione di meccanismi processuali o comunque di istituti eccessivamente limitativi della discrezionalità giudiziaria ripetute sono, ormai, le prese di posizione del Consiglio superiore (cfr., da ultimo, il parere 9 maggio 2007 sul disegno di legge 2 dicembre 2006 concernente «Misure di sensibilizzazione e prevenzione, nonché repressione dei delitti contro le persone e nell’ambito della famiglia, per l’orientamento sessuale, l’identità di genere ed ogni altra causa di discriminazione»).

(5) Meritano di essere dichiarate, da ultimo, le risoluzioni 9 novembre 2006 (in risposta alla nota 12 settembre 2006 con cui il ministro della Giustizia chiedeva un parere sulla «possibilità di differenziare, rispetto agli altri, la tempistica dei processi penali destinati ad esaurirsi senza la concreta inflizione di una pena ricorrendo il beneficio dell'indulto») e 15 maggio 2007 (avente ad oggetto l'approvazione dei progetti di organizzazione di alcuni uffici di Procura tra cui quella di Torino).