sabato 29 novembre 2008

Uomini e maggiordomi



di Peter Gomez
(Giornalista)



da Voglioscendere del 28 novembre 2008

Questo pomeriggio il vice-presidente della commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai, Giorgio Lainati (Pdl), e il capogruppo del partito di Berlusconi in commissione, Alessio Butti, hanno annunciato che nei prossimi giorni chiederanno «conto al direttore generale Cappon e al presidente Petruccioli del perché sia permesso all’ex parlamentare diessino Michele Santoro di fregarsene del pluralismo dell’informazione».

I due si lamentano perché nella puntata di Annozero di giovedì, dedicata alla crisi economica, «Santoro ha sparato contro il Governo facendo parlare esponenti del mondo politico e imprenditoriale rappresentanti la sola opposizione» utilizzando poi, «per completare “il capolavoro”, una serie di grafici e tabelle, molte delle quali elaborate da studi della Cgil».

Il messaggio che lanciano Lainati e Butti, con un linguaggio nemmeno troppo vagamente nostalgico, è chiaro: per Annozero è ormai iniziato il conto alla rovescia.

A questo punto, più che ricordare che i ministri del Popolo delle Libertà nelle ultime settimane hanno sempre declinato gli inviti in trasmissione per loro libera scelta, è forse il caso di riflettere sul significato della parola pluralismo e sui limiti del giornalismo.

Partiamo dunque dal fondo: ovviamente anche chi fa il giornalista ha dei limiti. Che possono essere riassunti così: ciascuno può dire o raccontare quello che vuole a patto che non violi il codice penale o quello deontologico. Non si possono, insomma, diffamare o calunniare le persone. E se ciò avviene chi lo ha fatto paga con sanzioni pecuniarie o, nei casi estremi, addirittura con la detenzione.

In ogni caso a stabilire se ciò è avvenuto non può essere un organismo parlamentare. Devono farlo invece la magistratura e l’ordine dei giornalisti.

Veniamo quindi al pluralismo.

Dare diritto di parola ai rappresentanti di tutte le formazioni politiche in un unico programma non vuol dire essere pluralisti.

Prima di tutto perché non solo i partiti rappresentano la società (cioè il pubblico): i parlamentari, che intervengono su qualsiasi argomento in tutti i tg, dal punto di vista giornalistico hanno lo stesso peso dei sindacati, delle associazioni e dei semplici cittadini.

E anzi, se si vuole fotografare con chiarezza lo stato di un paese come il nostro, spesso (anzi quasi sempre), meno si fanno parlare i politici e meglio è.

Ma non basta. Perché la tv non è pluralista se il giornalista o il conduttore si limita a dirigere il traffico dando la parola a questo o quello. Lo è invece se lascia spazio in programmi differenti a conduttori e giornalisti con punti di vista e opinioni diverse. Poi saranno i telespettatori a scegliere che cosa guardare.

Insomma la tv pubblica dovrebbe essere un po’ come un’edicola: ch’è chi compra il “Corriere della Sera”, chi “La Repubblica”, chi “Il Giornale”. Vince poi il migliore (chi fa più ascolti).

Un’unica regola va rispettata: la verità dei fatti. Detto in altre parole: se Berlusconi afferma che il mare è giallo e D’Alema risponde che è rosso, il conduttore, comunque la pensi, deve intervenire per chiarire che il mare è blu. Se non lo fa è, nel migliore dei casi, professionalmente impreparato, e nel peggiore un maggiordomo.



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venerdì 28 novembre 2008

Le motivazioni della prima sentenza sui fatti del G8 di Genova


E’ stata depositata ieri la motivazione della prima sentenza sui fatti del G8 di Genova, quella pronunciata il 14.7.2008.

Il testo integrale della sentenza si può leggere e scaricare dal sito di Repubblica a questo link.

Per una lettura più agevole, nell'ultima pagina della sentenza c’è un indice della stessa.

A questo link, sul blog di Emanuele Scimone, alcuni stralci della sentenza.





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Sulle recenti prove del concorso di magistratura



Nei giorni 19, 20 e 21 novembre uu.ss., si sono tenute a Milano le prove scritte di un concorso per la magistratura.

Intorno alle modalità di svolgimento di quel concorso sono sorte polemiche, che hanno avuto un’eco anche in questo blog.

Della cosa si stanno occupando istituzionalmente il Ministero della Giustizia e il Consiglio Superiore della Magistratura.

Riportiamo qui il link al quale è possibile consultare e scaricare la relazione sui fatti del Presidente dalla Commissione di concorso alle competenti autorità.

La relazione si trova nel sito del Ministero della Giustizia e può essere letta cliccando qui.

Stamattina, a Radio24, c’è stato un dibattito su questa vicenda, al quale hanno partecipato Violante, il Consigliere del C.S.M. avv. Vincenzo Siniscalchi e alcuni dei candidati al concorso.

L’ascolto della registrazione della trasmissione offre ulteriori spunti di riflessione.

Il link nel quale ascoltare la registrazione è questo.



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mercoledì 26 novembre 2008

La riforma tombale

Versione stampabile


Dando seguito all’articolo del prof. Vittorio Grevi – “Tutti i pregi (e un difetto) del C.S.M.” – in occasione del cinquantenario dell’istituzione, riportiamo un articolo di Felice Lima per Micromega sulla necessità di NON modificare l’assetto giuridico del C.S.M..

Sulla necessità di difendere l'indipendenza del C.S.M. e, d'altra parte, sui gravi “torti” del C.S.M. medesimo, abbiamo riportato a questo link un’intervista a Felice Lima, tratta dal libro di Antonio Massari “Il caso De Magistris”, e a questo link un capitolo del libro “Toghe rotte”, a cura di Bruno Tinti.




di Felice Lima
(Giudice del Tribunale di Catania)



da Micromega, 5/2008


Nel nostro Paese ormai è impossibile trattare razionalmente qualsiasi tema.

Il cosiddetto dibattito pubblico si articola ormai esclusivamente in “campagne di stampa” sfrontatamente false, nelle quali vengono urlate con una arroganza che dovrebbe riservarsi a miglior causa le menzogne più paradossali.

Appare sempre più evidente che non esiste più alcun confronto veramente democratico su nulla.

Coloro che hanno il potere ne fanno l’uso che vogliono – tendenzialmente il peggiore – e il popolo viene solo “tenuto a bada” con falsi racconti, falsi ragionamenti, false emergenze.

Questa è stata l’estate dell’annuncio della riforma tombale della giustizia.

Sono decenni che il potere politico non fa altro che riformare la giustizia – guarda caso sempre e solo nel senso di fare in modo che funzioni sempre meno – e ora si annuncia la riforma definitiva.

In linea con il sistema di menzogne istituzionalizzate del quale ho appena detto, l’occasione per l’annuncio è stata la scoperta da parte della magistratura di un sistema di gravissima corruzione nella sanità dell’Abruzzo, che ha portato all’arresto di diversi politici potenti.

Nessun politico ha dedicato alcuna attenzione alla corruzione scoperta. Tutti si sono concentrati sulla “inaccettabilità” (chissà perché) dell’arresto del Presidente Del Turco, dicendo chiaramente che (chissà perché) “non poteva essere colpevole”.

Il Presidente del Consiglio, invece di elogiare i magistrati che hanno trattato il caso con efficienza e professionalità, che non hanno rilasciato interviste, che hanno impedito ed evitato fughe di notizie, ha annunciato immediatamente – è proprio il mondo al contrario - che questo episodio era l’ennesima prova della necessità della riforma tombale.

In poche settimane è rimasto confermato che gli arresti erano del tutto legittimi e che lo stesso Del Turco non aveva nulla da opporre agli stessi (basti considerare, sul punto, che ha addirittura RINUNCIATO al ricorso al c.d. Tribunale della libertà e che, da ultimo, ha dichiarato che il suo processo «non è un errore giudiziario»: cfr La Repubblica del 9.9.2008).

A questo punto, la tesi della “persecuzione giudiziaria” è scomparsa dai giornali, ma la riforma tombale è rimasta.

E’ difficile dire qualcosa su di essa.

Tutta l’intellighenzia del Paese, che non sogna altro che servire il potere (per averne dei benefici), continua a dire che non si può criticare una riforma che ancora non c’è.

Sarà anche vero, ma ciò che è del tutto assurdo nel nostro Paese è che si annuncino (minaccino!) riforme di enorme rilievo politico e sociale non solo senza indicarne le vere ragioni e i contenuti, ma addirittura indicando ragioni palesemente false e pretestuose.

L’unica cosa che sa fare il potere è “pubblicità”: il Presidente del Consiglio, infatti, ha trovato uno sponsor, postumo, alla sua riforma. Ha detto che sarà quella pensata da Giovanni Falcone (La Repubblica del 21.8.2008)! Ogni commento è superfluo.

Un’altra cosa tipicamente italiana è “far passare” riforme assurde indicando dei problemi reali, ma offrendo soluzioni che non solo non li risolvono, ma li aggravano.

Sul punto, basti considerare il discorso sul problema del C.S.M. “politicizzato”, che si dovrebbe risolvere aumentando nel C.S.M. i membri di nomina politica (anche Violante è corso a dirsi d’accordo)!

Come se, fra l’altro, nel nostro Paese tutti gli enti controllati della politica avessero dato fino ad oggi prova di imparzialità ed efficienza!

Sembra veramente una barzelletta: per risolvere il problema della politicizzazione del C.S.M., lo si politicizza ancora di più.

Come se si dicesse: “Ci sono troppi morti in incidenti stradali. Bisogna riformare il codice della strada. Aboliremo i limiti di velocità!”. O come: “Ci sono troppi crimini nell’economia (Parmalat, Cirio, ecc.). Depenalizzeremo il falso in bilancio” (ops! Questo lo hanno fatto).

E’ una tecnica paradossale e ancora più paradossale (per non dire tragico) è che funzioni da decenni.

Ogni volta che il potere politico ha interesse a “far passare” riforme “indecenti” in materia di giustizia, mette su una campagna di stampa che “denuncia” l’inefficienza della giustizia, dando ad intendere che la riforma proposta risolverà il problema.

Abbiamo un Presidente del Consiglio che va in televisione a dire che la giustizia è un cancro e i magistrati ne sono le metastasi e promette riforme.

Uno allora si aspetta che annunci riforme che risolveranno i problemi dei cittadini che aspettano da anni una sentenza di divorzio o dei lavoratori le cui cause per un licenziamento vengono rinviate al 2012. Che annunci riforme che assicurino che i magistrati cialtroni e lavativi verranno puniti e cacciati.

E invece no: l’unico “problema della giustizia” che vede lui è impedire alla giustizia di processare politici corrotti.

Quindi, le uniche riforme che propone sono quelle che impediranno le indagini contro i corrotti e che consentiranno di cacciare non i magistrati cialtroni e lavativi, ma quelli zelanti e indipendenti.

La verità – che è sotto gli occhi di tutti – è che:

1. la giustizia in Italia è sommamente e inaccettabilmente inefficiente;

2. ciò non è frutto del caso, ma di una precisa volontà politica, perché un paese nel quale i poteri forti sono ampiamente fondati nell’illegalità non può “permettersi” una giustizia efficiente;

3. il Parlamento lavora da anni costantemente a leggi in materia di giustizia, ma si tratta di leggi contro e non a favore della giustizia.

Si cita sempre l’inaccettabile durata dei processi e la non effettività delle pene.

Ma TUTTE le leggi fatte negli ultimi anni (decenni) in materia di giustizia, non solo non hanno accorciato la durata dei processi né reso effettive le pene, ma hanno fatto – e a questo miravano intenzionalmente – l’esatto contrario.

Chi avesse dubbi, potrà ripassare a memoria le più recenti leggi votate facendo lavorare alacremente il Parlamento giorno e notte.

Fra le tante:

- la legge che ha depenalizzato il falso in bilancio;

- la legge Cirami, voluta per ottenere di sottrarre ai giudici milanesi un processo che vedeva imputato l’attuale Presidente del Consiglio;

- il c.d. “lodo Schifani”, che assicurava l’impunità alle alte cariche dello Stato: dichiarata inconstituzionale e riapprovata adesso con alcune modifiche come “lodo Alfano”;

- la legge Pecorella, che impediva al pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di assoluzione: dichiarata incostituzionale;

- la legge Cirielli, che crea un “doppio binario”, aggravando le pene per i pregiudicati anche per reati modestissimi (tipo la vendita di cd piratati) e accorciando per tutti gli altri (“colletti bianchi” ampiamente inclusi) così tanto i termini della prescrizione da assicurare che essa maturi SEMPRE: dichiarata parzialmente incostituzionale;

- l’indulto votato da cosiddetta destra e cosiddetta sinistra e fissato in tre anni (cosa mai accaduta prima) così da assicurare la libertà al sen. Previti (votato in fretta e furia, così che il Previti è rimasto agli arresti domiciliari solo per pochi giorni).

E poi tutta una infinità di leggi e leggine fintamente “dure” ed “efficientiste”, propagandate come prova di una asserita ma in realtà inesistente “tolleranza zero”, che non servono a niente (e anzi impantanano ancora di più la macchina giudiziaria), ma coprono sotto l’apparenza di un impegno positivo l’impegno nella direzione esattamente opposta (si pensi, per esempio, a tutte le leggi e leggine contro forme assolutamente marginali di crimini poco rilevanti: dai lavavetri ai venditori di musica senza bollino Siae).

Immaginiamo come sarebbe oggi l’amministrazione della giustizia se tutte le energie investite dal Parlamento per mettere amici e amici degli amici al riparo dalla giustizia fossero state investite per farla funzionare.

Per fare funzionare la giustizia servirebbero poche ma “giuste” riforme e alcune di esse potrebbero essere fatte non solo “a costo zero”, ma addirittura con risparmio di costi (si pensi, per tutte, alla soppressione di tanti tribunali distaccati con pochissimo carico di lavoro e dotazioni di personale improprie).

Ma NESSUNA di queste riforme è all’orizzonte, né in cantiere, né nelle speranze o nei progetti di questo o quel partito politico.

Con esiti in alcuni casi paradossali.

Si lamentano della presunta “politicizzazione” della magistratura e, invece di fare la cosa più semplice e più ovvia del mondo – impedire i passaggi in andata e ritorno dalla magistratura alla politica –, continuano ad “arruolare” magistrati in politica.

Tutti i partiti ne hanno e in misura uguale.

L’attuale “ministro ombra” della giustizia del PD è Lanfranco Tenaglia, magistrato, che al momento della sua candidatura, era membro del C.S.M..

L’attuale assessore alla sanità della Regione Siciliana (in una giunta di cosiddetto centro destra) è Massimo Russo, magistrato, già componente della Direzione Distrettuale Antimafia della Procura di Palermo e poi Vicecapodipartimento del Ministero Mastella (in un governo di cosiddetto centro sinistra).

La “legge Cirami” prende il nome di un magistrato – Melchiorre Cirami – eletto nel centro destra.

E tanti altri.

L’obiettivo del giorno è controllare politicamente il C.S.M.

L’altro, incidere sulla obbligatorietà dell’azione penale.

Si assume che le Procure esercitino una facoltatività di fatto, dovuta alla impossibilità materiale di perseguire tutti i reati, e si propone che sia la politica a dire cosa si persegue e cosa no.

Si tratta dell’ennesimo imbroglio.

Anche qui nessuno propone la cosa più ovvia e più semplice di tutte.

Se la giustizia non funziona anche e soprattutto perché “ingolfata” e questo rende materialmente impossibile perseguire efficacemente tutti i reati, la cosa da fare sarebbe ridurre le fattispecie di reato e semplificare alcuni riti. E/o aumentare il numero di magistrati e cancellieri.

E’ inutile perseguire come reati gli “attentati” alla denominazione del “prosciutto di Parma” (lo prevedeva la legge 26 del 1990 e solo nel 1999, con la legge n. 507, il reato è stato depenalizzato) ed è assurdo assicurare le stesse garanzie dei processi per strage a quelli per ingiurie (in sostanza se un condomino da del “cretino” a un altro condomino noi gli facciamo un processo uguale in tutto e per tutto a quello che facciamo a Totò Riina o a un bancarottiere, con la differenza che, se il condomino ha un precedente penale per molestie telefoniche la sua ingiuria non si prescriverà, mentre si prescriverà la bancarotta di mille miliardi se il bancarottiere è incensurato: sono gli effetti della legge Cirielli).

E che senso avrà mai che il Governo o il Parlamento o chicchessia debbano indicare ogni anno quali reati perseguire e quali no?

Anche qui la cosa più semplice è quella ovvia e peraltro prevista dalla Costituzione: il Parlamento stabilisce cosa è reato – e quello deve essere perseguito – e cosa non lo è – e quello non viene perseguito –; il tutto, ovviamente, in maniera generale e astratta e non anno per anno in base al fatto che un Presidente del Consiglio o il cugino di un senatore o l’amante di un deputato siano o no sotto processo per questo o quel reato.

Illustrare analiticamente le logiche perverse di ciò che stanno per fare richiederebbe troppe pagine.

Ciò che mi preme sottolineare è solo come la separazione dei poteri sia assolutamente irrinunciabile in una democrazia e come sia, invece, già molto “rinunciata” e ancora di più in corso di “rinuncia ulteriore”.

Per illustrare la cosa, ricorrerò a un esempio.

Si immagini che su un’isola naufraghino due persone affamate e che abbiano a disposizione una pizza rimasta nello zaino di una delle due.

Si tratta di dividerla.

Ognuno ne vorrebbe per sé la maggiore quantità possibile e si deve trovare un criterio di gestione della divisione che dia garanzie a entrambi.

L’unica soluzione sicura è quella della “separazione dei poteri”.

Uno dei due affamati taglierà la pizza in due parti e l’altro distribuirà le fette.

Solo così è possibile essere sicuri che chi taglierà la pizza, la taglierà in parti uguali.

Sapendo che sarà costretto a subire la regola che porrà, sarà indotto a porne una giusta.

Se, invece, chi taglia le fette potesse anche scegliere come distribuirle, sarebbe molto alto il rischio che egli tagli le fette in maniera diseguale e si scelga quella più grande.

Se uno dei due affamati potrà tagliare la pizza e scegliersi la fetta, l’altro non avrà alcuna speranza di mangiarne anche solo un po’ e la sua condizione sarà quella di chi, per sopravvivere, non potrà fare altro che invocare compassione nella sua controparte.

Questo è il meccanismo della “separazione dei poteri” fra legislativo e giudiziario: alcuni fanno le leggi, altri le applicano.

Se chi fa le leggi sa che vi sarà soggetto anche lui, le farà le più eque possibili.

Se chi fa le leggi saprà, invece, che potrà anche non applicarle a se e ai suoi amici, allora farà ciò che vuole.

E’ la condizione propria dei regni prima della rivoluzione francese: allora i re, come ci è stato insegnato alle scuole medie, erano legibus soluti.

In mancanza di separazione dei poteri manca il primo dei requisiti di una democrazia.

Questo è ciò in cui già in grande misura siano, in Italia, e ciò verso con grande incoscienza e disonestà ancora di più andiamo.

E le menzogne usate per “giustificare” questo andazzo sono veramente illogiche.

L’espediente principale è quello di diffamare la magistratura.

Tutti i giornali al soldo del potere hanno condotto in questi anni e da ultimo con particolare violenza in questi ultimi mesi, una campagna di delegittimazione della magistratura tendente a far credere che la colpa di tutte le inefficienze della giustizia sia dei magistrati e che il potere giudiziario sia in mano a dei criminali.

L’argomento non regge sotto un duplice profilo, formale e sostanziale.

Sotto il profilo sostanziale, sembra succeda qualcosa di simile all’apologo del bue che dà del cornuto all’asino.

Se, infatti, fosse vero che la magistratura non dà buona prova di sé, che dire della politica?

Se ai magistrati si contestano inefficienze e faziosità, che si dovrebbe dire dei politici?

Se il C.S.M. dovesse essere chiuso perché in esso si fanno “pasticci”, che si dovrebbe fare allora del Parlamento? E delle Regioni? E delle Province? E delle A.S.L., dove i primari di chirurgia vengono scelti in base al partito di appartenenza invece che in base alla capacità che hanno di fare una operazione?

Ma ciò che è decisivo è l’argomento logico.

Tornando all’esempio della pizza da dividere in due, il fatto che, in ipotesi, uno dei due affamati o entrambi siano dei delinquenti non solo non fa venir meno l’esigenza di separare i loro poteri sulla pizza, ma anzi la rafforza.

Diceva qualcuno che anche se sulla terra fossero rimasti solo San Francesco e Santa Chiara ugualmente sarebbe stato doveroso porre una legge a regola dei loro rapporti.

Ma a maggior ragione se riteniamo che siano rimasti solo Barabba e Giuda si impone che costoro operino secondo regole.

E quanto più i due affamati della pizza risultino dei cialtroni pericolosi, tanto più sarà necessario evitare che lo stesso affamato tagli la pizza e scelga la fetta.

Quindi, anche se la magistratura, per una misteriosa e sfortunata casualità, fosse composta solo da cialtroni, l’esigenza di tenere separati i poteri resterebbe intatta e, anzi, sarebbe ancora più forte.

La separazione dei poteri, in sostanza, è IRRINUNCIABILE.

Vedere che ci avviamo a rinunciarci ancor più di quanto si è già fatto finora mi sembra veramente una terribile prospettiva.

Si badi: non per me o per i miei colleghi magistrati, ma per tutti noi come cittadini.

E questo perché, diversamente da ciò che il potere fa credere ai cittadini teledipendenti, la democrazia non è essenzialmente un “metodo di scelta del governante”, ma prevalentemente un “metodo di esercizio del potere”.

Proverò a sviluppare queste tesi, perché, a mio modesto parere, solo se si riconoscerà questo sarà possibile, per un verso, capire quanto grave sia la malattia della quale stiamo morendo e, per altro verso, quali siano le cure possibili per essa.

Partendo dalla questione della scelta del governante, sembra chiaro che, se si dovesse scegliere fra vivere in un Paese nel quale il capo del governo viene scelto dai cittadini con libere elezioni, ma poi governa come dice lui, facendosi le leggi che gli servono e abrogando quelle che non gli convengono (pensate a Berlusconi che viene assolto perché, NEL CORSO DEL SUO PROCESSO, il Parlamento ha deciso che il falso in bilancio non è più reato), o in un Paese nel quale governa un re incoronato per successione dinastica, che, però, governa nel rispetto di regole precise, ritenendosi anch’egli soggetto alle leggi che si applicano a tutti gli altri cittadini, ognuno sceglierebbe il secondo Paese, perché esso sarebbe certamente “più democratico” del primo.

Dunque, è certo che neppure in un Paese più decente del nostro, nel quale i cittadini possano esprimere un voto di preferenza (che da noi non esiste più, sicché chi governa non viene scelto dai cittadini, ma “designato” da quattro segretari di partito), il solo fatto che i governanti vengano fatti risultare da un qualche tipo (anche taroccato come il nostro) di “libera elezione” è sufficiente a dire che quel Paese è “democratico”.

La democrazia, dicevo, è, infatti e fondamentalmente, un metodo di esercizio del potere.

L’elenco delle caratteristiche che deve avere un metodo di esercizio del potere per potersi definire democratico è lungo, ma assolutamente essenziale è la separazione dei poteri, figlia della rivoluzione francese.

Riducendolo all’osso, l’idea è che un gruppo di persone fa le leggi (il potere legislativo), altri le applicano (l’esecutivo, il governo), altri ancora (i giudici) controllano che la legge venga rispettata da tutti.

Riducendo ancora di più, l’idea è che tutti sono soggetti alla legge e che “la legge è uguale per tutti”.

Ai tempi dei faraoni, la legge era solo la manifestazione della volontà del faraone.

La legge era uno “strumento” del potere.

Nella logica della democrazia post rivoluzionaria, invece, la legge è il valore e il potere uno strumento della legge.

Il Parlamento dovrebbe avere per così dire una “antecendenza logica” sul Governo.

Non a caso si parlava di “Parlamento sovrano”.

Il Parlamento dovrebbe decidere cos’è “giusto” e il Governo vi dovrebbe dare attuazione.

Mi sembra che non ci possano essere dubbi sul fatto che oggi in Italia siamo tornati alla situazione che ho indicato come quella dei tempi del faraone.

Il potere non si chiede affatto “cosa è giusto e legale che io faccia”, ma “che leggi debbo fare al più presto per potere fare ciò che voglio”.

Con adesso addirittura anche la pretesa di potere non applicare neppure le leggi fatte così quando capiti che la cosa non convenga in un caso concreto.

Dunque, non è lo Stato al servizio della legge, ma la legge al servizio dello Stato. E la legge non sarà neppure legge – cioè “imperativa” – perché si potrà facoltativizzarne l’applicazione, se non conviene, nel caso concreto.

Da qui quella che anni fa fu discussa come la “crisi del parlamentarismo” e che oggi neppure si discute più (o meglio si discute in un altro senso, connesso all’inquietante concetto di “governabilità”), essendo noi ormai molto oltre quella crisi.

Oggi il Governo decide quello che vuole e un Parlamento di deputati e senatori “designati” dai capipartito fa una legge che glielo consente.

Una controrivoluzione, che ha sovvertito l’ordine dei valori.

Dal dominio della legge, con il potere che gli obbedisce e gli è sottomesso, al dominio della volontà, del potere, con la legge come strumento.

Insomma, la logica del faraone, con la sola differenza che anziché il potere essere concentrato nelle mani di uno, come allora, è oggi nelle mani di un gruppo di persone.

E ancora si progettano leggi elettorali e assetti costituzionali che concentrino di più il potere; ancora politici quasi onnipotenti piagnucolano per la mancanza dei poteri che gli sarebbero “necessari” per “fare il bene”; mentre ogni giorno si creano nuovi “commissari straordinari” liberati dai vincoli di questa o quella legge.

Tutto questo è frutto di e dà luogo a una serie di paradossi.

Anzitutto, in Italia la separazione dei poteri è stata sempre ed è sempre più solo apparente.

Essa dovrebbe essere una TRIpartizione (legislativo, esecutivo, giudiziario), ma, invece, è già costituzionalmente solo una Bipartizione, perché il potere legislativo e quello esecutivo coincidono: chi sta al governo (potere esecutivo) ha anche la maggioranza in Parlamento (potere legislativo).

Certo, nella Costituzione questo rapporto fra legislativo ed esecutivo era concepito come più “democratico” (basti dire che la Costituzione prevede che ogni parlamentare rappresenta l’intero corpo elettorale – e non solo i suoi elettori – e che è libero da vincoli di mandato – e dunque non è tenuto a obbedire al segretario del suo partito), ma nell’epoca dei “pianisti” in Parlamento (grazie ai quali anche gli assenti votano) e degli sputi in faccia in piena assemblea del Senato al senatore che non obbedisce agli ordini del segretario del partito tutto assume altri connotati e altro senso.

In definitiva, dunque, la separazione dei poteri è affidata a un solo asse: quello fra politico e giudiziario.

Ed è di tutta evidenza che si tratta di un asse molto delicato e assolutamente non in grado di reggere un suo uso improprio.

Il potere giudiziario ha strumenti esclusivamente repressivi ed è evidente che, anche se il potere politico creasse le condizioni per una attualmente inesistente efficienza del sistema giudiziario, la sola repressione “ex post” dei reati non potrebbe dare rimedio a un difetto di legalità che è oggi assolutamente diffuso in tutti gli snodi centrali della vita del Paese.

Per di più, proprio perché l’ultimo residuo opaco di separazione dei poteri – che è il presupposto per la speranza di una democrazia – è affidato all’asse politico/giudiziario, il potere politico lavora alacremente da anni per rendere sempre più inefficace il sistema giudiziario, facendo sì che non possa “nuocere” (in questi giorni si sta lavorando anche alla legge contro le intercettazioni telefoniche) e, da ultimo, creando un “doppio binario”, per il quale il sistema giudiziario sia efficiente contro i poveri cristi e innocuo per i potenti: oggi in Italia (e non è una battuta, ma la triste realtà) la contraffazione di una borsa di marca è punita con pene più severe di un falso in bilancio che, fino all’ammontare in alcuni di casi di molti milioni di euro non è punito per nulla e dopo è punito con pene meno severe di quelle della contraffazione predetta.

A tutto questo, poi, si deve aggiungere il fatto che i magistrati sono poco più di 8.000 cittadini come tutti gli altri e, dunque, tanti di loro sono, al pari dei loro concittadini, sensibili alle lusinghe e alle minacce, sicché “il potere” può confidare anche sulla disponibilità di tanti magistrati a “chiudere un occhio” o, come è più elegante dire, a “essere equilibrati” e “prudenti”.

Peraltro, è sotto gli occhi di tutti quali e quante “persecuzioni” subiscano – da fuori, ma purtroppo anche da dentro l’amministrazione della giustizia – i magistrati “troppo indipendenti”.

E a me appare certo che il C.S.M. non opera come dovrebbe, se in una Calabria dove succedono cose davvero incresciose nell’amministrazione della giustizia (fra le tante, il Procuratore Capo di Crotone che tiene come segretaria la moglie di un condannato in primo grado per concorso in associazione mafiosa e viene addirittura designato da costui come garante dei suoi beni perché possa continuare a essere assegnatario di appalti pubblici nonostante la condanna; oppure un intero distretto di Corte di Appello – Reggio Calabria – nel quale in diciannove anni sono state pronunciate solo due sentenze per corruzione e una per concussione, sicché o la corruzione lì non c’è o i magistrati si impegnano con tutte le forze a non vederla) il “cattivo magistrato” è Luigi De Magistris.

E dunque, insieme a tanti miei colleghi, auspicherei riforme che inducessero il C.S.M. a fare meglio il suo dovere. Ma, invece, dobbiamo assistere a riforme che lo renderanno ancora peggiore. A riforme dopo le quali lo show di un componente del C.S.M. (guarda caso proprio di nomina politica) – la prof. Letizia Vacca – che convoca i giornalisti e, nonostante sia Vicepresidente della Commissione incaricata di giudicare i due casi, dichiara che De Magistris e Forleo sono “cattivi magistrati” e “vanno colpiti”, diventerà cosa non solo accettabile, ma addirittura lodevole.

Nell’epoca orwelliana della manipolazione di tutto, tutto è possibile: si considera male il bene (la scoperta delle mazzette nella sanità abruzzese) e si adduce il fatto che il C.S.M. funzioni male come argomento per farlo funzionare ancora peggio.

Insomma, il paradosso assoluto e, mi si permetta di dirlo, il crimine assoluto.



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Intervista a Felice Lima sui pericoli - interni ed esterni - per l'indipendenza dei magistrati

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Dando seguito all’articolo del prof. Vittorio Grevi – “Tutti i pregi (e un difetto) del C.S.M.” – in occasione del cinquantenario dell’istituzione, abbiamo riportato a questo link un articolo di Felice Lima per Micromega sulla necessità di NON modificare l’assetto giuridico del C.S.M..

Sulla necessità di difendere l'indipendenza del C.S.M. e, d'altra parte, sui gravi “torti” del C.S.M. medesimo, riportiamo qui un’intervista a Felice Lima, tratta dal libro di Antonio Massari “Il caso De Magistris”.

Sugli stessi temi abbiamo riportato a questo link un capitolo del libro “Toghe rotte”, a cura di Bruno Tinti.

L’intervista a Felice tratta dal libro di Antonio Massari, che riportiamo qui, risale a parecchio tempo fa.


Dopo di essa, sono successe tante cose. Su questo blog abbiamo pubblicato moltissimi scritti (più di settanta) relativi alla vicenda De Magistris. Possono essere letti cliccando su questo link o sul banner “Dossier De Magistris” che c’è nella siderbar di destra del blog. Felice e Luigi, frattanto, sono diventati molto amici.

Il libro di Antonio Massari dal quale è tratta l'intervista che riportiamo è l'inchiesta più completa e documentata finora pubblicata sul caso De Magistris.


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da Antonio Massari, “Il caso De Magistris”, Aliberti editore, pagg. 328-355


Intervista a Felice Lima


Felice Lima si è laureato a Milano nel 1983 ed è entrato in magistratura nel 1986, a 25 anni.
Giudice istruttore penale (vecchio rito) nel Tribunale di Siracusa, ha fatto inchieste che hanno portato in carcere per molti anni i protagonisti di importante famiglie mafiose del catanese: i Ferrera e i Di Salvo.
Si trasferisce alla Procura della Repubblica di Catania nel 1990 e lì svolge numerose inchieste su famiglie mafiose e, soprattutto, sui legami fra mafia e politica.
Fa arrestare alcuni dei noti Cavalieri del Lavoro catanesi per fatti legati ad appalti nella sanità.
Nel dicembre del 1990 fa arrestare per associazione mafiosa un assessore della Giunta Comunale di Catania, il cui Sindaco – attuale senatore di Forza Italia – era all’epoca contemporaneamente membro del C.S.M. (l’assessore verrà poi condannato con sentenza definitiva a sei anni di reclusione).
Nel febbraio del 1992, la mafia fa evadere il boss Giuseppe Di Salvo (che Lima aveva fatto condannare all’ergastolo) per ucciderlo (è il secondo concreto progetto di attentato alla sua vita che per fortuna non ha successo: il primo era stato scoperto tempo prima dall’allora Alto Commissario per la lotta alla mafia Domenico Sica).
I Carabinieri incaricati della traduzione del Di Salvo verranno condannati per procurata evasione.
Il Di Salvo non porterà a termine la sua missione, sicché, per punirlo, la mafia incomincia a uccidergli i parenti.
Dopo l’uccisione del fratello, il Di Salvo decide di riconsegnarsi e, per timore di essere a sua volta ucciso, chiede come garante della sua costituzione Nino Caponnetto (l’ex Capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo allora già in pensione).
Tra il giugno e il dicembre 1992, conclude, con il R.O.S. dei Carabinieri e, in particolare, con l’allora col. Mario Mori e l’allora cap. Giuseppe De Donno, una importante indagine sui legami fra mafia, politica e imprenditoria in Sicilia, che coinvolge i vertici della politica regionale e dell’imprenditoria nazionale.
Nei fatti sui quali indaga risultano coinvolti importanti magistrati palermitani.
Scattano le ispezioni e i processi disciplinari.
Il Procuratore della Repubblica gli revoca l’assegnazione dell’inchiesta, la smembra e ne manda una parte proprio a Palermo.
Lima, nel marzo 1993, all’esito di un conflitto durissimo con il C.S.M., è costretto a lasciare la Procura della Repubblica e da allora fa il giudice civile.
Il tempo, come sempre in questi casi, ha finito con il “dargli ragione”, ma ciò non serve a nulla se non alla sua serenità.


Dottor Lima, lei conosce Luigi De Magistris? Ha parlato con lui delle sue vicende?

Conosco Luigi De Magistris solo superficialmente. È un collega che stimo e con il quale ho avuto occasionali scambi di opinione, su temi d’interesse comune, ma non ho mai parlato con lui di fatti specifici, che riguardino le vicende che ha affrontato in questo libro. Su internet, però, ho letto molti suoi interventi sul “caso De Magistris”.


Ci spieghi il suo interesse per questa vicenda.

La vicenda di Luigi è molto importante per la magistratura nel suo complesso e, più in generale, riguarda l’intero tema dell’amministrazione della giustizia in Italia. Sarebbe un errore – con tutto il rispetto per la vicenda personale di Luigi – limitarsi a intepretarla come una sua faccenda personale. Non sono stato certo l’unico a prestarvi attenzione. Diversi colleghi condividono la mia opinione. Abbiamo ritenuto, quindi, non solo di prestarvi attenzione, ma di fare pressione – intendo pressione culturale – all’interno della magistratura associata.


Pressione culturale: perché?

Perché la magistratura, nel suo insieme, prendesse una posizione corretta e chiara su questa vicenda.


Ci siete riusciti?

Purtroppo no. Quindi ci siamo ripromessi, almeno, di non fare calare l’attenzione su questa storia.


Il “caso De Magistris” – dice - le sembra importante per l’intera magistratura e addirittura per l’amministrazione della giustizia in Italia: ci spieghi le motivazioni.

Le ragioni sono molte e gravi.
Innanzitutto, si tratta dell’ennesimo caso in cui, degli indagati eccellenti, si difendono “dal” processo, piuttosto che “nel” processo. Che questo atteggiamento, poi, promani addirittura da un ministro di giustizia, rappresenta una peculiarità inedita e, a mio avviso, davvero molto preoccupante.


Chiarisca il punto: che vuol dire con difesa “dal” processo?

Partiamo da una premessa: il nostro sistema processuale penale è molto garantista (in alcune cose anche troppo) e assicura più che adeguati strumenti di difesa, a chi subisca una attività investigativa e, se del caso, a chi subisca un processo.
Detto ciò, le persone “comuni”, quando si trovano coinvolte in vicende giudiziarie, si difendono “nel” processo. Ovvero: utilizzano gli strumenti previsti dalla legge.
La classe dirigente di questo Paese, invece, non accetta di rapportarsi con la giustizia secondo le “regole comuni”, al pari di qualunque altro cittadino. Quando persone potenti, per qualunque ragione, si trovano coinvolte in vicende giudiziarie, non si accontentano di difendersi “nel” processo, ma pretendono di difendersi “dal” processo. E mi spiego meglio: non aspirano a un provvedimento di archiviazione, oppure a una sentenza di assoluzione. No. Pretendono proprio di non subire il procedimento. Non vogliono essere assolti. Si tratta di ben altro: non vogliono essere processati.
E questa – mi pare evidente – rappresenta una gravissima anomalia per un Paese che voglia essere democratico.


Siamo all’attacco della democrazia? Non le sembra di esagerare?

Non sto parlando di attacco alla democrazia: io parlo di una gravissima anomalia per la democrazia. E posso argomentarlo senza difficoltà: in un Paese che fosse davvero democratico ci si aspetterebbe che tutti gli “indagati” fossero uguali davanti alla legge, che tutti gli indagati utilizzassero gli stessi strumenti di difesa. Quelli – appunto - offerti dal sistema processuale. Se però i comuni cittadini devono difendersi “nel” processo, mentre i potenti possono difendersi “dal” processo, magari usando, attraverso la loro notorietà, i mezzi di informazione, beh, già mi sembra evidente che l’uguaglianza dinanzi alla Legge viene meno. E questo è un primo punto. Non può considerarsi democratico, infatti, un Paese la cui classe dirigente pretende di non essere soggetta ai normali controlli di legalità e, dunque, anche alle investigazioni delle legittime autorità inquirenti e, se del caso, persino ai processi penali.
D’altronde, non si può neanche dire che l’Italia possa fare a meno dei controlli di legalità per l’eccezionale correttezza della sua classe dirigente. Mi pare vero l’esatto contrario. È notorio l’elevato tasso di illegalità che caratterizza la vita pubblica del Paese.


Vogliamo riallacciare queste considerazioni al “caso De Magistris”?

Certo. Veniamo al punto. Luigi De Magistris era impegnato in indagini che riguardavano fatti di oggettiva gravità. Nelle quali erano coinvolti, a vario titolo, importanti personalità politiche (fra gli altri, anche il Ministro della Giustizia e il Presidente del Consiglio) e importanti personalità degli affari.


Anche loro si sono difesi “dal”, invece che “nel” processo?

Io voglio guardare solo ai fatti. E partire dalle regole. La fisiologia del sistema giudiziario, avrebbe voluto che Luigi svolgesse le indagini. Questo è il primo passo. Successivamente, all’esito delle indagini, avrebbe adottato i provvedimenti di sua competenza. Una richiesta di archiviazione, se dalle indagini non fossero emersi elementi di responsabilità, oppure, in caso contrario, una richiesta di rinvio a giudizio.


E quindi?

Andiamo con ordine. Le persone “oggetto” di una richiesta di archiviazione, mi pare chiaro, non avrebbero avuto nulla di cui dolersi. Le persone oggetto di una richiesta di rinvio a giudizio, invece, avrebbero avuto un giudice dinanzi al quale difendersi. Nulla, di più di un giudice, costoro avrebbero diritto di pretendere. Né, d’altra parte, persone oneste potrebbero avere nulla da temere dallo svolgimento di indagini. D’altronde, mi rifaccio a una dichiarazione del noto scrittore Antonio Tabucchi, che ha osservato: “Ma avete mai visto in Italia un Ministro condannato con prove false? Veramente neppure con prove vere! Dunque, perché temere una indagine?”


Ripeto: i potenti inquisiti da De Magistris, a partire dal ministro Mastella, secondo lei si sono difesi “dal” processo?

È sotto gli occhi di tutti che, a Luigi De Magistris, è stato impedito – di fatto - di svolgere le sue indagini. Il Ministro della Giustizia ha sottoposto l’ufficio del collega De Magistris a numerose ispezioni. A ripetute ispezioni. Durate, nel complesso, addirittura anni.


Il ministro esercitava le sue legittime prerogative.

Lei mi chiede le mie opinioni sul “caso De Magistris”. E io gliele do. Però il terreno è scivoloso e vorrei chiarire subito un punto: non intendo esprimere alcun giudizio sulla legalità o meno delle condotte delle persone coinvolte in questa vicenda. Questi giudizi sono riservati alle diverse autorità competenti. E proprio perché rispetto il sistema col quale si articolano, nel nostro Paese, i controlli di legalità, non intendo in alcun modo “interferire” con chi deve dare corpo e concretezza a quei controlli.


Non le chiedo di “interferire”, ma di chiarire, proprio perché il terreno – come dice lei – è piuttosto scivoloso.

Bene: ciò che sono disposto a discutere sono i profili culturali, politici e sociali di questa vicenda. E i profili politici - di questi tempi corre l’obbligo precisarlo - non hanno alcun riferimento a questo o quel partito, ma alla “politica della giustizia”, alla logica complessiva del sistema, allo schema istituzionale nel quale noi magistrati operiamo quotidianamente.


È stato molto chiaro: ora ritorniamo alle ispezioni del ministro Mastella.

Sotto questi profili, desta allarme che un Ministro della Giustizia si metta alla ricerca, per anni, di qualcosa che non va nell’attività professionale di un inquirente che, come sappiamo, indaga prima su persone a lui vicine e infine, com’egli certamente doveva prevedere, direttamente su di lui.


C’erano esposti, decine di interrogazioni parlamentari: cosa avrebbe dovuto fare un ministro di giustizia?

Se il Ministro avesse avuto formale notizia di specifici abusi, da parte del pubblico ministero in questione, avrebbe potuto far verificare la fondatezza, o meno, di quella notizia. Con una ispezione di brevissima durata. Un’ispezione “mirata”.


E invece?

E invece, ispezioni che si ripetono, e durano anni, danno l’idea d’una ricerca pretestuosa, la ricerca di non si sa cosa. E – dunque – la ricerca di qualunque cosa.


Non è un bel pensiero.

Beh, quello che è avvenuto, di certo, non fa pensare bene, con riferimento al principio d’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge. Nei confronti d’un magistrato, che sta indagando su fatti che coinvolgono personalità importanti, cos’è accaduto? Che le medesime personalità attivano ispezioni non usuali e, anzi, per certi versi mai viste, nei confronti di tutti gli altri magistrati inquirenti della Repubblica. Ma questo non è tutto.


Proseguiamo, allora.

Come se non bastasse, a un certo punto, lo stesso Ministro della Giustizia chiede al C.S.M. il trasferimento cautelare urgente del magistrato che sta indagando su di lui. Insomma, è una situazione di notevole disagio con riferimento al “disinteresse” che dovrebbe caratterizzare l’agire di qualunque pubblico ufficiale. E vorrei sottolinearlo: anche il Ministro è un “pubblico ufficiale”.


Sono queste, quindi, le “nuove peculiarità” del “caso de Magistris”?

Sono anche di più. Innanzitutto, è “nuovo” il potere di richiesta del trasferimento esercitato dal Ministro.
E per chi ritiene eccessivo l’allarme dei magistrati, sui pericoli per la loro indipendenza, contenuti nel nuovo ordinamento giudiziario riformato dagli ultimi due governi, i fatti di cui stiamo discutendo sembrano una prova oggettiva di difficile confutazione.


Quali sono gli altri profili inediti?

Il ruolo esercitato dai singoli magistrati e dalla magistratura nel suo insieme.


Partiamo dai singoli magistrati.

Luigi è stato lasciato solo dai colleghi del suo ufficio. Diversamente, oggi, non si parlerebbe della vicenda “De Magistris”, ma della vicenda del “pool anticrimine della Procura di Catanzaro”.
Ma non basta.
Il capo del suo ufficio gli ha tolto una delle inchieste più importanti. E un altro magistrato, il facente funzioni di Procuratore Generale, gli ha tolto l’altra, con un’ avocazione che, fondatamente, un autorevole collega ha definito “impensabile”. Peraltro, le stesse modalità dell’avocazione sono sorprendenti. Basti pensare, fra le altre cose, alla sottrazione manu militari degli atti dalla cassaforte di De Magistris. E alla sua preoccupante tempestività. Infine, a difendere la difficile posizione del Ministro, in una trasmissione televisiva - AnnoZero del 4 ottobre 2007 - è andato un magistrato, all’epoca Sottosegretario di Stato, che ha dato luogo a una difesa del Ministro davvero imbarazzante.


Si riferisce al dottor Scotti?

Si. Scotti ha chiamato in causa, in modo del tutto inopportuno, anche il collega Borsellino.


Perché inopportuno?

Perché ha detto che Paolo Borsellino mai avrebbe rilasciato interviste, volendo con ciò biasimare Luigi De Magistris, contrapponendogli l’esempio, a suo dire diverso, di Paolo Borsellino. Ma è stato contraddetto in questo espediente dal fratello di Paolo Borsellino, presente nello studio.


Cosa la sorprende?

Mi soprende – diciamo così – che tanti magistrati si siano impegnati, e con grande zelo, a sostegno delle iniziative del Ministro.


Veniamo ai rilievi sulla magistratura nel suo insieme.

Quanto alla magistratura nel suo insieme, possiamo partire dalla Sezione locale dell’Associazione Nazionale Magistrati, non solo non è intervenuta in difesa di Luigi, ma ha addirittura preso posizione contro di lui, biasimando il fatto che egli avesse reso dichiarazioni alla stampa.


Non era legittimo che l’Anm di Catanzaro prendesse posizione contro De Magistris?

M’impressiona moltissimo che, in vicende di tale gravità, l’unica cosa che la Sezione di Catanzaro dell’Associazione Nazionale Magistrati abbia notato sia il fatto che Luigi abbia reso delle dichiarazioni alla stampa.


I magistrati non dovrebbero “parlare” solo con i provvedimenti?

Detta così, senza le opportune precisazioni, è un’opinione che non posso condividere. Ammettendo che sia fondata, comunque, non è possibile prescindere dal contesto, dalle condizioni nelle quali operano i magistrati nel nostro Paese.


Quali condizioni?

In altri Paesi gli inquisiti criticano, ma al tempo stesso rispettano i magistrati che si occupano, per dovere professionale, delle loro vicende. E in questa situazione, il magistrato, non avrebbe alcun motivo di parlare in pubblico. Nel nostro Paese non è così. Se l’indagato ha qualche potere – e nella vicenda di De Magistris se ne ha l’ennesima riprova – non si fa scrupolo di provocare, insieme a tanti altri amici potenti, che non mancano di accorrere in suo sostegno, autentiche campagne di stampa. E queste campagne di stampa sono tese a denigrare – sotto il profilo professionale, e spesso anche semplicemente umano – il magistrato. Lo scopo è intuibile: delegittimarlo e frenare la sua opera.


Questo legittima un magistrato a esporsi pubblicamente?

Scusi, ma è un dato di fatto. Assistiamo sistematicamente a questa scena: indagati, amici di indagati, addirittura condannati con sentenze definitive, che sui giornali e in televisione insultano - l’espressione è inelegante, ma adeguata - violentemente i magistrati perché non gradiscono la loro opera. Ma il magistrato – fino a prova contraria - ha fatto solo il proprio dovere. Chi si preoccupa di difendere la sua dignità di persona e di magistrato?


Deve farlo personalmente?

Il magistrato si trova dinanzi a un difficile dilemma. O tace, si tiene gli insulti e le ingiurie, e accetta che il suo silenzio venga strumentalizzato. Non solo. In questo caso, tacendo, deve accettare anche che, il suo silenzio, sia interpretato a vantaggio di chi lo accusa: come sostanziale ammissione della fondatezza delle accuse che gli si muovono. Diciamolo: siamo un Paese davvero bizzarro, nel quale i condannati giudicano i loro giudici.


Quindi, secondo lei, deve parlare.

L’alternativa al silenzio, e ai rischi che comporta, è che il magistrato prenda la parola. Anche per dire, semplicemente: “Non merito le accuse che mi si muovono. Ho compiuto del tutto correttamente il mio dovere”. Detto ciò, c’è una terza via, che resta la migliore.


Che qualcuno parli per lui.

Esatto. Il magistrato potrebbe essere libero dal dilemma, se qualcun altro – per esempio il Consiglio Superiore della Magistratura o l’Associazione Nazionale Magistrati – intervenisse in sua difesa. O almeno, in difesa della sua funzione.


Torniamo alla sua critica alla magistratura nell’insieme. È questa, secondo lei, l’altra peculiarità del “caso De Magistris”.

Infatti. Nel caso di Luigi De Magistris nessuno è intervenuto. Anzi, come ho già detto, l’A.N.M. di Catanzaro, è intervenuta contro di lui.


Insomma, De Magistris è ampiamente giustificato, secondo lei, per aver parlato pubblicamente.

Eliminata la terza via, non gli restava che l’alternativa secca: o passare per uno squilibrato delinquente (così veniva dipinto dai suoi interessati “avversari”), oppure dire chiaramente: sono una persona corretta e faccio soltanto il mio dovere. In tutta onestà, non mi sembra che si possa negare, a Luigi, il diritto di difendere la propria onorabilità. Se colpevoli si devono trovare, per questa esposizione, sono coloro che, dovendo intervenire in sua difesa, non l’hanno fatto. In modo colpevole e deplorevole. E poi: mi lasci fare un’osservazione. Quanti magistrati sono intervenuti, e intervengono abitualmente, in tante trasmissioni televisive? Mi limito a citare - per tutti - una collega che è ospite fissa a Porta a Porta, dove esprime opinioni di ogni genere, su casi giudiziari delicati, e ancora “in corso”. Eppure nessuno ha mai avuto nulla da obiettare. E guarda caso, invece, c’è chi s’indigna per poche, correttissime parole, dette in difesa della propria onorabilità, da un collega da anni esposto a ogni tipo di pressione.


De magistris ha rilasciato interviste dove ha attaccato la magistratura stessa, però, o meglio: pezzi della sua stessa procura. Ha parlato di “manine”, di “poteri occulti”, non le sembra sia andato oltre la semplice difesa della propria dignità?

Se le stesse affermazioni, le stesse accuse, le ha riportate anche dinanzi a un’autorità giudiziaria, non vedo il problema. E mi pare che sia così. D’altronde, De Magistris era isolato, e su questo non c’è dubbio. Altri magistrati, in passato, sono rimasti in silenzio mentre venivano isolati sia dai criminali, sia dai colleghi. E non è finita bene. In questo Paese abbiamo un’esperienza: ripeto: altri magistrati, che hanno agito professionalmente come Luigi, diversamente da lui, hanno ritenuto di stare anche zitti. Ne cito soltanto alcuni: Giangiacomo Ciaccio Montalto, Rosario Livatino, Salvatore Saetta. Peccato che siano morti. Altrimenti avrebbero potuto darci la loro testimonianza. O forse, è proprio la loro morte, che dovrebbe essere, per molti di noi, quella testimonianza.


Lei sottolinea il silenzio dell’Associazione Nazionale Magistrati sulla vicenda De Magistris. Anzi, oltre il silenzio, mi pare adombri una sorta di ostilità, della magistratura associata, nei confronti di De Magistris. Su cosa fonda queste considerazioni?

Il silenzio della Anm, sulla vicenda di Luigi, non è una mia considerazione: è un fatto storico acquisito. La mia considerazione è che rappresenta un atteggiamento molto preoccupante. Testimonia la deriva intrapresa dall’A.N.M.


Quale deriva?

La vicenda di Luigi De Magistris, come anche quella della collega Clementina Forleo, che sotto questo profilo sono identiche, dimostra che nell’A.N.M. si fa confusione fra l’indipendenza dei magistrati e l’indipendenza della magistratura.


Spieghi meglio cosa intende per confusione tra indipendenza della magistratura e dei singoli magistrati.

Ciò che serve al Paese, e alla giustizia, è l’indipendenza “dei magistrati”: di ciascuno dei singoli magistrati che amministrano la giustizia. Il giudice Tizio, il giudice Caio, devono essere messi nelle condizioni di giudicare con serenità e imparzialità. Questo tipo di indipendenza dei magistrati è una guarentigia funzionale all’indipendenza del loro giudizio. Conseguentemente, all’indipendenza della giustizia.


La confusione dov’è?

Cosa del tutto diversa è l’indipendenza “della magistratura” come corpo professionale, inteso complessivamente. L’indipendenza complessiva “della magistratura”, il suo autogoverno, sono un valore soltanto se sono funzionali a garantire l’indipendenza dei singoli magistrati.
Altrimenti, si trasforma soltanto in un privilegio corporativo e nello strumento di un potere che non serve il Paese – dal quale, infatti, è sempre più lontano e meno apprezzato – ma sé stesso.


Siamo al concetto di tutela della corporazione, nella magistratura? È questo che intende?

Credo che sia accaduto. Credo che stia accadendo sotto gli occhi di tutti: a volte “la magistratura” difende i propri interessi corporativi anche in danno dell’indipendenza di singoli magistrati.


E questo cosa comporta?

Comporta che, in questo modo, viene meno, in sostanza, “l’indipendenza interna” della magistratura. Consideriamo - nelle vicende Forleo e De Magistris – alcune circostanze. La prima: l’A.N.M. e il C.S.M. non intervengono in difesa di due magistrati aggrediti, sulle testate giornalistiche e televisive, da titolari di uffici dotati di moltissimo potere, istituzionale e politico. La seconda: il Procuratore Generale promuove azioni disciplinari, che autorevoli giuristi trovano palesemente prive di fondamento. Sottolineo: prive di fondamento. In questi termini s’è espresso, giusto per fare un esempio, il professor Franco Cordero, indiscussa autorità scientifica e morale nel nostro ambiente. La terza: il Vicepresidente della Prima Commissione del C.S.M. (la professoressa Letizia Vacca) rilascia alla stampa, parlando al plurale, quindi a nome di tutti i componenti della Commissione, dichiarazioni sorprendenti e certamente inaccettabili. La professoressa Vacca rilascia queste dichiarazioni il giorno prima di un’importante seduta, quella in cui si discuteranno i casi Forleo e De Magistris, ed esprime giudizi violenti, di disvalore, nei loro confronti. Ma riflettiamo su concetti a dir poco elementari: Forleo e De Magistris soggetti al suo giudizio! E la professoressa Vacca anticipa l’esito delle pratiche che li riguardano? Parla espressamente di un intento: quello di “colpirli”. Un intento che dichiara non soltanto come proprio, ma anche della Commissione del Csm, della quale, la professoressa Vacca, è Vicepresidente.


Questa vicenda riguarda la Forleo e De Magistris: che c’entra tutto questo con l’indipendenza di tutti i singoli magistrati italiani?

Il nesso mi pare evidente: fatti del genere finiscono – anche al di là delle intenzioni dei protagonisti – con l’avere un fortissimo effetto intimidatorio.


Intimidatorio verso chi?

Verso tutti i magistrati che, prima o poi, potrebbero trovarsi a dover fare quelle valutazioni, quelle scelte che si contestano a Luigi de Magistris e Clementina Forleo. Mi spiego con un ulteriore esempio: pensi che, a Clementina Forleo, si muove un addebito disciplinare sul contenuto di una sua ordinanza. Ribadisco: sul contenuto. Quale può essere la conseguenza? Che singolo magistrato dovrà avere paura, nello scrivere i suoi provvedimenti, secondo scienza e coscienza, perché il loro contenuto potrà essere sindacato in sede disciplinare. E non con riferimento a eventuali abusi o a errori macroscopici. No. Proprio con riferimento al merito.


Torniamo all’Anm e al “caso de Magistris”: i responsabili dell’A.N.M. hanno detto di non essere intervenuti per “non interferire” con i compiti del C.S.M. Lei non è d’accordo con questa posizione?

Si tratta – con evidenza – di un argomento pretestuoso.


Pretestuoso: perche?

Perché nessuno ha mai chiesto all’A.N.M. di “interferire” con il C.S.M. Non si trattava di pronunciarsi sul merito delle questioni pendenti dinanzi al C.S.M. Si trattava di ben altro: sottrarre due colleghi a un autentico linciaggio morale. Se a Clementina e Luigi vengono contestati degli addebiti disciplinari, come è accaduto, v’è un’autorità che deve giudicare su quelle accuse. E – nel caso di Luigi - lo ha fatto. Nessuno chiede salvacondotti per i colleghi, né impunità. L’A.N.M. non dovrebbe intervenire su questo, ma su tutto il resto.


Quale resto, per essere chiari.

Sull’isolamento dei colleghi. Sugli autentici insulti rivolti loro da esponenti del mondo politico. Sul modo non protocollare di comportarsi del Vicepresidente della Prima Commissione del C.S.M. E su mille altre cose. D’altra parte, l’A.N.M. in passato è intervenuta, e parecchie volte, in difesa di colleghi che subivano aggressioni molto meno gravi di quelle riservate a Clementina e Luigi.


E, secondo lei, perché oggi non interviene?

La differenza fra i casi nei quali l’A.N.M. in passato è intervenuta più volte, e quelli dei colleghi Forleo e De Magistris, consiste in questo: l’azione dei colleghi, a suo tempo difesi dall’A.N.M., trovava consenso in fette rilevanti del mondo politico Clementina e Luigi, invece, sono “scomodi” per tutti.


È un’affermazione grave: se non c’è consenso politico, l’Anm non interviene? Dove finisce, anche in questo caso, l’autonomia della magistratura? È così soggetta al condizionamento della politica, secondo lei?

Per questo i loro casi, a mio parere, sono emblematici. Dimostrano un fatto: i magistrati che non fanno comodo a qualcuno, sono davvero soli e in pericolo. E questa, per una categoria (la magistratura), e per la sua associazione (l’Anm), dovrebbe essere considerata la sconfitta più grave e definitiva.


Lei (sul blog Uguale per Tutti) ha scritto un commento molto duro sulle “interferenze” dell’A.N.M. e sull’attività del C.S.M.

Partiamo da presupposto, poi rispondo con precisione alla sua domanda. La premessa è questa: la magistratura, purtroppo, oggi è molto corporativa e autoreferenziale. Questo non è mai stato un bene. Ma oggi è un male gravissimo: le difficoltà in cui versa l’amministrazione della giustizia impone un nuovo approccio dei magistrati, sia ai loro problemi, sia al servizio che devono rendere. Voglio dire: la società è cambiata moltissimo negli ultimi anni. La magistratura, purtroppo, no. Le attuali dinamiche sociali, non possono più permettersi un’inefficienza, del “servizio giustizia”, così grave.


Qual è il nesso con le interferenze dell’Anm e del Csm?

Andiamo con ordine. È un dovere morale e civile, per i magistrati (ciascuno e tutti insieme), assicurare efficienza al proprio servizio. Un servizio che hanno il dovere di rendere. È l’unico modo per poter rivendicare legittimamente l’autogoverno che, nella logica della Costituzione, è una guarentigia. Sottolineo: guarentigia, e non privilegio.


Quando parla di autogoverno, si riferisce ad Anm e Csm.

Un passo per volta. La magistratura si auto-governa per tutelare la propria indipendenza. Questo è il primo punto. Bene: ma se l’autogoverno, oltre a non garantire l’indipendenza “interna” dei magistrati, non assicura (per quanto dipende dai magistrati) l’efficienza del “servizio giustizia”? Se diventa un’alibi per coprirne la sempre più grave inefficienza? È inevitabile, in queste condizioni, che la sua difesa divenga sempre più difficile.


Un punto è chiaro: lei non sta difendendo l’Anm. Piuttosto, la sta attaccando. Ma l’A.N.M. – in linea generale - ha sempre detto che l’inefficienza della giustizia non è responsabilità della magistratura. Non è così?

Non mi interessa difendere o attaccare l’Anm. Mi interessa, se lo ritiene oppurtuno, analizzare un fatto: l’inefficienza della giustizia in Italia. L’Anm non può tirarsi fuori: non può dire che non c’è responsabilità della magistratura. È solo una mezza verità. Quella più comoda. La giustizia in Italia non funziona. Voglio essere chiaro: io non dico che “funziona male”. Io dico che “non funziona per niente”. E se non funziona, non è certo per motivi accidentali. Non è per qualche inconveniente del momento. Se non funziona, è per una precisa scelta politica.


Quale sarebbe la scelta politica? E da parte di chi?

Sotto questo aspetto, l’analisi, è piuttosto elementare: una società nella quale i poteri forti – economico e politico – sono massicciamente fondati sull’illegalità, “non si può permettere” una magistratura efficiente.


Questo in linea teorica, ma quali sono le basi, di fatto, della sua analisi?

Non posso certo elencare esempi specifici. Però basta vedere come, tutte le volte che un potente viene scoperto con le mani nel sacco (o, di recente, con la cornetta del telefono all’orecchio), invece di scandalizzarsi del coinvolgimento del potente, in crimini di notevole gravità, o in fatti comunque riprovevoli, tutti trovino scandalosa la violazione della sua privacy. E si affrettino ad approvare leggi che non consentano più di scoprire quei fatti.


Si riferisce al disegno di legge Mastella sulle intercettazioni?

Lasciamo perdere i casi specifici. Voglio sottolineare che, la maggioranza delle responsabilità, per l’inefficienza dell’amministrazione della giustizia, sono frutto di precise scelte politiche. Esaminiamo la legislazione degli ultimi quindici anni, in materia di giustizia. Vi sembra che il Parlamento italiano sia stato impegnato nel risolvere i problemi della giustizia? s’è impegnato affinché la giustizia funzionasse meglio? A me pare di no. Mi sembra, al contrario, che sia stato massicciamente impegnato nell’assicurare l’impunità ad amici, e amici degli amici. Per fare quelle leggi ad personam, spesso, ha lavorato anche di notte. E a tappe forzate.


È un atto d’accusa.

È una constatazione. E vi hanno partecipato tutti gli schieramenti politici. Basti pensare all’indulto, votato trasversalmente. La legislazione in materia, negli ultimi quindici anni, più che “sulla giustizia”, o “per la giustizia”, può essere considerata una legislazione “contro la giustizia”. A tutto questo, aggiungiamo una cultura – quella italiana – non particolarmente amante delle regole e della legge. Mentre pezzi di società civile, in alcune occasioni particolarmente clamorose, reclamano “giustizia”, nel quotidiano si rileva una diffusa prassi, favorevole a furberie e scorciatoie, che vanno dall’evasione fiscale all’abuso edilizio, dai concorsi universitari – abitualmente falsi – ai certificati medici di comodo, dalla truffa all’assicurazione alle frodi comunitarie. Questo stato di cose ha costituito per la magistratura nel suo insieme (perché non bisogna confondere la “magistratura nel suo insieme” con alcuni suoi eroici esponenti: i magistrati non sono tutti come Giovanni Falcone, Rosario Livatino, Giangiacomo Ciaccio Montalto, Paolo Borsellino, ecc.) una vera iattura, ma anche un comodo alibi.


Può spiegarci meglio cosa intende per alibi?

Il fatto che le colpe principali siano, con evidenza, di altri, ha consentito di coprire le colpe “interne”. E si tratta di colpe rilevanti. Per altro verso, le responsabilità “esterne”, hanno permesso un’amara convinzione: se tutto va male, che incidenza può avere il fatto che, questo o quel giudice, ci metta pure del suo, nel non far funzionare il sistema? Tanto, non funzionerebbe lo stesso? Quest’alibi, da sempre deplorevole, oggi è divenuto inaccettabile, sotto ogni profilo: oggi, l’inefficienza dell’amministrazione della giustizia, ha raggiunto un livello talmente alto, da snaturare l’istituzione e ferire gravemente i valori costituzionali, decisivi per la vita e la democrazia del Paese.


Stiamo perdendo di vista la domanda iniziale: qual è il nesso con le interfenze del Csm e dell’Anm, e cosa intende precisamente con interferenze.

Ci stiamo arrivando, come le ho detto, un passo alla volta. Dobbiamo prima affrontare questo argomento: il cambio di prospettiva interno alla magistratura. In questo contesto, i magistrati – per dovere etico prima di tutto, ma ormai addirittura anche per calcolo egoistico (il degrado dell’istituzione si ripercuote inevitabilmente sulle condizioni di lavoro e di stima sociale dei suoi addetti) – non possono più limitarsi a lamentarsi dei torti altrui. Non possiamo più aspettare riforme migliorative che, con tutta evidenza, non verranno dall’esterno. Dobbiamo avere la forza, e il coraggio, di riconoscere le nostre responsabilità. Dobbiamo fare la nostra parte per rimuovere le ragioni d’inefficienza che hanno fondamento interno alla categoria. Ora posso iniziare a rispondere alla sua domanda: per “noi magistrati” non intendo questo o quel magistrato, che già si spende eroicamente (e sono veramente tanti). Intendo l’insieme, la “magistratura in genere”, perché, i pur tanti “eroi”, sono percentualmente una assoluta minoranza.


Lei parla di un’assunzione di responsabilità, di un cambio di prospettiva.

Esatto. Se si accetta questo cambio di prospettiva (che a me pare assolutamente ineludibile), diventa necessaria – benché difficile e dolorosa – una riflessione sull’Associazione Nazionale Magistrati. È l’Anm, infatti, che rappresenta – nel bene e nel male – la magistratura italiana.


Qual è la riflessione amara, difficile e dolorosa?

L’A.N.M. è un’associazione privata di magistrati. Ha una fortuna: può vantare un elevatissimo numero di iscritti: 8.284 su 8.886 magistrati italiani in servizio. Purtroppo, però, l’A.N.M. oggi adempie ben poco i suoi compiti statutari.


Perché?

Perché è principalmente impegnata, con tutte le sue energie, ogni istante del giorno, e ogni giorno dell’anno, a fare un’altra cosa che le dovrebbe essere vietata. E che tradisce - di fatto - tutti i principi sui quali essa si fonda e ai quali dice di ispirarsi.


Cosa intende, nello specifico?

L’A.N.M. è solo una sovrastruttura: non vive di vita propria. Si potrebbe dire – con una provocazione che a ben vedere tale non è (essendo un’affermazione molto molto vicina alla verità) – che l’A.N.M. non esiste. È solo un involucro. Un’apparenza. Un luogo di legittimazione solo formale.


Cosa contiene questo involucro?

Gli enti che – essi sì – esistono. E vivono al suo interno. Contiene i gruppi organizzati: le “correnti”. La vita dell’A.N.M. è la somma – giustapposta e più spesso malapposta – della vita delle singole correnti che operano al suo interno. E queste correnti ne hanno parassitizzato ogni molecola.


Se è vero ciò che dice, perché accade?

Le “correnti”, nel tempo, hanno finito per avere, come obiettivo sostanzialmente unico, la raccolta di consensi elettorali fra i magistrati. Le “correnti” lo negano costantemente. Ma i fatti, ogni giorno, sono lì a provarlo. I “consensi elettorali” sono necessari a fare eleggere al C.S.M. i colleghi designati da loro, e desingnati fra gli iscritti alle “correnti”.


È da qui che parte “l’interferenza”, per usare i suoi termini?

L’interferenza prende corpo con un alibi ben preciso. L’alibi per questa operazione, dalle conseguenze devastanti, per l’esercizio concreto della giurisdizione, è quello di portare al C.S.M. i magistrati che promuovano, nell’organo di autogoverno, i “valori ideali” ai quali ciascuna corrente dice di ispirarsi.


Non è così? Perché parla di alibi?

In passato è stato - anche - così. Ma è davvero difficile credere che sia così ancora oggi.


Le correnti hanno avuto grossi meriti storici nel difendere le prerogative della Costituzione.

E’ indiscutibile. Ma invocare continuamente i meriti storici, non può essere un alibi sufficiente a nascondere le colpe odierne. Le porto un esempio: anche la D.C. e il P.C.I. (e il P.S.I. e gli altri partiti) hanno avuto, nel nostro Paese, meriti storici grandi e indiscutibili. Ma è evidente che quei meriti sono, appunto, “storici”.


Qual è il parallelo con le correnti dell’Anm?

Oggi tutti – magistrati e non, uomini politici e comuni cittadini – sanno benissimo ciò che le correnti chiedono a coloro che fanno eleggere al C.S.M.


Cosa chiedono?

Al di là di ogni impegno culturale (quando c’è), chiedono di esprimere, nell’amministrazione quotidiana e concreta della magistratura, i voti funzionali agli interessi di carriera. Voti funzionali alla vita professionale dei loro iscritti.


Non le sembra un giudizio ingeneroso?

No. Se sottolineiamo che nell’A.N.M., e nelle sue correnti, militano numerosissime persone di eccezionale valore morale, umano e professionale. Ma la loro presenza non deve essere un ulteriore alibi per impedire l’analisi e la critica.


Andiamo avanti con critica e analisi.

Bisogna chiedersi se la vita delle correnti non sia ispirata prevalentemente (se non, a volte, esclusivamente) alla ricerca e alla gestione del consenso elettorale tra magistrati. Di più: bisogna chiedersi che tipo di legame si genera tra le correnti e coloro che sono poi candidati al Csm.


Che tipo di legame può generarsi?

Un legame perverso, se gli eletti al Csm, poi, ricambiano il favore ricevuto.


Ricambiano in che modo, scusi?

Obbedendo – nell’esercizio delle loro funzioni – alle indicazioni della corrente di appartenenza. E il vocabolo appartenenza, qui, assume una valenza esplicitamente e decisamente deplorevole.


Può essere più concreto?

Basta dare un’occhiata ai documenti. Ovvero ai voti espressi dai consiglieri del Csm. Nella stragrande maggioranza dei casi, i consiglieri “appartenenti” a ciascuna corrente, votano nello stesso modo. E per giunta – non si può non sospettare – proprio nel modo auspicato dalla corrente di appartenenza. E quindi: nel modo funzionale agli interessi di uno o più iscritti alla corrente medesima.


Qual è il problema?

Stiamo parlando del Consiglio Superiore della Magistratura: l’organo di autogoverno. Dovrebbero realizzarsi normali, e anche lodevoli, divergenze di vedute. Anche fra i consiglieri “appartenenti” (verrebbe da dire “di proprietà”) della stessa corrente.


Dice che manca il dissenso, la critica interna, l’indipendenza di giudizio dei singoli consiglieri che governano la magistratura?

Dico questo: è normale e accettabile, che i consiglieri del C.S.M., votino omogeneamente per corrente di appartenenza, le poche volte che sono in discussione temi di politica generale della giurisdizione. È un voto di “politica sulla giustizia”. ovvio che, su scelte “politiche”, ogni corrente porti una posizione coerente e omogenea: ovvio, quindi, che all’interno del Csm, i singoli consiglieri che appartengono alla corrente, votino secondo le convinzioni politiche della corrente stessa.


Cosa non è ovvio, invece?

È abnorme, è viziato, invece, che vengano espressi in maniera correntizia i voti nella Sezione Disciplinare, che condanna o assolve un magistrato: in questo caso, l’appartenenza alla corrente, che c’entra? Ognuno dovrebbe decidere in piena autonomia. Ed esercitando la propria autonomia, dovremmo trovare, almeno di tanto in tanto, consiglieri della stessa corrente che hanno opinioni diverse. E invece così non è. E’ altrettanto abnorme e viziato, che la logica correntizia influisca nella nomina di un Presidente di Tribunale, o nelle mille, quotidiane e minute questioni di amministrazione della magistratura.


Lei sta dicendo, in altre parole, che l’Anm e, di conseguenza, il Csm, non rispondono più a regole democratiche.

Ripeto: se il sistema non fosse gravemente malato, dovrebbe avvenire abitualmente che due consiglieri della stessa corrente abbiano idee diverse, sulla responsabilità di quel magistrato in quella vicenda disciplinare, o sul fatto che, alla condotta accertata, debba attribuirsi o no rilievo disciplinare; oppure che valutino diversamente i titoli di idoneità di Tizio o di Caio ad assumere l’incarico di Presidente di questo o quel Tribunale. Dovrebbe addirittura accadere che magistrati “appartenenti” a una corrente votino senza difficoltà – e senza contropartite spartitorie – un magistrato iscritto ad altra corrente, se risulta idoneo a questo o quell’incarico direttivo.


Questo non avviene?

Certo che avviene tante volte. Ma troppe altre volte no. Com’è documentato. I membri del Consiglio Superiore della Magistratura dovrebbero agire e votare liberi da qualsiasi vincolo di mandato. Invece fanno tendenzialmente l’esatto contrario.


Se questo è il problema, come risolverlo?

Dobbiamo innanzitutto chiederci, senza infingimenti, se non si debba prendere atto che, così stando le cose, l’A.N.M. di fatto non “controlli” il C.S.M. Se non lo faccia in maniera costante e del tutto invasiva.


A lei sembra che sia così?

Sono preoccupato che possa esserlo. Se questa analisi fosse fondata, allora si dovrebbe prendere atto che l’Anm (o meglio, le sue correnti) gestisce in maniera immediata e diretta un potere. Un potere che non le spetta. Un potere che non dovrebbe avere. E in questo modo dà luogo, prescindendo dalle concrete intenzioni dei singoli, a un legame perverso con gli elettori/clientes. Un legame fondato sul fatto che le correnti chiedono ai magistrati voti, e offrono in cambio attenzione ai loro problemi e alle loro esigenze da parte dei consiglieri al Csm. Mentre questi ultimi, più che preoccuparsi delle esigenze dei singoli magistrati, dovrebbero avere di mira solo l'interesse generale della giustizia.


Lei intende dire che De Magistris e Forleo non sono stati difesi all'interno delle correnti, quindi, di conseguenza, non sono difesi dal Csm. Ho compreso bene?

Non è questa la questione. Ma, come vede, i loro due casi aprono scenari ben più ampi. E credo che, se mancassimo l’appuntamento per discutere il problema alla radice, noi magistrati, intendo la base dei magistrati, da un lato avremmo danneggiato ulteriormente De Magistris e Forleo, dall’altro, avremmo perso un’occasione storica per ripristinare l’autonomia, l’indipendenza, la democrazia all’interno della magistratura.


Ma come interagisce l’A.N.M. con il C.S.M.?

I magistrati debbono rivogersi al C.S.M. in molte occasioni importanti della loro vita professionale. Per avere un trasferimento. Per ottenere una promozione. Per l’assegnazione di un posto direttivo. Per essere autorizzati a svolgere un incarico stragiudiziale. Per ottenere una sentenza favorevole dalla Sezione Disciplinare. Per ottenere un congedo straordinario. Vuole che continui?


No. Vorrei che spiegasse il nesso elettori/clientes nel Csm.

Mi sembra piuttosto semplice: chi si iscrive a una corrente, che si fa amici i responsabili di una corrente, sa di poter contare sul potere di condizionamento che, quella corrente, ha sul C.S.M., per ottenere ciò che, di volta in volta, gli sia utile. Tutte le correnti assicurano, a coloro che si impegnano al loro interno, un’ottima carriera. Che può consistere in incarichi prestigiosi ai vertici degli uffici giudiziari. Nella designazione come candidati al C.S.M.. In incarichi ministeriali e via dicendo.


Quali conseguenze ha questo?

Il rischio è, alla fine, che si crei un sistema sostanzialmente spartitorio, che tiene conto in maniera proporzionale del peso di ciascuna corrente.


È semplicemente una questione di proporzioni. Non mi pare si possa parlare di lottizzazione.

Il punto non è la proporzione. Il punto è il grado e l’invasività della lottizzazione spartitoria. Le posso fare lo schema della situazione?


Certo.

Sono tendenzialmente divisi per corrente moltissimi posti direttivi di rilievo. Idem per posti come quelli del Comitato Scientifico del C.S.M. Mi chiedo: anche la scienza è stata spartita? Sono divisi per correnti i posti dei magistrati segretari del C.S.M. E altri ancora. A volte (e non poche volte) ci si dividono correntiziamente anche modesti incarichi. Un esempio? Il tenere una relazione scientifica (che a volte, proprio perché spartita per correnti, non è tanto scientifica). Oppure un corso di formazione organizzato dal C.S.M. Ma succede anche altro.


Cosa?

Se la situazione dei posti a concorso, non consente una divisione rigidamente rispettosa delle pretese delle correnti, si lasciano i posti scoperti.


Scoperti?

Esatto. Scoperti finché non si raggiunge un numero tale da consentire la divisione pretesa.


Per scoperti intende vacanti?

Vacanti. In attesa di poterli coprire in maniera “proporzionalmente suddivisa” per correnti. Stando a quanto scritto dal consigliere del Csm Mario Fresa, questo sarebbe accaduto recentemente addirittura anche per la copertura di posti al Massimario della Corte di Cassazione. Il 18 novembre 2006 è rimasto scoperto il posto di Procuratore della Repubblica di Catania. La vacanza era prevista da mesi e mesi, perché s’è verificata per il raggiungimento (ovviamente noto da prima) del limite di età da parte del precedente Procuratore. A distanza di un anno quel posto non era stato ancora coperto. È un danno gravissimo, per la lotta alla criminalità, in una città e in una regione che, di una Procura efficiente, hanno un bisogno enorme.


Dottor Lima, lei ha descritto una situazione molto grave.

Non la descrivo io: la descrivono il Tar e il Consiglio di Stato. Che ormai intervengono costantemente. La situazione nella gestione del Csm da parte dei consiglieri divisi per correnti è tale che, sempre più spesso, i provvedimenti del Csm in materia di nomina di capi degli uffici giudiziari vengono annullati dal Tar e dal Consiglio di Stato. Il Tar e il Consiglio di Stato sono giudici amministrativi. Intervengono sulla violazione della legge, non sul legittimo esercizio della discrezionalità da parte del Csm: dobbiamo dedurne che, sempre più spesso, i consiglieri del Csm adottano provvedimenti palesemente illegittimi. Esistono anche sentenze a riguardo. Un caso emblematico è quello occorso, alcu¬ni anni fa, per la copertura del posto di presidente del Tribunale di Catania: deciso dal Consiglio di Stato con una sentenza dai contenuti durissimi sui metodi di lottizzazione correntizia in questione presso il Csm. E il Csm – addirittura – ricorse a un avvocato del libero foro (l’Avvocatura dello Stato rifiutava di difendere il Csm) per promuovere un (inverosimile) conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte Costituzionale. Al fine di sottrarsi alla giurisdizione del giudice amministrativo. La Corte Costituzionale respinse ovviamente il ricorso. E il Tribunale di Catania restò senza presidente per circa cinque anni.


Cinque anni?

Cinque anni.
E ne parlano chiaramente anche autorevoli componenti del Csm.
Il presidente della Commissione Trasferimenti del Csm, consigliere Mario Fresa, che ha scritto, fra l’altro (scusi se gliela leggo testualmente) – in una relazione su un anno di mandato che può leggersi anche su internet, nel sito del Movimento per la Giustizia, dal quale l’ho tratta – ha scritto: «Lo stato delle numerose pendenze e, in particolare, i ritardi con i quali sono stati espletati nella passata consiliatura i concorsi per i trasferimenti ordinari, vanno ricollegati invero al tema della irragionevole durata delle pratiche consiliari, che si riverbera inevitabilmente in una serie di disfunzioni negli uffici giudiziari e, in ultima analisi, nella irragionevole durata dei processi (vacanze prolungate negli organici degli uffici giudiziari determinano inevitabilmente un allungamento dei tempi processuali).
Il monito proveniente dal capo dello Stato, seguito con convinzione dall’ex vicepresidente del Csm Rognoni e poi dal neo eletto vicepresidente Mancino, secondo cui ancora oggi esiste un forte potere delle correnti dell’Anm che condiziona e rallenta le scelte consiliari per piegarle agli interessi localistici e dei gruppi organizzati, va pertanto condiviso in quanto espressione di un disagio dell’opinione pubblica e dello stesso corpus della magistratura, che vedono nei tempi lunghissimi di espleta-mento delle pratiche motivi di inefficienze e disfunzioni degli uffici giudiziari, nonché preoccupazioni correlate ai sospetti, spesso fondati, di “patologie correntizie”.
Non è un caso che le ferme critiche del capo dello Stato siano state svolte in riferimento soprattutto alla gestione del personale. Una procedura concorsuale non può durare a lungo, specie se ciò è dovuto alla ricerca di un punto di equilibrio tra le correnti e le componenti laiche, una sorta di pacchetto-compromesso che accontenti tutti»
.
Lo stesso presidente Fresa, parlando della gravissima vicenda relativa alla copertura dei posti al Massimario della Corte di Cassazione alla quale ho fatto riferimento sopra, aggiunge: «Invero, quando ho iniziato a leggere gli atti del procedimento, ho verificato che i fascicoli di più della metà degli aspiranti non erano ancora stati esaminati, non essendo stati redatti i cosiddetti “medaglioni” di tali aspiranti (i profili professionali non erano ancora stati tracciati dai magistrati segretari).
Poiché le voci che giungevano negli uffici giudiziari riguardavano scontri su possibili nomi, è parso evidente che le divisioni riguardavano schieramenti precostituiti, a prescindere dall’esame dei profili professio¬nali in forza dei quali quelle scelte dovevano essere effettuate. Il metodo operativo che veniva seguito (che non rappresentava una novità, attesa la mia pregressa conoscenza degli interna corporis) era quello della spartizione correntizia, a prescindere dalla effettiva comparazione dei percorsi professionali secondo il dettato della Circolare»
.
Si tratta di una denuncia molto grave, in considerazione sia del suo contenuto che dell’autorevolezza istituzionale e della credibilità personale dell’autore.


Tutte queste notizie, però, stentano a diventare di dominio pubblico.

Anche per questo con alcuni colleghi abbiamo creato un blog (Uguale per Tutti) che si chiama Uguale per Tutti. Il riferimento è al principio costituzionale che dovrebbe essere il cardine della nostra vita sociale e, purtroppo, non lo è. Il blog è nato dall’esigenza di provare a indurre la magistratura a mettersi in discussione.


Non lo fa abbastanza?

Attualmente, i magistrati si parlano soltanto fra loro, all’interno di mailing list riservate, alle quali si accede tramite iscrizione e dalle quali non è possibile portare fuori ciò che viene scritto. Per di più, queste mailing list sono promosse dalle correnti dell’Anm e i discorsi che vi si fanno risultano molto condizionati da questo. L’idea di un blog è quella di parlarci in pubblico, di dire apertamente quello che pensiamo e di consentire a tutti di dircelo. Il blog può essere letto da chiunque e vi può scrivere chiunque (nella parte riservata ai commenti dei lettori).


È una sfida alle correnti?

In un certo senso, sì. La sfida alle correnti è quella di accettare il confronto con la gente, con i colleghi, indipendentemente dalle appartenenze correntizie. Vede: la magistratura associata reclama spesso la solidarietà dei cittadini, ma in realtà, a ben vedere, non accetta un reale confronto, alla pari, con essi. Non accetta di mettersi in discussione. E invece di questo c’è un gran bisogno dentro la magistratura.




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I nemici esterni della magistratura e quelli interni

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Dando seguito all’articolo del prof. Vittorio Grevi – “Tutti i pregi (e un difetto) del C.S.M.” – in occasione del cinquantenario dell’istituzione, abbiamo riportato a questo link un articolo di Felice Lima per Micromega sulla necessità di NON modificare l’assetto giuridico del C.S.M..

Sulla necessità di difendere l'indipendenza del C.S.M. e, d'altra parte, sui gravi “torti” del C.S.M. medesimo, abbiamo riportato anche, a questo link un’intervista a Felice Lima, tratta dal libro di Antonio Massari “Il caso De Magistris”.

Sugli stessi temi riportiamo qui un capitolo del libro “Toghe rotte”, a cura di Bruno Tinti.




Da "Toghe rotte", a cura di Bruno Tinti, Chiarelettere editore.


Il capitolo più difficile (1)

Questo è il capitolo più difficile.
Perché adesso sappiamo che non funziona niente, che pochissimi processi si fanno davvero, che comunque quelli che si fanno non sono quasi mai quelli che si dovrebbero fare, che nessuno sa davvero cosa si dovrebbe fare per migliorare la situazione e che quelli che dicono di saperlo mentono o sono degli illusi.

Solo che, a questo punto, la domanda diventa: ma come mai? Come mai le cose sono andate così? Di chi è la colpa? Con chi me la devo prendere? Insomma cosa deve cambiare perché l’Italia abbia una giustizia che funzioni?

In due parole, e cominciando dalla fine: deve cambiare tutto. Deve cambiare la cultura etica del nostro Paese. Debbono cambiare quelli che fanno politica e debbono cambiare i giudici italiani.

Naturalmente questa cosa va spiegata bene; perché se no sarebbero, ancora una volta, parole vuote, chiacchiere buttate in faccia ai cittadini che si stanno sempre più abituando (e questa è la vera tragedia) ad avere una giustizia finta, un giudice che c’è, di cui si parla tanto, che sta sempre sui giornali e in televisione ma che, alla resa dei conti, non fa niente. Un po’ come gli spazzini di certe città del Sud: ce ne sono tanti, se ne parla tanto, tutti se la prendono con loro, loro se la prendono con i politici; e intanto la spazzatura resta nelle strade.


A che ci servono i giudici?

Pigliamola da lontano. In qualsiasi Paese, se due persone non vanno d’accordo possono risolvere il loro problema solo in due modi: applicano una legge che dà ragione ad uno e torto a un altro; oppure fanno a botte e vince il più forte.
Non c’è un’alternativa. O c’è una legge e la si rispetta; o la legge che si applica è quella del più forte.

Ora, questa cosa la sappiamo tutti; solo che la capiamo di solito in un modo un po’ restrittivo: il più “forte” è quello più forte muscolarmente o più forte perché è armato. Tendiamo a credere insomma – perché in questo senso c’è una forte e maliziosa pressione dei padroni dell’informazione – che la “forza” sia solo quella delle armi. Così, quando qualcuno dice che la forza ha prevalso, noi pensiamo alla forza della mafia, alla violenza del terrorismo, allo strapotere dell’esercito e roba simile.

Ma la “forza” non è solo quella.

In una società complessa, come sono tutte quelle nelle quali viviamo, la “forza” ha tante facce.

C’è la forza del denaro, naturalmente. Chi ha più soldi si può procurare gli strumenti più adatti, le autorizzazioni necessarie, le opportune garanzie, gli avvocati più preparati.

E c’è anche la forza del ceto sociale cui si appartiene. Un modesto artigiano non ha mai lo stesso “potere” del funzionario dello Stato o dell’avvocato di affari.

E c’è la forza del gruppo religioso di appartenenza, del partito politico in cui si milita personalmente o cui appartiene l’amico o il parente, della loggia massonica, del branco di ragazzi del quale si fa parte, della tifoseria con la quale si va alla partita, dell’associazione culturale o para-culturale etc..

Questa “forza” viene impiegata ogni giorno, in ogni occasione, da un numero sterminato di cittadini. Per convincersene basta pensare ad uno dei problemi che oggi ci angoscia di più: la ricerca di un posto di lavoro.

La maggior parte dei cittadini cerca lavoro per sé o per i propri figli seguendo certi percorsi formali/legali/costituzionali: fa domande, si iscrive all’ufficio di collocamento, fa pubblici concorsi, studia, si prepara, fa esami e spera.

Ma molti, tantissimi, lo cercano in un altro modo: appunto con l’aiuto della “forza”. Il che vuol dire tramite l’aiuto di “poteri forti”, il partito, la loggia, la mafia, il gruppo etc.

Facciamo un esempio che tutti conosciamo bene: un impiego presso la Pubblica Amministrazione, che vuol dire un Comune, un Ospedale, un’Università, un Ministero etc. L’art. 97 della Costituzione prevede che “agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”. Dunque a questi impieghi ci si dovrebbe arrivare con un percorso legittimo, in cui tutti hanno le stesse possibilità e che permette di scegliere secondo il merito e la professionalità di ognuno. Ma tutti sappiamo che spessissimo non è così; che in moltissimi casi si fa ricorso alla “forza”: così finisce che a un sacco di Pubbliche Amministrazioni si accede mediante un concorso truccato (che, dunque, non è propriamente un concorso); o magari mediante finti contratti di consulenza, decisi arbitrariamente dai responsabili dei più diversi uffici pubblici a favore di questo o quel “cliente”, reso “forte” dall’appartenenza a questo o quel gruppo, loggia, partito etc.. O magari con qualche altro trucco, più o meno evidente ma efficace e impunito appunto per via della “forza” di chi lo ha adottato o di chi ne ha beneficiato. E, naturalmente, chi ha meno “forza” o chi non ne ha affatto e ha scelto o dovuto scegliere il percorso legittimo, la domanda, i titoli, il concorso, gli esami, i colloqui etc., non riesce ad ottenere l’impiego che è andato agli altri, ai “forti” o agli amici dei “forti”.

Allora. I giudici servono a questo: a fare rispettare le regole.

Per la verità questo compito, in un Paese complessivamente sano, nel quale il rispetto del regole sia tendenzialmente diffuso, non è particolarmente gravoso. In Paesi di questo genere il ruolo della magistratura non è molto rilevante; e l’esigenza di averne una con particolari qualità non si pone proprio.

Per capirci meglio, pensiamo alla Svezia: qualche anno fa venne uccisa da un folle una signora che era anche Ministro dell’Interno e che era andata a fare la spesa in un supermercato (perché in certi Paesi molto democratici essere Ministro è una funzione di servizio e non significa avere l’auto blu per andare al supermercato); all’uscita, mentre saliva sulla sua bicicletta che aveva appoggiato all’apposita rastrelliera, questo folle le sparò un colpo di pistola. Il compito dei giudici fu semplice, pur nella drammaticità del caso: ricostruire l’avvenimento, esaminare l’uomo, accertarne la follia, condannarlo alle pene di legge.

Adesso pensiamo al nostro Paese. Sempre qualche anno fa un giudice accertò che un certo “onorevole” mandava i poliziotti della sua scorta a comprargli la cocaina.
Beh, successero subito due cose: si aprì un dibattito per stabilire se l’intercettazione telefonica delle conversazioni del poliziotto che prendeva appuntamento con lo spacciatore per comprare la cocaina destinata all’ “onorevole” potevano essere utilizzate come prova o no. Per capire questa cosa che sembra un po’ stupida, bisogna sapere che, in Italia, le intercettazioni degli onorevoli possono essere disposte solo previa autorizzazione del Parlamento: quindi bisogna preannunciare al Parlamento che si intende intercettare il telefono di questo o di quell’altro deputato o senatore e essere autorizzati a farlo; poi si può cominciare ad intercettare. Naturalmente questo significa che, di fatto, nessun onorevole viene intercettato perché a nessun giudice piace perdere tempo inutilmente. E bisogna anche sapere che se un onorevole viene intercettato per caso, ad esempio perché un trafficante di droga, sottoposto a intercettazione, parla con lui (che non si sapeva nemmeno che era coinvolto nell’affare) e organizza la consegna di una partita di cocaina, questa conversazione non può essere utilizzata come prova senza la consueta autorizzazione del Parlamento.

Dunque, come si diceva, si aprì un dibattito: perché, si sostenne, la conversazione tra il poliziotto e lo spacciatore non poteva essere utilizzata visto che il poliziotto parlava dietro incarico dell’ “onorevole”, e dunque era come se con lo spacciatore ci avesse parlato quest’ultimo. Questa cosa finì in Cassazione dove non si misero subito a ridere; anzi richiesero l’intervento della Corte Costituzionale perché gli sembrò che ci fosse un “buco legislativo” e che gli onorevoli non fossero sufficientemente tutelati. La Corte Costituzionale, per fortuna, spiegò quello che qualunque persona di buon senso aveva capito subito e cioè che le intercettazioni in questione erano un’ottima e utilizzabile prova e così il processo andò avanti.

La seconda cosa che successe fu questa: la notizia arrivò ai giornali; e arrivò anche il testo delle telefonate in questione. E naturalmente i giornali le pubblicarono. E questa fu la fortuna dell’ “onorevole”: perché tutti smisero di parlare del fatto che non era proprio bello che un rappresentante del popolo, membro del Parlamento sovrano, componente attivo di una moderna e rispettabilissima democrazia etc. etc. facesse uso di cocaina e che se ne approvvigionasse utilizzando la scorta che presumibilmente gli era stata concessa per scopi un po’ più istituzionali; e invece si misero a discutere di quanto era stato cattivo, scorretto e delinquente il giudice che aveva dato alla stampa il testo delle intercettazioni telefoniche. Detto per inciso, che fosse stato lui a darlo alla stampa non risultava da nessuna parte.

Insomma il problema non fu più il fatto che questo “onorevole” fosse un drogato che usava la scorta per comprarsi la droga; ma che la cosa fosse stata resa nota ai giornali.

Da questi esempi si capisce allora che nel nostro Paese il giudice ha compiti parecchio più difficili di quelli che toccano al giudice svedese. Perché, se il rispetto delle regole è pochissimo diffuso, il ruolo della magistratura finisce con l’essere per necessità di cose molto rilevante.

E tanto più rilevante diventa perché, naturalmente, chi non rispetta le regole è, in genere, chi ritiene di poterselo permettere; dunque il “forte”, quello che conta sull’impunità e sul successo delle sue prevaricazioni. Ed è quindi fatale che vi sia una contrapposizione feroce tra il giudice e la “forza”.

L’amministrazione della giustizia quindi serve ai deboli. A coloro che non hanno la forza sufficiente a procurarsi da sé ciò a cui hanno diritto; oppure a non vedersi strappato via quello a cui hanno diritto. Per questa gente il ricorso al giudice è l’unico strumento che ha per ottenere ciò che gli spetta.

Naturalmente, anche per loro c’è un’alternativa: rivolgersi a un qualche “potere forte”.

Per questo, per esempio, in Sicilia (ma anche in altri posti; sicuramente nelle famose tre regioni a sovranità dello Stato limitata, ma certo un po’ dappertutto) la mafia e i partiti politici, oltre alle altre cose a cui si dedicano, si occupano anche di “fare favori”, di risolvere i problemi pratici di questo o di quello.

E’ ovvio che, se in un ospedale pubblico ti dicono che quella operazione salvavita non te la possono fare prima di sei mesi, perché purtroppo il primario dell’ospedale è troppo impegnato nella clinica privata dove lavora più o meno legittimamente, o ti rivolgi a un Tribunale o all’assessore o al capomafia. Oppure ti lasci morire in quei sei mesi di attesa.

Quindi la “forza” è in concorrenza con la “giustizia”.

Ma non serve solo a questo la giustizia. Serve anche a far sì che si sia in democrazia. E anche questa cosa non è proprio capita bene da tutti.

Se chiediamo a un campione più o meno nutrito di persone che cosa pensa che sia la democrazia, ci sentiamo inevitabilmente rispondere che la democrazia è la possibilità di scegliere chi ci governa. Naturalmente è una risposta sbagliata, ma non bisogna prendersela troppo perché deriva da una calibrata disinformazione: lo stesso sistema mediatico (TV e giornali ma soprattutto TV) che tende a far credere che l’unica “forza” che opera contro le regole sia quella della mafia e quella del terrorismo si impegna a far credere alla gente che la democrazia sia solo un metodo di scelta dei governanti.

In sostanza saremmo in democrazia se e quando scegliessimo chi governa.

Già detta così, dovremmo concludere che il nostro non è un Paese democratico visto che non siamo mai stati e oggi siamo ancora meno liberi di scegliere chi governa: le liste elettorali vengono fatte non da noi, ma dai partiti (i “poteri forti”); e, con la legge elettorale attuale, gli elettori non possono neppure dare la preferenza a questo o quel candidato, perché i candidati se li decidono le segreterie dei partiti.

Ma il motivo reale per cui, in fondo, non viviamo in un Paese propriamente democratico è un altro.

La democrazia non è solo un metodo di scelta del governante; fondamentalmente, è un metodo di esercizio del potere.

Questa cosa non ce la dicono mai; tutti (tutti i politici) continuano a riempirsi la bocca con il fatto che loro sono i rappresentanti del popolo che deve essere felice perché ha avuto la fortuna di poterli eleggere “liberamente” (mah). Ma il punto è che democrazia non significa solo questo: significa che nel Paese in cui i cittadini sono così fortunati da potersi eleggere i loro rappresentanti, poi tutti sono trattati ugualmente e le leggi si applicano a tutti, anche a coloro che le fanno.

Insomma, nessuno ci dice mai che è più democratico un Paese nel quale un re figlio del re suo padre e padre del futuro re suo figlio governa applicando rigorosamente ed equamente la legge (quindi secondo le regole di separazione dei poteri inventate dopo la rivoluzione francese); e meno democratico un altro Paese nel quale governa una persona scelta con il voto, che però se ne frega della legge, fa i favori ai suoi amici e agli amici dei suoi amici e perseguita i suoi avversari o comunque chi non sta dalla sua parte con la “forza” dei “poteri forti”.

Se ci pensiamo un po’, in Italia, oggi, non c’è tanta democrazia.

Il potere legislativo e quello esecutivo sono nelle mani delle stesse persone (chi governa ha anche il controllo del Parlamento). E questa gente sempre più spesso fa le leggi che servono a lei, non quelle che servono ai cittadini: sono le famose leggi ad personam, pensate per essere applicate in favore o contro determinati gruppi di persone e a volte addirittura a favore o contro singole specifiche persone con nome e cognome.

Ecco perché il giudice, nel nostro paese, si trova nei guai. Perché è (ancora e non del tutto, ma lo vedremo fra un pò) libero dal controllo dei “poteri forti”; e quindi è rimasto l’unico strumento per quelli che non hanno “forza” per far valere i propri diritti


Il conflitto politica-magistratura

Ricostruita così la situazione, il giudice italiano finisce con l’essere un ostacolo per la vita del Paese; almeno per quel tipo di vita che vogliono la politica e il Paese di cui essa è espressione. Insomma, la difesa dell’uguaglianza e della giustizia a favore di tutti e contro tutti quelli che vi attentano non è più socialmente condivisa.

Per farsene convinti ricorriamo ad un altro esempio preso dalla strada (come dicevano i nostri professori di diritto all’Università): il ministro della giustizia Castelli fece sostituire i cartelli che si trovano nelle corti di giustizia penale.

Prima c’era scritto “la legge è uguale per tutti”. Per ordine del ministro Castelli è stato scritto “la giustizia è amministrata nel nome del popolo”.

Sembrerebbe roba da poco, parole in libertà. E comunque anche parole tratte dalla Costituzione, perché l’art. 101 dice proprio così: “la giustizia è amministrata nel nome del popolo”. Ma il trucco c’è anche se non si vede. Perché proprio il ministro Castelli spiegò che questo “popolo” non era il “il popolo italiano” come lo intendeva la Costituzione. Il “popolo” del ministro Castelli era quello che aveva votato per lui (per loro) alle ultime (ora penultime) elezioni. Sicché, secondo lui, il giudice doveva amministrare la giustizia in nome ….della maggioranza degli elettori.

Non è una novità; tanto tempo fa Ponzio Pilato si era convinto che Gesù fosse innocente. Siccome non era proprio un giudice vero, di quelli che applicano la legge, ma era un giudice-politico, cioè uno che amministrava la legge in nome di quelli che contavano, che avevano “forza”, pensò bene di chiedere direttamente ai suoi padroni che cosa doveva fare; dunque che cosa il “popolo” voleva che si facesse. E il resto è noto.

Ecco il problema del nostro Paese; ed ecco le difficoltà che deve affrontare il giudice italiano; ed ecco anche i motivi per i quali, spesso, le affronta male.

Perché si tratta di scegliere tra applicare la legge a tutti e in maniera uguale per tutti; oppure essere sgherro e aguzzino nelle mani della maggioranza di turno. E non è una scelta facile; soprattutto non è una scelta facile in concreto, nel lavoro di tutti i giorni. Tanto più quando gli indagati/imputati/condannati (ma “forti”) si possono permettere di andare ogni sera nelle trasmissioni televisive di maggiore audience a vituperare, denigrare, diffamare i giudici che si sono permessi di trattarli come cittadini uguali a tutti gli altri.


La giustizia schiacciata dalla politica

Certo che, se deve applicare la legge a tutti e in maniera uguale per tutti, il giudice italiano ha poche scelte, anzi non ne ha nessuna: deve essere efficiente e imparziale.

Se è efficiente, può assicurare la effettiva tutela dei diritti lesi.

Se è imparziale può tutelare i diritti dei deboli anche quando sono in contrasto con gli interessi dei “forti”.

Il problema è che il giudice italiano non è efficiente e in molte occasioni non riesce a essere neppure imparziale.

Non è (tutta) colpa sua.

Se si esamina l’attività del Parlamento e quella della maggior parte dei ministri della giustizia succedutisi negli ultimi vent’anni, si scopre una cosa incredibile: non solo non si è fatto sostanzialmente nulla per aumentare l’efficienza dell’amministrazione della giustizia, ma addirittura si è lavorato per diminuirla fortemente.

Molti ministri della giustizia si sono impegnati più a lottare “contro” i giudici e la giustizia che non a favore di essi. Tutte le occasioni di impegno massiccio – a volte a tappe forzate e con sedute notturne – del Parlamento in materia di giustizia hanno in realtà riguardato provvedimenti palesemente “ostili” alla giustizia.
Per non restare nell’ambito del soggettivo (se queste cose le scrive un giudice, cosa vi aspettate che dica?) guardiamo alle ultime leggi in materia di giustizia approvate da questo Parlamento-Governo-Legislatore che è poi sempre costituito dalle stesse persone.

Il c.d. “lodo Maccanico”: assicurava una temporanea impunità al Presidente del Consiglio (nella specie guarda caso imputato in diversi processi); dunque una legge fatta per una sola persona che aveva un trattamento differenziato rispetto agli altri cittadini. La Corte Costituzionale l’ha dichiarata incostituzionale. Adesso questa legge non c’è più. Però, per un anno o giù di lì, il Presidente del Consiglio di allora non è stato processato.

La legge Pecorella: impediva al pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di assoluzione. La Corte Costituzionale l’ha dichiarata incostituzionale.

La legge Cirielli: ha ridotto i termini di prescrizione anche dei processi in corso, così da farne prescrivere alcuni molto importanti che interessavano proprio a quelli che facevano la legge. La Corte Costituzionale l’ha dichiarata parzialmente incostituzionale; e si deve ancora pronunciare su altri aspetti di questa legge.

La legge sul condono: ha assicurato l’impunità a un sacco di gente che non la merita per nulla; in particolare ha fatto in modo che l’ancora “onorevole” Previti, invece di stare a casa sua agli arresti domiciliari è stato subito messo in piena libertà, libero – fra l’altro – di sedersi in quel Parlamento dove sembra che non dovrebbe stare perché definitivamente condannato per un reato che ne prevede l’espulsione.

La legge sulle intercettazioni telefoniche, su cui il Parlamento sta lavorando alacremente per impedirle, dopo che, per mezzo loro, si è scoperta la palude in cui erano coinvolti politici, uomini di affari e alte cariche dello Stato.

Il nuovo ordinamento giudiziario: consente di fatto il controllo della magistratura da parte del potere politico

In questa situazione, fare il giudice efficiente e imparziale è abbastanza duro.
Anche perché paradossalmente (mah), il potere politico interviene sulla giustizia ogni volta che essa risulta in qualche modo efficiente. Appena viene arrestato un corrotto, subito si fa una legge ad hoc che eviti che la prossima volta una cosa del genere possa capitare. E non è un problema di colore politico. La maggior parte delle leggi fatte contro la giustizia sono state fatte di comune accordo da maggioranza e opposizione.

Anche questo è facilmente dimostrabile.

Con il recente condono è successo che il Presidente della Camera dei Deputati, Fausto Bertinotti, ha ritenuto deplorevole che il Ministro Antonio Di Pietro mettesse in evidenza sul suo sito l’elenco dei nomi dei deputati che avevano votato a favore. Quando si dice la coda di paglia …

Qualche anno fa, con i voti di tutti i partiti politici, è stata fatta una piccola riforma delle pene accessorie che sono quelle che si aggiungono alla pena principale, la prigione. Tra queste c’era l’interdizione dai pubblici uffici e l’interdizione dall’esercizio di una professione. Prima, la sospensione condizionale della pena sospendeva solo la pena principale, la galera; in pratica, un sindaco condannato a due anni di carcere per corruzione, con la sospensione condizionale della pena non andava in carcere, ma gli si applicava la pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici, così almeno la smetteva di fare il sindaco e avanti un altro. Adesso, la sospensione condizionale della pena sospende anche la pena accessoria; così il sindaco condannato per corruzione non va in carcere e continua tranquillamente a fare il sindaco.

E questa cosa l’hanno votata tutti, senza distinzione di schieramento.
Poi c’è la propaganda, quel Minculpop che, in altri tempi, ha visto all’opera gente come Goebbels o Pavolini e che oggi si chiama “cronaca giudiziaria”.

Viene arrestata o incriminata una persona “potente” o comunque “in vista”: subito dichiarazioni, articoli di stampa, mille servizi televisivi che stigmatizzano la condotta dei magistrati. Ovviamente nessuno ha letto gli atti; o al massimo ha letto quello che gli ha dato l’avvocato del “potente” indagato o arrestato. Però sono tutti d’accordo: c’è un “abuso” della magistratura che è “strapotente” e “politicizzata”, “al servizio della maggioranza” etc.

Viene scarcerato un extracomunitario o un pregiudicato che poi viene riacchiappato per qualche altro reato, piccolo o grosso. Anche qui nessuno sa niente del primo e del secondo processo: però tutti discettano di inconcepibile lassismo dei giudici, di inefficienza della giustizia, etc..

Se un giudice fa cose che “piacciono” al potere, viene lodato e, se fa cose che non “piacciono” al potere, viene insultato e magari anche minacciato. E così è fatale che la maggior parte dei giudici si fa sempre più “prudente” che poi vuol dire meno imparziale. Non sono tutti così, molti, moltissimi tengono duro. Però … quanti? E fino a quando?

E poi, naturalmente, il giudice italiano è poco “efficiente”.

Leggi su come il giudice deve giudicare se ne fanno tante, tutte; e tutte quasi sempre sbagliate.

Ma leggi sui mezzi che il giudice deve avere per giudicare; quelle non se ne fanno, oppure se ne fanno per levargliene.

Così niente leggi su soldi, computers, attrezzature varie. Ma tante su quante volte si deve avvisare un avvocato, quanti giorni debbono passare prima di fare questo o quest’altro, quante volte (da una all’infinito) ci si può opporre ad una sentenza, un ordine di cattura, un sequestro. Tantissime su come si può fare per non finire in galera, per uscirne prima del tempo, per continuare a fare quello che si faceva prima pure se si è arrestati, condannati, condannati un’altra volta.

Tutto questo dà origine a un sistema micidiale per il controllo di legalità, che poi vuol dire il rispetto delle regole da parte di tutti e nei confronti di tutti.

Ancora una volta, non restiamo nel vago.

Guardiamo alla popolazione carceraria. In Italia circa l’80 % dei detenuti sono extracomunitari e tossicodipendenti. Secondo voi, tra tutti reati che si commettono nel nostro Paese, l’80 % è commesso da extracomunitari e drogati?

Magari siete in dubbio sulla risposta. Allora provate in quest’altro modo: secondo voi falsi in bilancio, appalti truccati, corruzioni di pubblici funzionari, violazione delle leggi antiinfortunistiche, turbative del mercato azionario etc.etc. etc. li commettono gli extracomunitari e i drogati? Mi sa di no, vero?

Allora, questo vuol dire che il sistema giudiziario è “tarato” per perseguire tendenzialmente i “deboli”. Siccome è da escludere che il carcere non lo meritino anche persone “forti”, il fatto che nessuno o quasi di loro ci finisca dentro, dimostra che il sistema é inefficiente nei confronti dei reati commessi da costoro.


La giustizia che si schiaccia da sola

E’ inevitabile a questo punto che il giudice italiano si trovi nei guai.

Se l’efficienza e l’imparzialità del giudice non sono considerati dei “valori” dal potere, è ovvio che sui capi degli uffici giudiziari si scarica una pressione – come minimo culturale, ma più spesso materiale, fatta di richieste, lusinghe, minacce – perché gli uffici operino nella direzione gradita al potere.

E, quanto all’efficienza, è di nuovo ovvio che è molto difficile essere efficienti in un contesto nel quale chi ha la responsabilità di procurare i mezzi necessari – il potere politico e, in particolare, il ministero della giustizia – non adempie i suoi obblighi.

E così per prima cosa il giudice è aggredito dalla sfiducia.

I magistrati sono persone come tutte le altre. Circa ottomila impiegati dello Stato. Dai e dai, il degrado complessivo del sistema e la pressione culturale che proviene dall’esterno finisce con il far pensare a molti di loro che tanto vale rassegnarsi al fatto che “non vale più la pena”.

Il carico di lavoro è allucinante, fatto di 10.000 adempimenti formali e privi di senso e di 10 provvedimenti finali che il cittadino aspetta con sempre maggiore irritazione. A lui non si riesce a spiegare che non c’è modo di fare “più in fretta”, che il sistema è congegnato così a bella posta, che comunque si fa tutto il possibile. Il cittadino è incazzato. E così molti giudici, schiacciati da carichi di lavoro sempre più alti e frustrati dalla sostanziale inutilità delle loro fatiche, si rassegnano a “tirare avanti”.

Qualcuno, visto come vanno le cose, segue la strada del successo personale: qualche via di fuga dorata da un mondo di fatica inutile e di delegittimazione e aggressione collettiva. E cerca una collocazione in posti nei quali il rapporto fatica/soddisfazione sia decisamente più vantaggioso.

Di questi posti ce ne sono alcune centinaia presso i ministeri e altre amministrazioni prestigiose.

E poi c’è il Consiglio Superiore della Magistratura, l’Associazione Nazionale Magistrati, i Consigli Giudiziari e le Correnti; di correnti ce ne è 5, al momento, 4 più o meno storiche (Magistratura Indipendente, Unità per la Costituzione, Movimento e Magistratura Democratica), una più recente (Art. 3) e un paio di recentissime, ancora non costituite ufficialmente.

I Consigli Giudiziari e il Consiglio Superiore della Magistratura amministrano la vita dei magistrati. Come ogni impiegato statale, anche i giudici hanno una loro carriera, vengono promossi periodicamente, destinati a questo o a quest’altro ufficio e, soprattutto, designati capi di questo o quest’altro ufficio. In queste occasioni, quando si tratta di stabilire chi diventa Procuratore della Repubblica di Roncofritto o Presidente del Tribunale di Poggio Belsito, il Consiglio Giudiziario (che è un organo su base locale, grosso modo regionale) formula un parere sulla idoneità del giudice a ricoprire quel posto; e il CSM alla fine decide chi sarà ad occuparlo, se Tizio, Caio o Sempronio.

Si capisce quindi che i Consigli Giudiziari e il Consiglio Superiore della Magistratura sono molto importanti per la vita di ogni giudice; ma, soprattutto, sono molto importanti per la “qualità” della giustizia perché è ovvio che non cacciare un giudice pigro o corrotto oppure mandare un giudice incapace e desideroso solo di tranquillità a dirigere un ufficio giudiziario, ha delle ricadute decisive sull’amministrazione della giustizia: il primo farà sentenze ingiuste e il secondo sarà sensibile alle pressioni dei “forti” e comunque non si adopererà per far funzionare il suo ufficio.

Tutti questi organismi, Consigli Giudiziari, CSM, ANM etc sono elettivi: i loro componenti sono giudici eletti dai giudici: è sembrato un buon sistema per assicurare l’indipendenza e l’autonomia della magistratura. I “poteri forti”, si è pensato, non potranno incidere sulla carriera e sulle nomine dei magistrati, loro saranno tranquilli e sicuri e scriveranno sentenze giuste, rapide e perfette.
Di buone intenzioni è lastricato l’inferno.


Le “correnti”

Perché i giudici e i loro organi costituzionali non sono immuni al degrado del Paese in cui vivono. E alla fine, all’interno della magistratura è accaduto qualcosa di molto simile a ciò che è accaduto all’esterno, nei palazzi della politica.

Nei palazzi della politica è diminuita fino a sparire la cultura della partecipazione e della democrazia e i partiti si sono ridotti a centri di gestione del potere e del consenso: scelgono i governanti e sono diventati padroni della politica.

La stessa cosa sta accadendo all’interno della magistratura: il “Governo” della Magistratura è il CSM, i “partiti” sono le cosiddette “Correnti”. Le elezioni sono gestite dalle “Correnti”. Sono le “Correnti” che decidono chi deve andare a far parte dei Consigli Giudiziari e del CSM; sono le “Correnti” che compongono la lista dei giudici che dovranno essere eletti in questi organismi; sono le “Correnti” che fanno propaganda per questo e per quest’altro e che, in pratica, garantiscono che nessuno, ma proprio nessuno (se non un altro aderente ad un’altra corrente) possa fargli concorrenza.

Anche gli organi direttivi delle “Correnti” vengono votati dagli aderenti alla corrente; sempre come accade nei partiti, dove la cosiddetta base elegge il suo segretario, presidente, componente del direttivo etc. E anche nelle “Correnti” come nei partiti, queste elezioni sono spesso un simulacro di elezioni, una conferma formale di quanto deciso da quelli che contano all’interno della corrente.

Per la verità, nelle “Correnti” militano spesso uomini probi e capaci; esattamente come accade nei partiti, anche costoro sono convinti che il loro impegno sia nobile e legittimo perché con esso portano voti alla loro corrente, che così avrà seggi al C.S.M., che così opererà per il bene della magistratura. Accanto a loro ci sono naturalmente anche altri magistrati, più cinici, che pensano poco alle sorti della magistratura ma molto alle loro ambizioni e alla loro carriera.

Tutti comunque hanno una caratteristica: fin dall’inizio, dal loro ingresso in magistratura, “studiano” per diventare, “da grandi”, componenti del CSM, membri del CdC (sarebbe il Consiglio Direttivo Centrale dell’ANM), segretari di questa o quell’altra corrente, componenti del Consiglio Giudiziario. In realtà è attraverso questa sorta di “cursus honorum”, cominciando dal basso, che si può aspirare a raggiungere il vertice.

Insomma si tratta dello stesso triste, squallido, corporativo sistema che ha ucciso la politica del nostro Paese.

Naturalmente tanti anni fa, quando CSM e Correnti sono nati, si trattava di associazioni caratterizzate da profili culturali ed etici. E, del resto, anche i partiti, all’inizio, erano così.

Solo che anche le “Correnti” hanno finito con il diventare utili solo a se stesse.

Proprio come i partiti, forse con un grado di consapevolezza minore e con un’efficacia certamente minore, esse sono diventate autoreferenziali. Questo vuol dire che, i responsabili delle “Correnti”, con l’alibi che servendo la corrente si serve l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, si sono ridotti a servire la corrente e basta. Così gli obiettivi delle “Correnti” hanno finito con il prevalere sugli interessi della magistratura; e nessuno o quasi protesta perché, sullo sfondo, aleggia sempre questa immagine, oramai falsa, della “Corrente” come guardiano dei valori costituzionali che tutelano la magistratura, l’autonomia e l’indipendenza.

Questo fatto è drammatico e sta rodendo come un cancro tutta la magistratura.

Cerchiamo di capire come.

Tutti coloro che arrivano al CSM, tutti coloro che arrivano al vertice delle “Correnti”, tutti coloro che possono accedere a questi vertici perché amici o amici di amici, sono destinatari delle speranze e delle richieste dei giudici sparsi nelle varie parti d’Italia: c’è chi vuole lasciare una sede disagiata per una più vicina alla sua famiglia; c’è chi vuole ottenere la direzione di un ufficio, c’è chi vuole partecipare a questo o quel comitato scientifico. Insomma c’è la consueta richiesta dei “deboli” ai “forti”: talvolta diretta a prevalere su qualcuno, talaltra ad evitare che qualcuno prevalga.

Non c’è da meravigliarsi quindi che chi vede soddisfatte le sue aspettative ricambi quanto ricevuto (o anche solo quanto spera di ricevere) con il “consenso”; e che chi fa parte o aspira a far parte del vertice delle correnti e ancora di più del CSM si dia da fare per promettere e ottenere “favori” ai suoi elettori e potenziali elettori.

Si crea così uno schema di comportamento compulsivo, che è sostanzialmente un percorso obbligato: quando il CSM deve nominare il responsabile di un ufficio, quelli della corrente bianca votano per uno iscritto alla loro corrente, quelli della corrente gialla votano per uno iscritto alla loro e così tutti gli altri. E quando una corrente non riesce a raccogliere i voti sufficienti a far passare uno dei suoi, baratta i propri voti con altre correnti, promettendo consensi incrociati.

Praticamente tutti i posti di potere all’interno della magistratura ormai sono lottizzati dalle correnti secondo uno schema più o meno complesso ma che si capisce subito dall’esempio che segue: In questi giorni stiamo battagliando per organizzare le elezioni dei Consigli Giudiziari e poi i nostri rapporti in vista del prossimo C.S.M.. Io sono contento, perché, se passa la linea che sto proponendo, a fare il Presidente del Tribunale di Roncofritto ci mandiamo Michele, che è dei Gialli, così loro ci votano Luigi, che è dei nostri, a Procuratore di Poggiobelsito. Luigi così è accontentato e alle prossime elezioni del C.S.M. noi possiamo candidare Carmelo, dato che Luigi è sistemato. Fatto Carmelo, alle prossime elezioni ancora, mi posso candidare io e, se con la desistenza dei Viola e la lista unica con i Blu, scatta il seggio in più, finalmente, nel 2014, andrò al C.S.M.

Tutto questo, come si è detto, comincia da subito. Anche questa volta lo si può capire con esempi presi dalla strada.

Elezioni del Consiglio Giudiziario, l’organo rappresentativo dei giudici di una certa Regione (si chiama Distretto). Il Consiglio Giudiziario, come si è detto, è importante perché dà i cosiddetti pareri sui giudici che chiedono di essere nominati capi di un ufficio: questo è bravo, questo no, questo è laborioso, questo meno, questo è un grande organizzatore, questo è disordinato etc.

La legge prevede che i componenti del Consiglio Giudiziario vengano scelti con il sistema maggioritario: chi ha più voti vince. Succede quindi che le varie correnti si organizzano e presentano candidati di buon livello, che godono la stima dei colleghi e che promettono di ricevere molti voti. Naturalmente ogni corrente ha i suoi “cavalli di razza” e quindi, siccome tanti giudici non sono iscritti a nessuna corrente e votano per colui che gli pare più in gamba, succede (succedeva) che sia pure tra i candidati proposti dalle correnti (nessuno che si candidi autonomamente ha la minima possibilità di essere eletto) uscivano tre della corrente bianca, due della rossa e nessuna della gialla. E quelli della corrente gialla, per tutte le ragioni spiegate più sopra, non erano contenti per niente.

Allora tutte le correnti insieme hanno pensato un marchingegno diabolico; non previsto dalla legge ma questi fini giuristi hanno pensato bene di giustificasi dicendo che comunque non era vietato. Così la Giunta locale (l’organo composto dai vertici di tutte le correnti) si è riunita e ha deciso che i candidati andavano “scelti” con elezioni primarie; e andavano scelti in una lista “chiusa” (formata da correnti che si erano associate tra loro) comprendente colleghi “selezionati” dalle singole correnti (con quali logiche nessuno lo sapeva).

E ha deciso soprattutto che se uno voleva dividere i suoi voti (si debbono eleggere 7 giudici perché così è composto il Consiglio Giudiziario) tra un collega inserito in una lista di una corrente e un altro collega inserito in altra lista e un altro ancora inserito in un’altra lista, beh questo non si poteva fare e il voto sarebbe stato considerato nullo.

Insomma non si poteva votare il collega l’elettore ritenuto più meritevole; ma soprattutto, votando un collega inserito in una certa lista, si finiva in pratica con il votare questa lista anche se tra i colleghi che erano indicati alcuni riscuotevano la fiducia dell’elettore e altri no.

Siccome la cosa era degna di un’elezione bulgara (sperando di non fare troppo torto alla Bulgaria dei tempi andati) qualcuno ha chiesto come e perché si era congegnata questa bella trovata. E ne è saltata fuori una risposta che dava i brividi peggio della soluzione trovata.

Dunque, hanno detto alcuni rappresentanti di un paio di correnti, qui sta succedendo questo: la corrente bianca non è adeguatamente rappresentata nel Consiglio Giudiziario, non riesce a far eleggere tanti suoi rappresentanti come dovrebbe essendo una corrente forte sul piano nazionale. Così abbiamo fatto un accordo e abbiamo inserito nelle liste pre confezionate che poi voi dovrete votare tanti rappresentanti dei bianchi quanti gliene toccano, tanti rappresentanti degli azzurri quanti gliene toccano etc.

I più scemi tra noi hanno chiesto che ragioni c’erano di rappresentare “adeguatamente” questa o quella corrente, visto che si trattava di gestire la carriera dei colleghi e che, si presumeva, questo sarebbe stato fatto dal Consiglio Giudiziario senza parzialità e scorrettezze. Praticamente senza imbarazzo (non parliamo di vergogna) è stato risposto che siccome così non era avvenuto in alcune occasioni, era adesso necessario che anche i colleghi appartenenti alla corrente bianca fossero adeguatamente tutelati.

Non so se qualcuno non proprio esperto di queste cose capisce subito che cosa significa una risposta del genere; e quindi è bene tradurla: è stato detto, in altre parole, che l’apparato delle correnti è necessario per garantire il corretto esercizio dei compiti del Consiglio Giudiziario (per la verità, si deve presumere a questo punto, di tutti gli organi che compongono l’autogoverno della magistratura); sempre in altre parole, è stato detto che gli appartenenti a una corrente “forte” hanno una corsia privilegiata e che quindi è imperativo, per ogni corrente, diventare il più “forte” possibile per tutelare i propri aderenti. Alla fine è stato detto insomma con chiarezza quello che tutti i giudici non iscritti ad alcuna corrente dicono quotidianamente: che le carriere più importanti e di maggior successo sono sempre quelle degli iscritti alle correnti, e che più una corrente è “forte”, più garantisce i propri aderenti sotto il profilo carrieristico e nel caso di eventuali “incidenti di percorso”.

Ma forse, proprio alla fine, è stato detto qualcosa d’altro, di ancora più grave: è vero, il Consiglio Giudiziario ha operato con logiche clientelari e politiche; non sempre, ma in qualche caso si. E quindi, a quelli che hanno adottato questi sistemi noi dobbiamo contrapporre altri che adoperino, ma con maggiore efficacia, gli stessi sistemi, per garantire quelli che stanno dalla nostra parte, prevaricando, se del caso, quelli che stanno dalla parte avversa.

Siccome questa cosa sembra tanto grave che è impossibile crederla, proviamo con la prova inversa, quella verifica che si faceva a scuola, in matematica: fingiamo che nulla di ciò che è stato così chiaramente detto in occasione di queste elezioni del Consiglio Giudiziario sia mai stato detto. E fingiamo che nulla di quello che dicono tantissimi giudici, soprattutto i giovani, quando si parla di correnti, sia vero. E poi poniamoci una domanda: i giudici possono permettersi questi sospetti? Possono permettersi che si pensi, e si dica, che i loro organi rappresentativi obbediscano a logiche clientelari e addirittura politiche? Certo che no. A tal punto non possono permetterselo che, se per avventura fosse vero, dovrebbero negarlo, dire che nessun magistrato si abbasserebbe a dare valutazioni, pareri, voti per un calcolo correntizio e che si tratta di menzogne di coloro che vogliono minare l’essenza stessa della giurisdizione. E, continuando a negarlo, dovrebbero prendere quelli su cui grava tale sospetto, chiedere loro di farsi da parte e decretare la fine delle correnti perché mai più si possano dire cose del genere; perché mai più si possa dire che non possiamo esercitare il giudizio sugli altri quando non siamo capaci di assicurare imparzialità al giudizio su noi stessi.

Dovrebbero, dovrebbero …

Come mai ancora non è successo?


Una storia esemplare

Lo possiamo capire con un altro esempio:
Immaginiamo che, presso il già noto Tribunale di Poggio Belsito, ci sia un giudice che si occupa di materia civile (lo chiameremo Temistocle Crollalanza) e che a costui vengano affidate le cause relative all’assegnazione di case popolari. Non è solo, fa parte di un Collegio (si chiama così, sono tre giudici che decidono a maggioranza a chi dare ragione e a chi dare torto) di cui fanno parte Aristide Fracanzani ed Ernesto Fatigoni.

Per puro caso Temistocle Crollalanza è amico della nota cooperativa Casa Popolare Amica, dedita al procacciamento di case popolari per i suoi associati; e Aristide Fracanzani è amico dell’altra nota cooperativa Case Popolari per Tutti.

Ernesto Fatigoni non è amico di nessuno ma sa (o ritiene di sapere) che i soci di un’altra cooperativa, Casa Popolare Bella e Pulita, siano brave e oneste persone e che la cooperativa in questione è, appunto, una cooperativa seria.

Supponiamo che Temistocle Crollalanza, quando decide a chi assegnare la casa popolare, si regoli nel modo che segue:

1. prima di tutto intrattiene contatti telefonici con uno di quelli che ha chiesto l’assegnazione dell’alloggio (si tratta naturalmente di un signore che fa parte della Cooperativa Casa Popolare Amica) e ascolta le sue richieste e ragioni. La cosa è assolutamente vietata perché il giudice deve parlare con le parti solo nel corso del giudizio e davanti a tutte loro e ai loro avvocati; ma Temistocle Crollalanza se ne frega.

2. addirittura accetta di partecipare a riunioni con il signore in questione e i suoi consoci e qui racconta il contenuto degli atti del giudizio e gli orientamenti dei colleghi del collegio. Non solo ma elabora strategie per far decidere la causa in maniera conforme ai desideri di questa gente, dando consigli al loro avvocato perché produca quel documento e nasconda quell’altro, sottolinei questo argomento e taccia quell’altro;

3. quando si arriva in camera di consiglio (sarebbe dove i tre esaminano gli atti del processo e decidono a chi assegnare la casa popolare) Temistocle Crollallanza parteggia apertamente per il socio di Casa Popolare Amica e osteggia altrettanto spudoratamente gli altri, associati ad altre cooperative;

4. quando proprio non ce la fa perché il suo amico Aristide Fracanzani non c’è e non riesce a fare maggioranza contro Ernesto Fatigoni accampa qualche scusa e chiede il rinvio della causa, in modo che sia possibile deciderla con il collegio che preferisce;

5. al momento di votare la decisione da prendere, quando bisogna spiegare perché e in base a quali principi di diritto i suoi amici debbono ottenere questa benedetta casa popolare, ne trova sempre di diversi a seconda delle circostanze. A volte, quindi, vota perché prevalga il criterio di anzianità nell’assegnazione della casa (da quanto tempo il suo amico è iscritto nelle liste di chi ha fatto domanda per avere una casa popolare), altre volte perché prevalga quello di anzianità in età dell’assegnatario (visto che il suo amico è il più vecchio di tutti), altre volte quello relativo al numero di figli dell’assegnatario (il suo amico ne ha ben 5), altre volte ancora quello relativo al tipo di lavoro svolto dall’assegnatario (il suo amico ne fa uno che gli da diritto a un punteggio aggiuntivo). Insomma un panorama di incrollabili principi di legge che, a seconda delle circostanze, crollano facilmente e vengono sostituti da un altro, altrettanto incrollabile fino alla prossima occasione.

Nello stesso modo si comporta Aristide Fracanzani.

Grazie al modo di comportarsi di Temistocle Crollalanza e di Aristide Fracanzani, il terzo componente del collegio Ernesto Fatigoni viene messo regolarmente in minoranza; e così a Poggio Belsito succede sistematicamente che le cause relative a case popolari vengono vinte sempre e solo dai soci della cooperativa Casa Popolare Amica o da quelli della cooperativa Case Popolari Per Tutti.

Ora, quando il Consiglio Giudiziario deve dare pareri sul conto di questo o quell’altro giudice in vista della sua nomina a Procuratore della Repubblica di Roncofritto o di Presidente del Tribunale di Montegioioso di Sotto; e quando il CSM deve decidere chi nominare in queste due città, succede proprio quello che si è raccontato sopra. I candidati contattano i loro santi protettori che tali sono perché appartenenti alla sua stessa corrente oppure appartenenti ad una corrente di cui fa parte un suo amico molto influente; i santi protettori avvicinano i componenti del Consiglio Giudiziario o del CSM (quando non ne fanno parte direttamente); le lodi di questo o di quel candidato si sprecano, i suoi meriti vengono esibiti, i suoi demeriti nascosti; ogni santo protettore e quindi ogni corrente sostiene il suo candidato e motiva il suo sostegno con quanto è più funzionale allo scopo: certe volte si tratta di una persona che ha ricoperto già il ruolo di Procuratore della Repubblica o di Presidente del Tribunale in un’altra città e quindi è persona espertissima; altre volte non ha mai ricoperto queste cariche ma è proprio quello che ci vuole per via dell’opportunità che tutti svolgano tutte le funzioni, dimostrando così di essere magistrati “completi”; altre volte si tratta del candidato più anziano e altre volte ancora di uno meno anziano ma molto più bravo; insomma tutto va bene pur di far prevalere il proprio amico o l’amico dei propri amici.

La domanda che sorge spontanea è: ma perché quello che fanno Temistocle Crollalanza e Aristide Fracanzani nell’esercizio delle loro funzioni di giudice costituisce un illecito disciplinare e magari anche un illecito penale (cosa di cui nessuno dubita ed anzi, se li pescano, il CSM li fa a fettine); e invece queste stesse cose, quando vengono fatte dai giudici che fanno parte dei Consigli Giudiziari e del CSM, vanno benissimo????!!!! Forse che l’assegnazione di un posto di Presidente del Tribunale di Montegioioso di Sotto non è una decisione da prendere con le stesse garanzie di imparzialità, autonomia e indipendenza che debbono essere adottate quando si decidono i processi e si scrivono le sentenze? Gli organi responsabili delle nomine dei capi degli uffici non sono forse organi di rilevanza costituzionale non meno importante del Tribunale civile di Poggiobelsito?

Com’è possibile, allora, che venga ritenuto legittimo che chi aspira a una carica nella magistratura possa caldeggiare - personalmente e tramite gruppi associati di amici - l’esito delle relative pratiche e i responsabili delle stesse possano apertamente condizionarne l’esito nel senso auspicato dagli interessati e dai loro amici?

Non è possibile, è ovvio. Però succede.

Così, anche in questo caso, proviamo a verificare l’esattezza delle conclusioni (per la verità la giustificazione delle sconfortate domande di cui sopra) con la cosiddetta prova inversa.

Mettiamoci nei panni di Ernesto Fatigoni (vi ricordate, il giudice onesto, quello che ritiene che la cooperativa Casa Popolare Bella e Pulita sia una cooperativa seria e i suoi soci gente onesta e per bene). E immaginiamo che questo povero giudice, una sera a cena, parlando con altri giudici suoi amici, racconti quello che gli capita ogni giorno nel collegio di cui fanno parte gli altri due, Temistocle Crollalanza e Aristide Fracanzani.

E immaginiamo che, chiedendo consiglio, proponga tre alternative:

1. accettare la situazione e rassegnarsi al fatto di essere messo sempre in minoranza; continuare a partecipare a quelle camere di consiglio farsa, continuare a subire il disagio di vedere i soci di Casa Popolare Amica e Case Popolari Per Tutti vantarsi in pubblico di avere in pugno il Tribunale (di cui lui fa parte) e accettare il fatto che non si può pretendere di cambiare il mondo da solo;

2. lamentarsi con Temistocle Crollalanza e Aristide Fracanzani e minacciarli di denunce. Che però non farà se loro accettano un accordo: ogni sei cause, una la si decide come dice lui. Così potrà consolarsi al pensiero che almeno una causa ogni sei si deciderà onestamente (magari finalmente a favore di Casa Popolare Bella e Pulita i cui soci - vi assicuro - sono tanto brave persone e, quindi, il fatto di aiutarli non va ritenuto un abuso, ma anzi un’opera di vera giustizia. Tanto più che, senza di lui, questi una casa popolare non l’avrebbero mai);

3. indignarsi, correre a denunciare Temistocle Crollalanza e Aristide Fracanzani in tutte le sedi possibili e impossibili e rifiutarsi di partecipare ad altri processi in cui i due facciano i giudici.

Che si dovrebbe fare?

La soluzione n. 1 è proprio da vigliacchi; ed è anche a causa di questi atteggiamenti che la giustizia va come va.

La soluzione n. 2 è quella comunemente praticata: mi indigno, rimprovero e minaccio.

Però, se mi ritaglio uno spazio (a fin di bene si capisce), tollero e cerco di sopravvivere: non posso cambiare il mondo ma posso ottenere qualche limitato successo.

Resta la soluzione n. 3. Al momento non ha ottenuto grande successo. Però non si sa mai.

Per chi ha letto qualche fumetto in vita sua e in particolare quelli mitici di Hugo Pratt, qualche consolazione può venire da lì.

Dunque, c’è Corto Maltese che si è andato a cercare una grana come al solito; ed è finito in compagnia di un rivoluzionario dancalo, che è un omino piccolo ed esile, vestito con un gonnellino e armato con un vecchio fucile Enfield; ha anche una capigliatura afro e una faccia fiera.

Insomma i due finiscono asserragliati su una terrazzina che è in cima ad un minareto, sapete quei balconcini rotondi dove un tempo i muezzin si recavano per recitare ad alta voce le loro preghiere, e ora ci sono gli altoparlanti; sotto una folla di soldati dervisci superarmati con mitragliatrici e fucili moderni che è fermamente intenzionata ad ammazzarli.

Corto ha un sigarillo in bocca e mormora rivolgendosi a nessuno in particolare: “Mmmhhh, la cosa si mette male. Certo che morire per niente…”. E allora il compagno gli risponde: “No Corto, non per niente; la rivoluzione può cominciare anche su un minareto”.



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(1) In questo capitolo si parla di cattivi politici e pessimi magistrati; e si parla solo di loro. Ed è ovvio che sia così perché si parla di cose che non funzionano; e se ne parla nella speranza che, in qualche modo, si trovi uno spunto per farle funzionare. Dunque il lettore non deve pensare che tutti i politici e tutti i magistrati siano come quelli di cui si parla nel libro. Naturalmente non è così: ci sono brave e oneste persone (e anche capaci) sia tra i politici sia tra i magistrati. Il problema è che, a giudicare dai risultati, queste persone non servono a niente; o comunque servono a poco. Sarà perché, come si studia all’università quando si prepara l’esame di economia politica, la moneta cattiva scaccia la buona? In altri termini, sarà perché, all’inizio del film, i cattivi prevalgono sempre? Se fosse così possiamo essere fiduciosi: in fondo, alla fine, sempre arrivano i nostri ….





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