lunedì 29 marzo 2010

Giurista per caso: la censura, l’odio e l’amore





Francesco Siciliano
(Avvocato del Foro di Cosenza)





L’Italia, si dice, è un paese di poca memoria, ma certamente una parte di essa sta nella Costituzione Repubblicana.

Legge fondamentale, questa, che, dalle macerie del fascismo, ha provato a ricostruire le regole di convivenza e reciproca limitazione tra i poteri dello Stato e quelle tra questi e le libertà fondamentali del cittadino in modo che, dopo gli anni di fascistizzazione dei poteri dello Stato e dei suoi simboli, l’Italia potesse incamminarsi, finalmente, in un percorso di democrazia.

Fondamentale in un paese che usciva dalla propaganda come strumento di comunicazione, tipico di ogni regime, è stata certamente la consacrazione del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero e, soprattutto, i precisi limiti, consacrati nella norma superprimaria, attraversi i quali la stampa e ogni mezzo di comunicazione potesse essere sottoposto a censura.

Sempre da giurista per caso e in estrema sintesi, può dirsi che il tema delle libertà ha una particolare valenza nell’ambito del diritto pubblico posto che queste rappresentano la codificazione e la delimitazione dei rapporti tra lo Stato autorità e il singolo cittadino e ciò spiega il motivo per il quale le moderne costituzioni abbiano espressamente affermato e consacrato le libertà dei cittadini.

La puntuale affermazione di queste libertà nell’ambito della costituzione, non rappresenta, tuttavia, una mera enunciazione di principio ma, nel nostro ordinamento, ha portato ad una vera e propria autolimitazione dei poteri dello Stato che è costretto dalle norme positive a rispettare le libertà del singolo cittadino e a potere interferire sul loro esercizio nei modi previsti dalla legge.

Ciò ha consentito, quindi, di individuare nelle libertà dei cittadini, e in quella di libera manifestazione del pensiero, un vero e proprio diritto inviolabile o diritto assoluto che è assistito da tutta una serie di garanzie nei confronti dei pubblici poteri che sono azionabili e reclamabili nei confronti dello Stato.

In altri termini, la violazione di una libertà costituzionalmente prevista e riconosciuta al singolo cittadino legittima quest’ultimo a ricorrere ad un altro potere dello Stato quale la magistratura per sanzionare quella violazione eventualmente attuata da un altro potere dello Stato.

Si comprende, quindi, che la previsione costituzionale di una libertà, vista in questa ottica, non si risolve in una enunciazione di principio per l’ordinamento ma limita in senso proprio l’esercizio dei poteri dello Stato.

Il cittadino, quindi, nell’esercizio della libertà garantitagli e nella difesa di tale libertà è assistito da una serie di azioni possibili che lo pongono sullo stesso piano dei pubblici poteri, potendo ottenere la sanzione di un comportamento dello Stato per la salvaguardia della propria sfera di azione.

Tali libertà, infatti, godono di un elevato grado di garanzia nel senso che esse possono essere limitate dalle pubbliche autorità nei soli modi e nei casi previsti dalla legge o a seguito di un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria che, chiaramente, agisce anch’essa nei modi e nei casi previsti dalla legge.

Più in particolare per ciò che attiene alla libertà di informazione, la Costituzione Repubblicana all’art. 21, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 10 Dicembre 1948 all’art.19 e l’art 10 C.E.D.U. - Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché la Corte Costituzionale (ex plurimis Cort.Cost. 15/21 novembre 2000, n. 519) hanno affermato l’esistenza, non solo e non tanto, del diritto all’informazione, ma anche e soprattutto del diritto dei cittadini ad essere informati che, ovviamente, presuppone la pluralità dell’informazione con riferimento a tutti gli aspetti culturali del paese.

Diritto quest’ultimo che evidentemente non può essere imposto per legge all’editore privato stante il limite dell’art. 41 a mente del quale l’iniziativa economica privata è libera.

Diverso è il caso della RAI il cui editore è lo Stato attraverso il Ministero del Tesoro.

In altri termini se per l’editore privato (sia esso radiotelevisivo o di carta stampata) le leggi dello stato non possono e non debbono imporre alcuna completezza dell’informazione (intendendo per questa l’obbligo di informare gli utenti circa tutte le tendenze politiche, culturali ed economiche) ben potendo l’editore selezionare le informazioni da dare ( a parte i limiti della par condicio nell’ambito della comunicazione politica), diverso è il caso dello Stato che si fa editore poiché lo Stato nelle sue articolazioni soggiace innanzitutto alla Costituzione Repubblicana che della legge rappresenta la norma superprimaria.

Piaccia o meno agli eletti dal popolo (sic!), l’editore della RAI (finanziata dai cittadini non solo per il canone ma soprattutto perché l’azionista è lo Stato cioè l’ente che incamera le entrate tributarie dei cittadini e successivamente le redistribuisce in attività, investimenti e servizi) cioè lo Stato è soggetto alla Costituzione Repubblicana e nell’esercizio della informazione deve rispettare i principi propri dell’art. 21 Cost., lato passivo, cioè il diritto dei cittadini ad essere informati.

Questa è in estrema sintesi la situazione giuridica dei diritti degli utenti RAI e dei giornalisti RAI e, in nessuna norma di legge si troverà scritto che questo diritto costituzionale possa essere delimitato o mediato dai partiti politici che, viste le percentuali dei votanti, rappresentano solo una parte (seppure maggioritaria) dei cittadini italiani.

In altri termini nella Costituzione non vi è distinzione tra amore e odio né una strettoia per cui lo Stato possa con la sua televisione limitare l’informazione a ciò che dettano i partiti politici dovendo invece cercare di informare su ciò che accade nella totalità dell’universo dei cittadini.

Emblematica in questa direzione è l’enorme numero di utenti televisivi (circa 5-6 milioni di persone dati non contestati) che settimanalmente segue Annozero il cui messaggio culturale a più voci e la cui informazione quasi sempre descrive un paese diverso da quello riassumibile nelle dichiarazioni di ogni leader politico.

Esiste, infatti, in Italia un numero cospicuo di persone (circa 15 milioni) che non esprime un voto politico non scegliendo tra bianchi e neri, tra guelfi e ghibellini, che, allo stesso modo, ha diritto di essere informato e di manifestare liberamente il proprio pensiero anche attraverso la scelta di un tipo di informazione assolutamente fuori dal coro.

A chi ritiene di poter sempre decidere non solo all’interno dei poteri che la legge gli assegna bisognerebbe ricordare che una cosa sono i diritti riconosciuti dalla legge altro è l’appartenenza politica.




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sabato 27 marzo 2010

“Qui tam pro domino rege”. Riflessioni sul licenziamento della dr Rosa Grazia Arcifa



Con riferimento alla vicenda del licenziamento dalla Agenzia delle Entrate della dr Rosa Grazia Arcifa per dei commenti scritti sul nostro blog, di cui diamo notizia nel post che si trova a questo link, riportiamo uno scritto di menici60D15.




di menici60D15



Esprimo solidarietà alla dr Arcifa per il licenziamento censorio.

L’opposizione intellettuale e politica agli abusi e alle sopraffazioni del potere può riguardare situazioni e circostanze molto diverse, e suscitare reazioni altrettanto diverse, a seconda di come si colloca rispetto al gioco degli interessi.

In medicina, ad un estremo sta il caso dei medici che sostenevano il progetto di Allende, medico anch’egli, di ridurre la farmacopea nazionale a poche dozzine di farmaci, e di ridurre i consumi e le importazioni di farmaci.

Furono fatti assassinare nel 1973, pochi giorni dopo l’Undici settembre cileno, voluto dagli USA.

In Italia si dovrebbe parlare di diversi casi della stessa matrice; es. quello di Domenico Marotta, padre nel dopoguerra dell’Istituto superiore di sanità, fatto mettere in cella ottantenne da PM che poi risultarono legati alla P2 e alla mafia; il Nobel Bovet lo definì “un integerrimo grand commis de l’Etat”.

Marotta aveva infranto il monopolio anglo-americano sulla penicillina chiamando il Nobel inglese Ernst Chain a lavorare per l’Italia.

Oggi l’ISS è un gran commesso di quegli interessi che Marotta offese (Pansera F. Michael Stern e l’eziopatogenesi della demenza senile, 2007. Relazione a Casarrubea, Dino, Scarlata, Scarpinato, Paci, Tranfaglia).

All’altro estremo, in USA c’è una legge che tutela i “whistleblowers” – come vengono chiamati gli autori di questo genere di denunce – che svelano frodi ai danni dello Stato; legge detta anche “Qui tam”, abbreviazione dell’interessante espressione “Qui tam pro domino rege quam pro se ipso in hac parte sequitur”: “Colui che si fa parte in causa sia per il re che per sé stesso”.

La legge prevede che denunciando una frode ai danni dello Stato si abbia diritto a una ricompensa.

Nel 2009 Kopchinski, un ex informatore farmaceutico della Pfizer, attualmente la maggiore casa farmaceutica al mondo, dopo essere stato licenziato ha ricevuto dallo Stato decine di milioni di dollari per avere denunciato che la ditta promuoveva l’uso “off-label”, cioè al di fuori delle indicazioni per le quali era stato approvato, di un antidolorifico (la legge USA consente prescrizioni off-label ai medici, ma non consente alle case farmaceutiche attività di marketing per indicazioni off-label).

La British medical association nel 2009 ha invitato i suoi membri a denunciare irregolarità quanto prima, e ha istituito un servizio di supporto dedicato per i whistle-blowers.

Riguardo alla necessità di procedere per via gerarchica e istituzionale nel denunciare un danno o un pericolo al pubblico, ciò appare la via da seguire se ci si imbatte in problemi di tipo colposo.

Va meno bene per le frodi o altri illeciti commessi consapevolmente da superiori, e può essere un suicidio per situazioni che sono profondamente radicate nel sistema, istituzionalizzate e che muovono interessi di grande portata.

Il fisico australiano Brian Martin, che ha studiato sul piano accademico la soppressione del dissenso nella ricerca, nei suoi consigli ai ricercatori dissidenti osserva che questi hanno in genere una forte fiducia nelle istituzioni e pertanto una tendenza a usare procedure ufficiali; in base alla casistica che ha raccolto, esprime scetticismo sull’efficacia del rivolgersi ai canali ufficiali, che vede come disegnati dal potere, e in genere ad esso asserviti; inclusa la magistratura. Invita quindi ad essere “wary” dei canali che noi chiamiamo istituzionali.

In uno studio su 35 “whistleblowers” (Lennane KJ. “Whisleblowing”: a health issue. British medical journal, 11 set 1993) tutti i soggetti avevano cominciato sollevando il problema all’interno delle organizzazioni delle quali facevano parte; comportamento che nella quasi totalità dei casi ha portato a subire persecuzioni e pesanti colpi.

Lo studio espone i vari trattamenti ai quali si viene sottoposti quando si fanno queste denunce, e i conseguenti danni economici, psicologici, morali e fisici.

Considera anche il profilo psicologico dei “suonatori di fischietto”, che tra i vari rischi corrono anche quello di venire patologizzati sul piano psichiatrico.

Mentre non sono emerse personalità inusuali, in quasi metà dei casi è risultato un profilo del tipo “sensing, thinking, perceiving” (contro il 12% della popolazione generale).

I “whistlebowers” dunque non andrebbero visti a priori né come eroi né come disturbati mentali.

La risposta ai dubbi su di loro e sul loro operato andrebbe cercata, come al solito, partendo dal merito delle questioni che sollevano, volontariamente con le loro denunce; o che sollevano involontariamente, con altre iniziative; spesso convinti di stare semplicemente servendo il re, cioè i princìpi del bene comune.





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La rottura della gabbia tv





di Michele Serra





da Repubblica.it del 27 marzo 2010


La lunga diretta di Michele Santoro, ben al di là del giudizio di amici e nemici, è stata un evento storico: la capillare messa in rete di un’infinità di media di piccolo e piccolissimo calibro ha infine radunato un pubblico vastissimo.

Un pubblico che si è trovato al di fuori e al riparo dal ferreo controllo governativo sulla televisione generalista. Per la prima volta in modo così evidente la gabbia del duopolio è stata clamorosamente scardinata: un’evasione di massa che ha coinvolto giornalisti e artisti a vario titolo “impubblicabili” - specie in questi giorni di campagna elettorale - sul grande quotidiano dell’etere tradizionale.

Insieme a loro sono evasi, a milioni, telespettatori (e cittadini) che non aspettavano altro. Un’audience confederata e autoconvocata è stata la vera protagonista dell’evento, e lo è stata a pieno titolo: il vero esiliato dalla tivù, la vera vittima dei protervi editti e delle telefonate padronali del Re Censore, è quella fascia di pubblico, in larga parte giovane, che ritiene di non avere più rappresentanza televisiva.

Il suo esilio, prima ancora che politico, è culturale: il linguaggio della tivù, in gran parte calibrato su un’idea corriva e classista dei “gusti popolari”, non gli appartiene da anni. Quel mix di perbenismo politico e donnine scollacciate, di moralismo pubblico e immoralità privata, non gli dice nulla. Il mondo berlusconiano gli fa un effetto ridicolo e deprimente.

È un pubblico che cerca la realtà ovunque (Internet, amici, scuola, socialità diffusa) ma non in tivù, se non nelle sempre più rade occasioni di informazione non controllata, non sanzionata, non addomesticata.

L’isteria censoria del premier e il servilismo dei suoi impiegati hanno fatto il resto. Sono stati il clamoroso lancio pubblicitario di una serata, più che antigovernativa, ingovernabile.

E questo strappo mediatico, che in un paese normale già avrebbe il suo peso specifico, in Italia assume un peso molto maggiore: perché è precisamente il campo mediatico quello scelto dal premier per esercitare la sua egemonia politica, pubblicitaria (dunque economica) e culturale.

Basta vedere cosa ha fatto ieri il Cavaliere alla vigilia del voto: con l’intervista in contemporanea su Tg1 e Tg5 e l’invasione di altri quattro telegiornali e del Gr1.

È in casa del premier - e non è una metafora - che microfoni e telecamere sono stati trafugati e autogestiti da chi intende l’informazione come un potere autonomo e non come il cingolo di trasmissione di questo o quel governo (ma soprattutto di questo).

Chi ha seguito la serata, comunque la giudichi nei suoi singoli interventi e nel complesso della sua impostazione, ha colto l’eccezionalità, e direi ha provato lo choc, di un luogo televisivo di libertà incondizionata.

Una libertà “scandalosa”, vale a dire non consueta, non normale in un quadro televisivo che ci ha via via abituati alla cautela, all’esitazione, all’autocensura come norma prevalente.

E ci ha anche aiutato a capire quanto preziosi, e per questo detestati da Silvio Berlusconi, siano gli spazi di libertà d’informazione già presenti nei palinsesti, e ultimamente tacitati.

Ovvio che Silvio Berlusconi giudichi “un obbrobrio” una così plateale effrazione delle sue regole e dei suoi voleri.

Sarebbe ancora più preoccupato se i suoi fornitori di sondaggi gli presentassero un’analisi accurata del target che ha accompagnato Santoro e i suoi compagni di fuga.

Bassa età media, fitta rete di contatti (non controllabili) sulla rete, irrequietezza politica a tutto campo, non certo inquadrabile solo nella comoda casella della “sinistra”.

Rispetto ai tradizionali movimenti scolastici e universitari, che nascono e si spengono nell’ambito depresso e “specializzato” della scuola, questi milioni di disobbedienti si muovono e si formano dentro il fiume mediatico, cioè nel cuore stesso del potere italiano.

Mitizzano “la realtà” come metodo antitetico al sogno berlusconiano, pretendono giornalismo, circolazione delle notizie, divulgazione dei fatti, insomma informazione, con un fervore che si presta magari a qualche trappola ideologica, a qualche scorciatoia faziosa, ma centra in pieno il cuore di ogni questione nazionale.

Nella lettura governativa del fenomeno, si tratta dunque di autentici eversori.

Sanzionare questo o quel giornalista, chiudere la bocca a questo o quel programma è nelle facoltà del premier, e si è ampiamente visto. Ma ricondurre milioni di italiani nell’alveo della docilità mediatica, questo non è più possibile: il merito fondamentale della serata bolognese è stato mettere in scena questa fuga di massa dalla Verità Ufficiale.




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giovedì 25 marzo 2010

Rai per una notte


Questa sera:




Cliccando sul banner, si accede alla homepage del sito della manifestazione.

La diretta streaming sarà a questo link o a questo.







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mercoledì 24 marzo 2010

Licenziata dall'Agenzia delle Entrate per dei commenti scritti sul nostro blog


La dott.ssa Rosa Grazia Arcifa (nella foto qui a destra), funzionario dell’Agenzia delle Entrate, in servizio a Pavia, è stata licenziata “senza preavviso” per dei commenti scritti sul nostro blog ritenuti “altamente lesivi dell’immagine e della professionalità dell’Agenzia delle Entrate, dei suoi addetti, nonché del sistema fiscale del nostro Paese”.

A questo link un articolo di stampa che riferisce il fatto.

A questo link il provvedimento con il quale è stato disposto il licenziamento.

A questo link una interrogazione parlamentare con risposta scritta su questa vicenda.

Bisogna riflettere molto sulla condizione di un Paese nel quale le più alte cariche dello Stato insultano abitualmente e senza ritegno, in piazza, in televisione e sui giornali, interi apparati dello Stato e singoli specifici funzionari (gli ultimi in ordine di tempo sono il Presidente del Consiglio che dà degli eversori ai magistrati e il Presidente dei Senatori della maggioranza che dà del bugiardo e dell'alcolizzato al Questore di Roma) e un impiegato viene licenziato senza preavviso per i commenti fatti su un blog.

Evidentemente ormai anche l'onore e la dignità non sono uguali per tutti.




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martedì 23 marzo 2010

Rai per una notte


Il nostro blog trasmetterà in diretta streaming la trasmissione “Rai per una notte”, della quale riportiamo qui sotto il manifesto (cliccando sull'immagine, se ne aprirà una versione ingrandita).

Il sito dell’iniziativa è a questo link: http://www.raiperunanotte.it/







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lunedì 22 marzo 2010

Il codice tra le mani - Storia di Guido Galli

Questa sera, 22 marzo 2010, alle ore 23.30, su Rai Due, andrà in onda una puntata de “La Storia siamo noi” dedicata al giudice Guido Galli, assassinato da terroristi di Prima Linea il 19 marzo 1980.


A questo link c’è il promo della trasmissione.

Riportiamo qui sotto la presentazione di Stefano Caselli e Davide Valentini.



Un codice aperto accanto ad un cadavere coperto da un lenzuolo bianco, riverso lungo un corridoio dell’Università Statale di Milano.

È l’ultima immagine di Guido Galli, 47 anni, magistrato e professore universitario, ucciso da un commando di Prima Linea nel pomeriggio di mercoledì 19 marzo 1980.

In occasione del 30° anniversario della sua morte, “La Storia siamo noi” di Giovanni Minoli vuole ricordare un eroe del quotidiano in un’epoca che sembrava aver smarrito la ragione.

Un uomo che credeva nella Legge come strumento di democrazia, che amava il Diritto e che amava insegnarlo alle generazioni più giovani.

Un eroe come noi, come tanti “La Storia siamo noi” ha raccontato in questi anni, e che però non finiscono mai di stupire per quel che la loro tragedia – ancora oggi – lascia in eredità.

Giuseppe Galli, figlio di Guido Galli: “Non voleva assolutamente essere un eroe, perché faceva appunto una sua vita normale nella sua straordinarietà”; Gian Carlo Caselli, magistrato: “Non scortare Alessandrini fu un errore, non scortare Galli dopo che era stato ucciso Alessandrini fu ancora più grave”.

Questa insomma è la storia di un uomo schivo e capace, e che proprio per questo, volevano uccidere: Ibio Paolucci, giornalista: “Addirittura erano due organizzazioni che contemporaneamente avevano in programma di ammazzarlo”. Da un lato Marco Barbone, 22 anni, membro del gruppo di Corrado Alunni, studia per entrare nelle Brigate Rosse; dall’altro, c’è Sergio Segio, leader di Prima Linea a Milano. Armando Spataro, magistrato: “Marco Barbone diventò collaboratore nell’autunno dell’80 e ci raccontò di come Galli era uno degli obiettivi principali del suo gruppo, ma ci raccontò anche che la mattina praticamente sotto casa di Galli si poteva immaginare un viavai di gente che lo voleva ammazzare perché si incontrarono terroristi di Prima Linea e quelli del gruppo Alunni. Addirittura questo innescò una sorta di concorrenza per cui Prima Linea accelerò i suoi progetti”.

A sparare contro Guido Galli nei corridoi dell’Università non è però Marco Barbone, che di lì a poco ucciderà invece il giornalista Walter Tobagi. Nella macabra competizione di questi anni spietati, ad assassinarlo è Sergio Segio, leader di Prima Linea.

Ma chi è Guido Galli? Un professore aperto e interessato al dialogo con gli studenti, l’autore di un testo fondamentale sulla politica criminale, un magistrato che vuole che i condannati scontino la loro pena, ma che al tempo stesso studia e propone miglioramenti al sistema carcerario. Ma prima della stagione dell’odio, il nome di Guido Galli si lega negli anni Sessanta al suo ruolo di Pubblico Ministero in importanti processi per alcuni clamorosi crack finanziari, come quello per la bancarotta di Felice Riva, nel 1965.

Durante l’inchiesta sulla Società Finanziaria Italiana, Guido Galli conosce Giorgio Ambrosoli che in quel periodo è assistente dei curatori nominati per la bancarotta della società.

Due destini che si incontrano, e si aggrovigliano: Ambrosoli viene ucciso nel 1979, l’11 luglio, e Galli viene ucciso l’anno dopo.

Milano anni Settanta. L’aria burrascosa, soffia ovunque. Da via Larga a Sesto san Giovanni. Dai corridoi dei licei a quelli della Statale.

E talvolta è un vortice pronto alla tempesta. “Un modo di essere normale”, dice Silveria Russo, ex-terrorista di Prima Linea, che ha avuto un ruolo centrale nel progetto dell’omicidio di Guido Galli. Nella Milano degli anni Settanta è “normale” sparare ad altezza uomo nelle manifestazioni del sabato pomeriggio.

È “normale” uccidere il simbolo del sistema. Ma nella Milano degli anni Settanta non sparano soltanto i ragazzi del “movimento” e dell’Autonomia. Sparano anche le Formazioni Comuniste Combattenti, i Comitati Comunisti Rivoluzionari e le Brigate Rosse. Spara, soprattutto, Prima Linea, che nella storia del terrorismo di sinistra, per numero di omicidi, sarà seconda soltanto alle BR.

Il 13 settembre 1978 viene arrestato nel covo di via Negroli Corrado Alunni, 31 anni, ex operaio della Sit-Siemens, uno dei più grossi latitanti italiani.

Ha inizio la più grande inchiesta milanese sull’eversione di sinistra.

Quaranta giorni dopo la scoperta del covo, i pubblici ministeri De Liguori e Spataro trasferiscono gli atti dell’inchiesta al giudice istruttore: Guido Galli.

L’inchiesta Alunni è dell’ottobre 1978: l’Italia, dunque, è ancora sotto choc per il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro.

Ciononostante, Guido Galli ammonisce contro la legislazione d’emergenza: contro il terrorismo, ripete, basta applicare il codice, la Legge.

Ma per qualcuno, nell’Italia di quegli anni, la tragedia di Aldo Moro è anche emulazione, competizione: Silveria Russo, ex Prima Linea: “Dopo l’omicidio di Moro tutte le organizzazioni terroristiche volevano la loro via Fani”.

Sostanzialmente dopo Moro anche la magistratura, e allora Galli, Alessandrini, ha cominciato a indagare e a capire che cosa fosse la lotta armata.

Corrado Stajano, scrittore: “Galli è arrivato a soluzioni nella sua ricerca sul terrorismo che hanno fatto capire ai terroristi che l’uomo era estremamente pericoloso perché aveva capito i loro punti deboli e il modo di affrontarli”.

Nessuna scorta per Guido Galli che ha per le mani un’inchiesta delicata come quella sulle Formazioni Comuniste Combattenti.

Ma la volontà di non mettere a repentaglio altre vite diventa, nella Milano di fine anni Settanta, un rischio fatale.

Per i giudici, il 1980 è un anno terribile.

Il 12 febbraio, a Roma, le BR uccidono Vittorio Bachelet, Vice-Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura; un mese dopo, è la volta di Nicola Giacumbi, Procuratore Capo a Salerno, e, a sole quarantott’ore di distanza, a Roma, di Girolamo Minervini, appena nominato responsabile delle carceri italiane. E di lì a poco, cadrà Mario Amato, ucciso dai NAR di Valerio Fioravanti.

A questa tragica contabilità della morte, non si sottrae Prima Linea.

La chiamano con disprezzo “Operazione Coccodè”: è il piano per uccidere Guido Galli, che il 17 marzo 1980 firma il suo ultimo atto istruttorio: un ordine di cattura per Sergio Segio: Gian Carlo Caselli, magistrato: “Il 18 marzo ci fu un primo tentativo di colpire Galli … il commando lo aspettò a lungo sotto casa ma Galli non uscì”.

Il gruppo di fuoco si sposta allora all’Università Statale. Quel giorno però Guido Galli non tiene lezione. Mercoledì 19 marzo, San Giuseppe.

Il commando terrorista raggiunge l’Università intorno alle 16.30.

Alessandra Galli, figlia di Guido Galli: “Era la pausa dopo la prima lezione, … e mentre eravamo lì c’è stato questo annuncio generico … è successo qualcosa al secondo piano è scoppiata una bomba o qualcosa del genere … io mi ricordo che la prima cosa che ho pensato è che potesse essere successo qualcosa a papà … sono salita fino all’aula dove lui avrebbe dovuto far lezione e girato l’angolo ho visto papà per terra … mi hanno fatto fare il riconoscimento … e da quel momento lì non ho più tanto il ricordo di che cosa è successo”.

Armando Spataro, magistrato: “Conservo tutti gli scritti di Guido e ho anche un appunto dalla sua agenda, che era di questo tenore: “se mi succede qualcosa telefonate al pubblico ministero dott. Armando Spataro” - ed aggiunge - “Quel ricordo mi suscita rabbia quando sento oggi personalità, i cosiddetti esperti di anti terrorismo, che dicono che nessuno può seriamente pensare che il terrorismo si combatte con il codice in mano. E quindi ovviamente si comprende perché io pensi a Guido, perché è morto col codice in mano. E quindi mi chiedo se queste persone conoscono qualcosa della storia d’Italia”.

La colpa di Guido Galli, secondo Prima Linea, era quella di aver ricostruito “l’Ufficio Istruzione di Milano come un centro di lavoro giudiziario efficiente”.

Insomma, è stato ucciso perché era un magistrato bravo e intelligente, riformista e garantista.

Una rivendicazione tragicamente simile a quella di Emilio Alessandrini e a quella che seguirà la morte di Walter Tobagi, assassinato il 28 maggio 1980 dalla Brigata 28 Marzo di Marco Barbone.

Gian Carlo Caselli, magistrato: “Li hanno colpiti perché bravi, capaci, credibili. I sedicenti rivoluzionari non possono sopportare uno Stato o alcune componenti dell’organizzazione statuale che siano credibili. Perché se lo Stato è credibile anche un qualche suo componente, il messaggio di ribellione contro lo Stato passa più difficilmente e quindi la strada per i terroristi è più in salita”.

Nessuno ancora sa che, proprio in quel marzo 1980, l’orizzonte della lotta armata ha già iniziato a chiudersi.

Armando Spataro, magistrato: “Di lì a poco, infatti, grazie alle confessioni di Patrizio Peci prima e di Roberto Sandalo poi, Prima Linea è finita: arresti, pentimenti, dissociazioni e, infine, la stagione dei processi. E’ verosimile che Guido non sarebbe stato ucciso, se solo per 30/40 giorni fosse stato possibile rimandare quella sua lezione all’università”.

Venerdì 21 marzo, intanto, un corteo funebre attraversa le strade del paesino di Piazzolo, tra le montagne della Val Brembana tanto amate dal giudice Galli.

È il primo giorno della primavera del 1980.




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venerdì 19 marzo 2010

Il nemico numero uno: i magistrati!






di Felice Lima
(Giudice del Tribunale di Catania)






Ormai è una costante di questo misero Paese in cui viviamo.

Appena i magistrati scoprono qualche delinquente, subito i vertici delle più importanti istituzioni si mettono a insultare sguaiatamente … i magistrati e a difendere i delinquenti.

In sostanza, il nemico numero uno nel nostro Paese sono i magistrati.

Va in onda la tolleranza zero contro gli “sbirri”.

Non sfugge a questa ormai costante prassi l’indagine di Trani.

Contro di essa si è già detto di tutto e, fra l’altro, che sarebbero state fatte intercettazioni “a strascico” e che i magistrati avrebbero agito violando la competenza territoriale.

Forse chiarire qualche punto della questione può risultare utile.

1. Nessuno può dire se l’azione dei magistrati di Trani è stata o no corretta senza aver letto gli atti del procedimento. Le affermazioni di chi parla di irregolarità e scorrettezze senza avere letto gli atti sono irresponsabili e prive di qualunque senso e fondamento, che non sia, ovviamente, la strumentalizzazione delle proprie parole a fini “politici” (paradossi di questo Paese dove la politica è ridotta al favoreggiamento).

2. Ciò che è fino ad oggi di dominio pubblico sull’indagine di Trani non consente per nulla di affermare né che si siano fatte intercettazioni “a strascico” né che siano state violate le regole della competenza territoriale (fermo restando, ovviamente, che, quando si potranno leggere gli atti – e solo allora - si potrà dire con cognizione di causa se tutto sia stato o no regolare; allo stato, visto da fuori, tutto sembra perfettamente regolare).

3. Sulla base di ciò che si sa in questo momento dai giornali la situazione sarebbe uguale a quella che si verifica abitualmente in mille casi giudiziari dei quali il Ministro ovviamente non si interessa.

Lo schema è il seguente.

Il pubblico ministero Tizio sta intercettando il telefono di tre rapinatori della sua città (Poggiobelsito di sotto) e tramite queste intercettazioni sta acquisendo prove delle rapine che hanno commesso nella sua città.

Un giorno due dei rapinatori che intercetta, parlando fra loro, dicono una cosa tipo: “Hai saputo che Pippo e Mario hanno ammazzato Giovanni? Ma ora gliela facciamo pagare”.

Questo fa emergere elementi di prova di altri reati: l’omicidio di tale Giovanni, già consumato, avvenuto non si sa quando e non si sa dove, e l’organizzazione tuttora in corso di una vendetta contro gli assassini da compiersi non si sa come e non si sa dove.

Il pubblico ministero che ascolta queste telefonate ha il dovere di attivare immediatamente tutte le iniziative più opportune per acquisire e assicurare gli elementi di prova di quei reati e per impedire il compimento dei reati in corso di organizzazione (la vendetta).

Dunque, svolge indagini per identificare Pippo e Mario, che vengono indicati dal suo rapinatore come gli assassini di Giovanni, e attiva le intercettazioni dei loro telefoni.

Ovviamente, tali intercettazioni non possono in alcun modo essere definite “a strascico” e chi le definisce tali compie opera di grave disonestà intellettuale. Quel pubblico ministero, infatti, sta intercettando – peraltro, su autorizzazione del G.I.P. competente – persone specifiche a fini specifici e in presenza di indizi di reato specifici.

Nel corso di queste intercettazioni emergono via via elementi di giudizio che gli consentono di individuare con più precisione i termini dell’omicidio di Giovanni - se è vero che c’è stato, dove è stato commesso, da chi e perché – e della vendetta in programma – come dovrà compiersi, ad opera di chi e dove.

Appena ha acquisito e assicurato tutti gli elementi di prova che, se non acquisiti e assicurati subito, potrebbero disperdersi e appena è sicuro che sono cessate le attività criminose ancora in corso e che richiedono un monitoraggio quotidiano per essere, se possibile, interrotte, il pubblico ministero conclude la sua attività, stralcia gli atti, forma un nuovo fascicolo e lo manda alle Procure che a quel punto saranno apparse competenti (ipotizziamo, per esempio, Roma, dove si è scoperto che sarebbe avvenuto l’omicidio, e Milano, dove era stata organizzata la vendetta).

Non poteva sospendere le intercettazioni prima e non poteva trasmettere gli atti a Roma e Milano prima perché:

1. per trasmettere gli atti a Roma e Milano avrebbe dovuto sospendere le intercettazioni, che sarebbero riprese solo dopo che un p.m. di Roma e uno di Milano avessero chiesto a un G.I.P. di Roma e a uno di Milano e questi ultimi disposto nuove intercettazioni da Roma e da Milano;

2. sospendere anche solo per dieci minuti (non parliamo di un paio di giorni o una settimana) intercettazioni dalle quali stanno giungendo prove di reato significa correre il rischio di perdere per sempre ciò che verrà detto in quei dieci minuti o due giorni o una settimana; potenzialmente nulla di importante o di assolutamente decisivo (non è possibile saperlo a priori);

3. per definire con certezza questioni come il tipo di reati commessi e la competenza a occuparsene è necessario acquisire una serie di elementi e di riscontri che difficilmente emergono da una telefonata; più probabilmente da un insieme di telefonate lette in maniera coordinata fra loro.

Dunque, in sostanza, vista da fuori, l’azione dei colleghi di Trani appare di ineccepibile correttezza.

Hanno casualmente avuto indizi di gravi reati mentre indagavano su altri.

Hanno acquisito e assicurato (come imposto dal codice di procedura penale) le prove che potevano perdersi se non acquisite e assicurate tempestivamente.

Hanno, infine, delibato la loro competenza e trasmesso ad altri uffici gli atti ritenuti di competenza di quelli.

Accade migliaia di volte al giorno in mille processi, posto che oggi raramente criminali di un certo livello agiscono solo in una città (basti pensare a quante sono le città nella quale risulta avere agito la cricca coinvolta nell’inchiesta sulla Protezione Civile).

In molti casi, prima di trasmettere gli atti per competenza ad altri, si procede anche alla cattura degli indagati, se vi siano esigenze cautelari da assicurare: per esempio, se sembra che stiano per commettere altri reati o se vi è il rischio che inquinino le prove o fuggano.

Nei mille altri casi in cui tutto ciò accade ogni giorno nessuno fa dichiarazioni avventate e prive di fondamento (per la semplice ragione che non si tratta di coprire ancora Berlusconi).

Le cose vanno a buon fine.

Come ho già scritto qui in altre occasioni, decine di soloni – giornalisti, politici, purtroppo anche deputati e ministri – hanno detto una montagna di cose insulse sul caso della signora Lonardo/Mastella, ironizzando sul fatto che i magistrati di Santa Maria Capua Vetere ne avevano disposto la cattura pur sapendosi e dichiarandosi incompetenti e trasmettendo DOPO gli atti a Napoli.

Tutti i giudici dei diversi gravami, fino alla Corte di Cassazione compresa hanno confermato la correttezza e legittimità dei provvedimenti dei magistrati di Santa Maria Capua Vetere e la signora Lonardo/Mastella è stata rinviata a giudizio.

E tuttavia ancora continuiamo a sentire citare il caso Lonardo/Mastella come esempio di atto illegittimo della magistratura.

Abbiamo subìto ogni genere di insulto e piagnisteo per la cattura del Presidente della Regione Abruzzi Ottaviano Del Turco e anche in quel caso la condotta dei magistrati è risultata pienamente legittima e Del Turco va a giudizio.

Infine, sembra evidente che, ove mai i magistrati di Trani avessero agito scorrettamente, saranno spazzati via dalla magistratura entro poche ore, come già accaduto anche a magistrati che avevano agito in maniera pienamente legittima: fra i tanti esempi, i colleghi De Magistris, Apicella, Nuzzi, Verasani e Forleo.

In questi tempi le c.d. istituzioni sono tendenzialmente solidali con i delinquenti e tendenzialmente ostili ai magistrati.

Capita quando, come dicono le relazioni delle varie commissioni antimafia, la criminalità si fa talmente forte da infiltrarsi massicciamente nelle strutture del potere economico e politico.

Da essere, insomma, non più in campagna come un tempo, ma in borsa e in Parlamento.

Fra le mille vicende citabili in proposito, bastino (per limitarsi alla stretta attualità) quella del senatore Di Girolamo, al quale un capomafia dice “Nicò devi obbedire sei il mio schiavo” e quella del vicepresidente della Regione Puglia che, stando a quanto emerge dai giornali di oggi, prendeva una sorta di stipendio dallo stesso corruttore che mandava prostitute a casa del Presidente del Consiglio (ma Berlusconi dice che non sapeva che erano pagate. Credeva che fosse amore. Mentre il suo avvocato dice che lui era solo - sic! - “l’utilizzatore finale“).

Cose del genere nel Burkina Faso produrrebbero le dimissioni di tre quarti della classe dirigente del paese.

In Italia producono un’aggressione sempre più volgare e isterica ai magistrati e, possibilmente, la loro cacciata.

E’ il segno di quanto grave è la nostra malattia.

Oggi come oggi fare paragoni con i regimi sudamericani di un tempo risulta offensivo dei sudamericani.

In nessun paese non dico civile, ma decente, i magistrati vengono insultati da uomini con incarichi istituzionali e di governo e per di più anche dal Ministro della Giustizia senza un fondamento e “a prescindere”.

Ieri si è avuto anche dell’umorismo involontario ad opera di tal Capezzone, che, a proposito dell’arresto del vicepresidente della Puglia ha dichiarato: “Noi siamo diversi dalla sinistra, e non esultiamo mai per le manette, neanche nel caso di Frisullo”.

Traduzione: noi non stiamo mai dalla parte della giustizia, neppure quando arresta i nostri avversari politici. Perché per noi i giudici sono più nemici di qualunque nemico. Noi siamo proprio contro la giustizia e basta. A prescindere.

Anni fa cose del genere si sentivano dire solo ai più irriducibili padrini. Ora le sentiamo dire a gente che sta al governo.

Questo dovrebbe fare riflettere molto.



___________


P.S. – Le ispezioni a Trani disposte dal Ministro Alfano sono illegali, per le ragioni esposte a questo link e a quest’altro.





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Galli, l’umanità dietro la toga





di Stefano Caselli
(Giornalista)




da Il Fatto Quotidiano del 19 marzo 2010


“E’ automatico. Penso sempre che sia la volta buona. Invece …”. Fa un certo effetto vedere Armando Spataro piangere. Eppure capita, ogni volta che ricorda “Guido”.

Guido è Guido Galli, giudice istruttore ucciso da Prima Linea nei corridoi dell’Università Statale di Milano esattamente 30 anni fa, alle 16.45 del 19 marzo 1980, a 47 anni: “Conservo tutti i suoi scritti – ricorda Spataro – anche un appunto sulla sua agenda: ‘Se mi succede qualcosa, chiamate Armando Spataro’. E seguiva il mio numero di telefono”.

Tra le decine di persone che si accalcano quel giorno al secondo piano della Statale – tra cui Alessandra Galli, allora studentessa, che riconoscerà il corpo del padre – accorre anche l’attuale procuratore aggiunto di Milano: “Guido era steso a terra – ricorda – aveva il codice in mano”. Un’immagine scolpita nella memoria della Milano che non dimentica.

Oggi a mezzogiorno i colleghi dell’Anm ricorderanno Guido Galli nell’aula magna del Palazzo di Giustizia.

Subito dopo, verrà presentato in anteprima “Il codice tra le mani. Storia di Guido Galli”, documentario prodotto dalla Sgi di Torino per “La Storia Siamo Noi” di Giovanni Minoli.

Il pomeriggio del 19 marzo 1980 Galli è atteso in università per la consueta lezione di Criminologia. Poco lontano dall’aula, che oggi porta il suo nome, è appostato il commando di Prima Linea: quattro persone guidate da Sergio Segio, lo stesso che poco più di un anno prima uccide in viale Umbria Emilio Alessandrini, collega e amico di Guido Galli.

Tutt’altro che una coincidenza; entrambi gli omicidi, infatti, saranno rivendicati con parole tragicamente simili. Tutti e due muoiono semplicemente perché bravi.

Alessandrini per aver dato credibilità allo Stato svelando le trame nere dietro la strage di piazza Fontana, Galli perché “apparteneva alla frazione riformista e garantista della magistratura “ colpevole di aver ricostruito “l’Ufficio Istruzione di Milano come un centro di lavoro giudiziario efficiente”.

Oggi – c’è da scommettere – qualcuno le chiamerebbe “toghe rosse”.

Allora erano solo i nemici numero uno di chi, unilateralmente, aveva dichiarato una folle guerra civile: “I sedicenti rivoluzionari – ricorda Gian Carlo Caselli, in quegli anni giudice istruttore a Torino – non possono sopportare uno stato credibile, perché il messaggio di ribellione passa più difficilmente”.

Guido Galli, affiancato dal pm Armando Spataro, aveva da poco terminato l’istruttoria contro il gruppo di Corrado Alunni, la madre di tutte le inchieste sull’eversione di sinistra a Milano. Svelerà i rapporti tra l’autonomia milanese e organizzazioni armate come Prima Linea, Formazioni comuniste combattenti, Brigata XXVIII marzo (che nel marzo 1980 ucciderà il giornalista Walter Tobagi).

Intrecci che si rincorrono negli ultimi giorni di vita del giudice Galli: pochi giorni prima dell’omicidio – come sveleranno le inchieste dell’Ufficio istruzione di Torino – Marco Barbone (leader della XXVIII marzo) e Sergio Segio si incrociano sotto casa Galli, in corso Plebisciti 3.

Il loro obiettivo è lo stesso, il che allarma Prima Linea che accelera le operazioni, anche perché Guido Galli è un bersaglio “facile”. Come Alessandrini, è senza scorta, al punto che il gruppo di fuoco di PL lo segue per due giorni tra corso Plebisciti e la Statale: “Noi magistrati di Torino che ci occupavamo degli stessi settori di lavoro di Galli e Alessandrini – ricorda ancora Caselli – eravamo scortati. Molte volte abbiamo pensato che sono morti anche al posto nostro”.

La morte di un uomo giusto più che mai attuale, anche a 30 anni di distanza, come ricorda Armando Spataro: “Al di là dell’emozione che ancora suscita – racconta – l’assassinio di Guido mi provoca rabbia, quando sento oggi i cosiddetti esperti di antiterrorismo dire che nessuno può pensare di combattere il terrorismo rispettando le regole. Guido è morto col codice in mano, per il codice, e non solo lui ovviamente, sono stati in tanti. E quindi, mi chiedo se queste persone sappiano qualcosa della storia d’Italia”.

Rabbia che si unisce alla malinconia per una morte giunta al crepuscolo della follia armata degli anni ‘70. Proprio in quei giorni, a Torino, Patrizio Peci, capo colonna delle Brigate Rosse, comincia a collaborare. Indicherà il nome di Roberto Sandalo, e anche per Prima Linea sarà l’inizio della fine.

Sorprende – e non appaia retorica – il ricordo pieno di dolcezza e umanità che amici e colleghi conservano oggi di Guido Galli. Un’umanità che traspare, verrebbe da dire trasuda, dalla sua famiglia.

Bianca e Guido Galli hanno avuto quattro figli: Alessandra, Carla (entrambe in magistratura), Giuseppe e Paolo, più Riccardo, figlio di una sorella di Bianca, adottato nel 1972: “Bianca – ricorda Vittorio Grevi, amico di Guido Galli – ha cresciuto cinque figli di grande livello anche etico e morale, che era quello che Guido sperava: ‘Devo dare ai miei figli un modello – diceva – perché si incanalino su una gerarchia di valori’. E devo dire che da questo punto di vista è stato soddisfatto”.





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mercoledì 17 marzo 2010

Dal Quirinale sulle ispezioni ministeriali



Giustizia: “Evitare drammatizzazioni e contrapposizioni fuorvianti sul piano istituzionale”



Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, anche nella qualità di Presidente del CSM, ha rilasciato la seguente dichiarazione:

«Il Comitato di Presidenza del CSM ha deliberato martedì 16 di affidare alla VI Commissione la richiesta sottoscritta dalla gran parte dei membri del Consiglio per l’apertura di una “pratica” inerente l’ispezione disposta dal Ministro della Giustizia presso la Procura della Repubblica di Trani. Tale richiesta non poteva discutersi, mancandone i presupposti, come apertura di una “pratica a tutela” qual è concepita nelle rigorose formulazioni di recente introdotte nel regolamento del CSM ; ed è stata perciò correttamente assegnata alla VI Commissione, competente per “questioni di carattere generale connesse a rapporti istituzionali”.

E come lo stesso Comitato di Presidenza ha chiarito, il CSM può solo richiamare gli orientamenti generali già indicati da ultimo con deliberazione del 24 luglio 2003 circa i “rapporti fra segreto di indagine e poteri dell’Ispettorato”. Tali indicazioni sono d’altronde ben chiare a chi svolge attività ispettiva per conto del Ministero della Giustizia e a chi dirige la Procura di Trani, che le ha infatti in questi giorni pubblicamente richiamate.

Come recita lo stesso regolamento del CSM, quest’ultimo può prendere in esame “le relazioni conclusive delle inchieste amministrative eseguite dall’Ispettorato generale presso il Ministero della Giustizia”, e non pronunciarsi preventivamente sullo svolgimento di dette inchieste. Così come queste non possono interferire nell’attività di indagine di qualsiasi Procura, esistendo nell’ordinamento i rimedi opportuni nei confronti di eventuali violazioni compiute dai magistrati titolari dei procedimenti. Vanno in sostanza rispettate - in tutti i casi, compreso quello oggi all’attenzione dell’opinione pubblica - l’autonomia delle indagini e l’autonomia degli interventi ispettivi disposti dal Ministro della Giustizia nei limiti dei suoi poteri.

E’ altamente auspicabile che in un periodo di particolari tensioni politiche qual è quello della campagna per le elezioni regionali, si evitino drammatizzazioni e contrapposizioni, come sempre fuorvianti, sul piano istituzionale. Roma 17 marzo 2010».



Ci permettiamo soltanto due rispettosissime obiezioni:

1) Il CSM non deve solo richiamare gli orientamenti già espressi nel 2003, ma può e deve segnalare al ministro che, successivamente, per volontà del suo stesso schieramento politico che lo aveva originariamente concepito, è entrato in vigore l’art. 14 del D.Lgs. n. 109 del 2006 il cui secondo comma prevede che il Ministro della giustizia ha facoltà di promuovere, entro un anno dalla notizia del fatto, l’azione disciplinare mediante richiesta di indagini al Procuratore generale presso la Corte di cassazione.

2) “Le relazioni conclusive delle inchieste amministrative eseguite dall’Ispettorato generale presso il Ministero della Giustizia”, sono solo quelle periodiche previste dall’art. 12 della legge n. 1311 del 1962, non certo quelle “mirate”, ormai fuori legge in quanto le indagini su un magistrato sono riservate esclusivamente al PG.

Questo blog si era occupato di queste tematiche alcuni anni fa (l'articolo è a questo link), quando le ispezioni erano già di moda eppure non interessavano a nessuno, neppure all’ANM, sebbene già allora i magistrati venissero forzatamente sottratti alle loro funzioni a causa delle inchieste svolte.




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Cos'è la concussione



da Il Fatto Quotidiano del 17 marzo 2010






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martedì 16 marzo 2010

Se questo è un ministro



di Bruno Tinti
(ex Procuratore Aggiunto della Repubblica di Torino)





da Il Fatto Quotidiano del 16 marzo 2010


Un ministro della Giustizia “normale” avrebbe atteso gli sviluppi dell’indagine su B&C e poi si sarebbe posto il problema se, nella Procura di Trani, “i servizi procedevano secondo le leggi, i regolamenti e le istruzioni vigenti” (Legge sulle ispezioni, 1311/1962); poi, magari, avrebbe disposto un’ispezione.

Un ministro della Giustizia furbo avrebbe detto: la Procura di Trani versa in condizioni disastrate; mando gli ispettori a vedere cosa si può fare. Poi da cosa nasce cosa …

Un ministro della Giustizia che ha concepito il Lodo omonimo e che si è dimostrato entusiasta delle leggi sul processo morto e sul legittimo impedimento avrebbe detto esattamente quello che ha detto Alfano: “L’inchiesta di Trani, il cui contenuto non conosco nel merito, evidenzia almeno tre gravissime patologie che sono chiare anche allo studente che affronta all’università l’esame di Procedura penale. E cioè: un problema gravissimo di competenza territoriale, un secondo problema di abuso delle intercettazioni, e un terzo che riguarda la rivelazione del segreto d’ufficio”.

Come tutti sanno, a Trani sono stati inviati gli ispettori.

Il problema è che questo studente universitario avrebbe potuto spiegare al ministro quanto segue.

Le ispezioni ministeriali sono regolamentate dalla legge 1311/62 che (art. 7) le prevede al fine di accertare la regolarità dei “servizi”, cioè l’organizzazione degli uffici giudiziari e l’adeguatezza delle risorse materiali e umane.

Sicché, a norma di legge, l’attività giurisdizionale non c’entra proprio nulla con le ispezioni che hanno natura amministrativa.

Per esempio, se un magistrato decide di incriminare B&C, questi sono affari del Tribunale della Libertà, del gip, del Tribunale, della Corte d’Appello e della Corte di Cassazione che, tutti nell’ordine e per quanto di loro competenza, stabiliranno con ordinanze e sentenze se chi indaga è competente a farlo e se ci sono prove valide (il che significa anche acquisite legittimamente) a sostegno dell’ipotesi di accusa.

Non è il ministro della Giustizia, nemmeno se si chiama Alfano, che può stabilire chi sia la procura territorialmente competente e se intercettazioni telefoniche (o qualsiasi altro mezzo di ricerca della prova) siano state disposte legittimamente.

Quanto alla fuga di notizie, non è il ministro della Giustizia che può svolgere indagini circa la sussistenza di un reato: questo è compito della Procura della Repubblica.

Insomma il ministro Alfano ha inviato a Trani gli ispettori per fare cose che, secondo legge, non possono fare, e dunque ha disposto un’ispezione illegittima.

Questo, in effetti, glielo avrebbe potuto dire uno studente universitario. Ma c’è di peggio.

Supponiamo che il ministro Alfano (che quando si tratta di B&C ha le idee chiarissime pur senza “conoscere nel merito” nulla dell’indagine) abbia informazioni tali da renderlo certo che ci sono state le patologie di cui si è affrettato a parlare; e supponiamo (ma non è vero) che queste patologie rendano opportuno un procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati di Trani.

Perché parlo di procedimento disciplinare e non d’ispezione? Perché (questo lo studente universitario probabilmente non lo sa ma Alfano certamente sì), nel 2006 c’è stato il Decreto legislativo n. 109 che, all’art. 14 comma 2, prevede che il ministro della Giustizia ha facoltà di promuovere l’azione disciplinare mediante richiesta d’indagini al procuratore generale presso la Corte di Cassazione.

Il che vuol dire che, se il ministro della Giustizia ritiene che sussistano illeciti disciplinari (le gravi patologie da lui date per certe senza conoscere niente dell’indagine) l’unica cosa che può fare è dirlo al suddetto pg che svolgerà le indagini necessarie.

Insomma, il ministro non può, proprio non può, mandare gli ispettori a fare indagini sulle “gravi patologie” così evidenti da essere percepibili dal famoso studente: se sono così evidenti se ne occupi, come previsto dalla legge, il pg presso la Cassazione; lui, il ministro, può solo segnalare la cosa.

Allora, perché Alfano ha subito suonato la grancassa e inviato gli ispettori?

Perché così ha avvalorato la consueta autocertificazione d’innocenza di B&C, corredata dalle consuete calunnie nei confronti di chi ha osato indagare su di loro. B&C non hanno mai commesso alcun reato; la loro incriminazione è frutto di evidenti patologie; il vigile ministro le accerterà (anche se, a termini di legge non può farlo) rendendo così chiaro al popolo tutto come la specchiata virtù di B&C sia stata oggetto di un vile complotto.

Il problema è che a questo stravolgimento della legge ha molto contribuito il Consiglio superiore della magistratura.

Per molto tempo il Csm ha ritenuto che le decisioni giurisdizionali non potevano essere censurate disciplinarmente.

Un pm incrimina taluno per concussione; il Tribunale decide che si tratta di abuso di ufficio; le intercettazioni potevano essere disposte per la concussione ma non per l’abuso; non si poteva arrestare nessuno; alla fine l’imputato è condannato a una pena lieve o addirittura assolto.

E allora? Che c’entra il procedimento disciplinare? Queste cose riguardano Tribunale, Appello e Cassazione; non il Csm.

Nessuno ne ha mai dubitato.

Fino a qualche tempo fa.

Per esempio, quando la Procura di Salerno ha emesso un decreto di sequestro nei confronti della Procura di Catanzaro.

In questo caso il Csm è intervenuto disciplinarmente e ha affermato un principio gravissimo: il Csm può stabilire che un provvedimento giurisdizionale non serve allo scopo per il quale è stato emesso (acquisire la documentazione che la Procura di Catanzaro si rifiutava di consegnare) ma ad altro; nel caso di specie a finalità addirittura illecite: appropriarsi dell’indagine che quella procura stava facendo su De Magistris.

Poi il Tribunale della Libertà ha detto che si trattava di un provvedimento pienamente legittimo; ma ormai i magistrati di Salerno erano stati trasferiti.

Il famoso studente universitario non avrebbe difficoltà a rendersi conto che un tal modo di procedere(a questo punto comune a Csm e ministro) mette a rischio l’indipendenza e l’autonomia del magistrato.

Se un provvedimento giurisdizionale può essere valutato disciplinarmente, nessuna sentenza sarà più al sicuro: per intenderci, si potrà stabilire che il giudice Mesiano non ha emesso una sentenza che dava torto a Mediaset perché così (a torto o a ragione, lo stabiliranno Appello e Cassazione) ha ritenuto giusto; ma perché fa parte del complotto pluto-comunista-giustizialista ai danni di B&C.

Così, come al solito, è inutile prendersela con B&C (in questo caso con Alfano): fanno quello che ci si aspetta da loro.

Il vero problema sono quelli che non capiscono, non prevedono, non prevengono.

Se oggi tanti credono alla favola della magistratura politicizzata, delle indagini e sentenze complotto, della necessaria immunità politica, un po’ (tanta) responsabilità ce l’ha il Csm




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Giurista per caso la L. Digna vox, il caos liste e il decreto legge del governo





di Francesco Siciliano
(Avvocato del Foro di Cosenza)






Sulla scorta degli ultimi accadimenti proverò da quisque de populo e giurista per caso a fare alcune considerazioni sul decreto salva liste.

La L. digna vox è una costituzione di Valentiniano III (C. 1, 14, 4) diretta al prefetto del pretorio Volusiano ed è databile a Ravenna 11 di giugno del 429.

Si tratta di un editto dal quale la l. digna vox fu smembrata dai compilatori giustinianei per essere posta, come espressione di un principio fondamentale, sotto il titolo XIV, de legibus et constitutionibus principum, del libro I del Codex.

Il principio che si voleva esprimere, quale superamento del princeps legibus solutus, era quello che quando produce editti, leges edictales, pragmatiche generali, l’imperatore è legislatore: può modificare e abrogare le leggi esistenti.

Quando la norma giuridica però è stata creata, neppure al principe è lecito violarla per privilegiare a danno di altri una posizione individuale.

Anche il principe, quindi, è soggetto alla legge.

Insomma dopo anni in cui il Principe era stato legibus solutus e, ad esempio, anche nella costruzione della sua città non doveva badare al diritto quanto mostrare con le opere urbanistiche la sua potenza ed importanza, a leggere i commentatori, sembra che a partire proprio dal richiamato editto, si pensò, invece, che era degno del principe di volersi considerare assoggettato alle leggi, poiché la sua autorità derivava dall’autorità del diritto, e sottomettere il potere alle leggi significava accrescere e non diminuire la sovranità (maius imperio est submittere legibus principatum).

Il sistema delle limitazioni del potere (ciò che potrebbe definirsi costituzione) risiedeva, quindi, nella volontà del potere di conformarsi al diritto, in una sorta di generale e preventiva autolimitazione, «proclamando quel che il potere non considera lecito a se stesso» (quod nobis licere non patimur).

Eravamo proprio nel medioevo, tempi nei quali, sembra, si disquisiva della necessità di mediare tra l’assolutismo del princeps legibus solutus e un nuovo principe conforme e sottoposto al diritto.

Per tornare al senso di questo scritto, è invece utile tratteggiare il percorso inverso seguito dal legislatore italiano moderno con riferimento ai noti fatti inerenti il caos della presentazione delle liste e l’intervento del governo con il c.d. decreto salva liste.

Sul punto basti osservare che nel dibattito parlamentare dei lavori dell’assemblea costituente si è molto discusso circa l’abolizione della figura del decreto legge poiché durante il ventennio fascista, ammontarono a ben 30 mila i decreti-legge emessi dal Governo, alcuni dei quali perfino per la nomina di qualche impiegato.

Su tale base, nella discussione parlamentare costituente sull’art. 77, Costantino Mortati (Corigliano Calabro, 27 dicembre 1891 – Roma, 25 ottobre 1985) proponeva di restringere la loro applicabilità alla guerra ed ai decreti-catenaccio; in qualità di Relatore dichiarava che la potestà legislativa del Governo “… ingenera da una parte la tentazione (da parte del Governo) di abusarne per la più rapida realizzazione dei fini della sua politica; dall'altra parte, vorrei dire, eccita la condiscendenza del Parlamento, il quale tende a scaricarsi dei compiti di sua spettanza”.

La materia quindi aveva trovato nei nostri padri costituenti viva preoccupazione e alla fine si era stabilito, comunque, che la figura del decreto legge fosse usata con molta circospezione.

Nell’Italia Repubblicana, svanite le preoccupazioni dei Costituenti e, stante la previsione della Corte Costituzionale quale organo di tutela, si è, tuttavia, assistito da un certo momento in poi, mi sovviene l’amaro Ramazzotti, ad un uso vistoso della decretazione d’urgenza che di fatto ha forzato lo spirito della Costituzione esautorando spesso la funzione legislativa del Parlamento.

Impressiona, tuttavia, da giurista per caso, la vicenda del decreto salva liste del Governo.

Sul punto l’esecutivo, con decreto, ha dettato norme di interpretazione delle regole per la presentazione delle liste e, per ciò che più interessa, ha dettato una sorta di norma transitoria del decreto legge di interpretazione autentica (!): “4. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alle operazioni e ad ogni altra attività relative alle elezioni regionali, in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto. Per le medesime elezioni regionali i delegati che si siano trovati nelle condizioni di cui al comma 1 possono effettuare la presentazione delle liste dalle ore otto alle ore venti del primo giorno non festivo successivo a quello di entrata in vigore del presente decreto”.

Sommessamente viene da leggersi la Costituzione (Modifica dell'articolo 122 della Costituzione) 1. L'articolo 122 della Costituzione è sostituito dal seguente: "Art. 122. - Il sistema di elezione e i casi di ineleggibilità e di incompatibilità del Presidente e degli altri componenti della Giunta regionale nonché dei consiglieri regionali sono disciplinati con legge della Regione nei limiti dei princìpi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica, che stabilisce anche la durata degli organi elettivi. Nessuno può appartenere contemporaneamente a un Consiglio o a una Giunta regionale e ad una delle Camere del Parlamento, ad un altro Consiglio o ad altra Giunta regionale, ovvero al Parlamento europeo. Il Consiglio elegge tra i suoi componenti un Presidente e un ufficio di presidenza. I consiglieri regionali non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni. Il Presidente della Giunta regionale, salvo che lo statuto regionale disponga diversamente, è eletto a suffragio universale e diretto. Il Presidente eletto nomina e revoca i componenti della Giunta".

Non siamo più nel medioevo ……………………………



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domenica 14 marzo 2010

De Magistris: La magistratura immobile e complice e il senso dello Stato




di Luigi De Magistris
(Deputato del Parlamento Europeo)





da Antimafia Duemila dell’8 gennaio 2010


Sono passati circa due anni da quando, quale magistrato in servizio alla Procura di Catanzaro, mi sono state sottratte illegalmente indagini che avevano ad oggetto gravi reati commessi da politici, persone ricoprenti ruoli apicali all’interno delle Istituzioni, imprenditori, professionisti vari.

Le attività investigative riguardavano – nell’ambito della gestione illegale del denaro pubblico in Calabria – i rapporti tra massonerie deviate e politica, tra crimine organizzato e istituzioni. Il grumo di potere che soffoca nel crimine una Regione del Sud.

In quegli anni difficili le attività di ostacolo e di interferenza al lavoro svolto non provenivano solo dall’esterno (dalla politica, dal crimine organizzato, da pezzi deviati delle Istituzioni), ma anche e per certi versi soprattutto dall’interno dell’ordine giudiziario.

Pressioni ed intimidazioni messe in atto da magistrati che hanno violato la legge e commesso crimini.

In virtù di tali gravissimi fatti da parte di un collaudato sistema criminale operante soprattutto in Calabria si avviarono diverse indagini da parte della Procura di Salerno.

Le indagini di quell’Ufficio vennero dirette da alcuni magistrati onesti, capaci e coraggiosi.

Hanno accertato che nei confronti del mio Ufficio venne messa in atto una pervicace attività criminale proveniente da settori della politica, da magistrati, professionisti e pezzi delle istituzioni. Un intreccio criminale senza precedenti.

È tutto negli atti, in quei documenti che dovevano essere poi sviluppati con celerità e condurre alla verità.

Il percorso della giustizia è stato interrotto da chi doveva essere dalla parte dello Stato.

Quei magistrati avevano nella loro disponibilità indagini devastanti per i poteri criminali che dominano in Calabria da anni.

Documenti, testimonianze, atti, indizi, prove. Uno scenario impressionante per la politica, la magistratura, le istituzioni.

Credo il più grande scandalo politico-giudiziario che abbia mai coinvolto la Calabria.

Come non hanno capito quegli ingenui magistrati che li avrebbero fermati, ad ogni costo.

Hanno utilizzato il tritolo della carta da bollo di cui sono molto abili i legulei del potere costituito.

Hanno messo in atto il prodotto del laboratorio tanto caro a quella parte della magistratura che desidera stare con il potere, con i più forti, per poi trarne benefici nell’interesse particulare e non generale.

I peggiori nemici dell’indipendenza dei magistrati.

La magistratura italiana è a conoscenza da anni che in Calabria vi sono incrostazioni giudiziarie, collusioni, una grave emergenza morale.

Quante volte magistrati anche noti, paladini della falsa moralità, sostenevano questi argomenti, ma solo per comodità salottiera, fino a quando non sono stati coinvolti i poteri che loro non osavano contraddire.

Alcuni di questi hanno fatto anche la loro carriera al C.S.M., magari celebrando la questione morale, ma senza mai brillare in azioni concrete per affrontarla laddove ve ne era bisogno.

Hanno contribuito a produrre un mortale isolamento proprio di quelli che avrebbero dovuto aiutare.

Nonostante questa consapevolezza diffusa è accaduto che i magistrati che hanno indagato per ripristinare un po’di legalità nella cosa pubblica in Calabria sono stati spazzati via da settori dell’ordine giudiziario che hanno agito in piena sintonia con i poteri forti, realizzandosi un intreccio tra magistratura e poteri intollerabile in un Paese in cui ci battiamo per difendere l’indipendenza e l’autonomia dell’ordine giudiziario.

La violenza morale esercitata nei confronti di servitori dello Stato ha prodotto la mia forzata uscita dall’ordine giudiziario e l’esilio di altri magistrati.

Collaboratori, appartenenti alla polizia giudiziaria e testimoni distrutti solo per aver reso servizi di giustizia.

Hanno ucciso aspettative e speranze di migliaia di persone.

Possiamo più credere che venga resa giustizia?

Il potere illegale ha prodotto effetti devastanti che peseranno in Calabria per i prossimi decenni.

A fronte di ciò, l’altro lato della stessa medaglia ci mostra magistrati indagati per fatti gravissimi, perquisiti con contestazioni di collusioni senza precedenti, artefici di condotte che avrebbero dovuto produrre un immediato loro allontanamento quanto meno dalla Calabria, che sono ben saldi al loro posto.

Esercitano funzioni giudiziarie, continuano indisturbati nella loro attività, magari garantiscono gli stessi equilibri criminali.

Uno scandalo che si consuma nel silenzio complice di chi avrebbe il dovere istituzionale di intervenire.

Una vergogna senza precedenti, resa ancor più nauseante da un oblio diffuso e tipico del vizio della memoria.

A due anni da quegli eventi che hanno segnato per sempre la vita di tante persone che cosa ci resta nella mani, nel ricordo, nelle sensazioni, nel cuore, nella mente?

La polverizzazione di inchieste scomode ai poteri; l’insabbiamento di fatti giudiziari; la distruzione di servitori dello Stato; il mantenimento nei loro posti degli artefici delle deviazioni di Stato.

Non si devono dimenticare tutti coloro che hanno creduto nella giustizia ed hanno operato in modo ostinato nella direzione della verità e nello stesso tempo è necessario mostrare lo sdegno più profondo per quei pezzi delle Istituzioni che hanno offeso la dignità dello Stato.




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Anche un membro del C.S.M. (magistrato) nello scandalo Berlusconi, Rai, Agcom




di Marco Lillo e Peter Gomez
(Giornalisti)



da Il Fatto Quotidiano del 14 marzo 2010


Non c’è solo l’Agcom nella squadretta di manganellatori messa in piedi sotto il comando di Silvio Berlusconi per azzittire gli show politici sulla Rai.A Il Fatto Quotidiano risulta che numerose intercettazioni trascritte dalla Guardia di Finanza riguardano la Commissione di vigilanza sui servizi radiotelevisivi.

In particolare un ruolo chiave nella “strategia” messa in piedi da Silvio Berlusconi per arrivare allo stop di Michele Santoro (una vera ossessione per il Cavaliere) lo riveste Giorgio Lainati, deputato del Pdl e vicepresidente della Commissione.

Questo ex giornalista Mediaset promosso dal padrone deputato nel 2001 è sempre stato un bulldog degli interessi del Cavaliere nel Parlamento. Quando il commissario dell’Agcom Giancarlo Innocenzi (il coach della squadretta del presidente) deve riunire tutti i fedelissimi insediati nei gangli dell’informazione, è proprio Lainati il primo della lista.

Innocenzi entra in fibrillazione alla fine di novembre quando si scopre che Santoro, dopo la puntata con Patrizia D’Addario, dopo la trasmissione incentrata sul sottosegretario Nicola Cosentino e la camorra, ora sta preparando un focus sul caso Berlusconi-Mills.

Più che il commissario dell’Autorità Garante delle Comunicazioni, sembra il commissario tecnico della squadretta del suo padrone e dirama le convocazioni per un incontro urgente.

Il presidente del Consiglio gli ha dato un incarico preciso: “Elaborare la strategia per arrivare alla chiusura di Annozero ma anche di Ballarò’e magari di Parla con me”.

Innocenzi chiama subito la sua sporca mezza dozzina per organizzare un incontro.

Da vero pasdaran della causa che arriva a dire: “Per me conta solo una persona”, cioè l’amato Berlusconi (da lui definito indifferentemente “Capo” o “Padrone”) si lancia ventre a terra a caricare “gli uomini del presidente”.

All’appello dei fedelissimi registrato dagli investigatori i convocati sono il direttore generale della Rai, Mauro Masi; il consigliere di amministrazione dell’azienda pubblica , Alessio Gorla e - difficile anche solo a immaginarsi - un magistrato importante: Cosimo Ferri.

Proprio lui il potente presidente della settima commissione del Consiglio Superiore della Magistratura, quella che stabilisce gli incarichi direttivi.

Innocenzi lo convoca ogni volta che c’è da prendere una decisione importante.

Per esempio, prima di preparare le due lettere che dovevano essere inviate dall’Agcom e dal direttore generale della Rai Mauro Masi per soffocare in una tenaglia Annozero, Innocenzi chiede al consigliere della Rai Alessio Gorla (che subito le fornisce in via riservata) le carte che servono a Cosimo Ferri.

Nei fedeli resoconti al premier delle sue attività, Innocenzi cita sempre Cosimo Ferri come uno degli uomini che stavano dando una mano per supportare con adeguate motivazioni legali la strategia per colpire i nemici mediatici del Cavaliere.

Innocenzi riferisce a Lainati tutte le sue mosse. Gli racconta di avere chiamato il direttore generale della Rai Mauro Masi, il consigliere di amministrazione della concessionaria pubblica, Alessio Gorla e di avere comunicato a tutti l’obiettivo: “Bisogna trovare una soluzione per evitare che Santoro faccia il processo Mills”.

Nelle telefonate è citato spesso ma non appare mai il presidente dell’Agcom.

Mentre il suo braccio destro, Roberto Viola, è in contatto continuo con Innocenzi e funge da pontiere tra i due.

Comunque a giudicare dai risultati, tra tutti proprio Giorgio Lainati, si rivelerà il giocatore decisivo della partita.

Alla fine, dopo mille fallimenti e mille lavate di capo del capo ai suoi “killer” pasticcioni e incapaci è stata proprio la commissione di vigilanza a regalare l’assist vincente che ha permesso all’Agcom di segnare il goal.

Il provvedimento firmato dall’Autorità (e annullato dal Tar due giorni fa) che è riuscito a ottenere l’oscuramento di Annozero, Ballarò e delle altre trasmissioni politiche durante la campagna elettorale delle regionali, infatti, è stata l’attuazione di un regolamento approvato dalla Commissione di Vigilanza il 10 febbraio scorso.

Quel regolamento, è stato censurato implicitamente dai giudici amministrativi che non potevano certo annullarlo senza scatenare un conflitto tra potere giudiziario e legislativo.

Ma nella motivazione dell’annullamento dell’atto dell’Agcom è evidente la censura per un regolamento parlamentare che impone di applicare a tutte le trasmissioni preelettorali le severe regole delle tribune.

Non c’è dubbio che il protagonista di quella partita, l’uomo che ha promosso e difeso contro ogni critica il regolamento che imbavaglia gli show politici pubblici lasciando campo libero a quelli privati del suo ex datore di lavoro, è proprio Lainati.

Quando Innocenzi lo chiama dopo l’ennesima trasmissione di Michele Santoro indigesta al Capo, il vicepresidente della commissione parlamentare che dovrebbe garantire l’informazione corretta a tutti i cittadini risponde: “Io faccio il soldato, voi ditemi quello che devo fare e io lo faccio”.

Lainati è il pasdaran della squadretta e morde il freno quando lo chiamano per la battaglia.

È infuriato anche con il Cavaliere che continua a scegliere uomini troppo mosci, come Fabrizio Del Noce o Mauro Masi, che lui chiama Alice nel paese delle meraviglie.

È colpa del presidente del Consiglio che li ha messi in quei posti se la meta non arriva.

E Santoro riesce ad andare in onda.

Dopo la puntata di Annozero sul caso Mills è lui stesso a proporre a Innocenzi: “Facciamo un esposto e vediamo cosa riuscite a farci poi voi dell’Agcom”.

I due organizzano subito un incontro con i parlamentari del centrodestra più vicini.

L’ex sottosegretario alla Giustizia Iole Santelli, oggi membro della commissione di Vigilanza anche lei, risponde alle convocazioni e alle telefonate prontamente.

Ma anche il presidente della commissione parlamentare, Alessio Butti, e il leghista Davide Caparini, a sentire Innocenzi e Lainati, sono d’accordo.

Chissà se è tutto vero quello che dicono al telefono, una cosa è certa, alla fine la commissione di Vigilanza riuscirà nel suo obiettivo



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Dalla Redazione di Uguale per Tutti:
In relazione alla gravità dei fatti riferiti in questo e altri articoli di stampa riportati sul nostro blog, precisiamo che riportiamo questi articoli perché sono notizie di stampa - e dunque già di dominio pubblico - relative a fatti di interesse per chi si occupa di amministrazione della giustizia. Non abbiamo alcun elemento per stabilire se ciò che riferiscono i giornali sia vero o no e in che termini. Riteniamo indispensabile che sulle notizie in questione ci sia il più ampio dibattito.



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“Tv oscena, ho chiamato Calabrò non voglio più vedere Di Pietro”





di Franco Viviano e Giuliano Foschini
(Giornalisti)





da Repubblica.it del 14 marzo 2010


Trani - E’ il 12 novembre del 2009. Su Rai 2 è in onda Annozero, si parla del caso del sottosegretario all’Economia, Nicola Cosentino, per il quale la procura di Napoli ha chiesto l’arresto.

Silvio Berlusconi prende il telefono e chiama il commissario dell’Agcom, Giancarlo Innocenzi: “Ma la stai guardando la trasmissione? - gli dice - È una cosa oscena! Adesso bisogna concertare una vostra azione che sia di stimolo alla Rai per dire: adesso basta, chiudiamo tutto!”.

Il presidente chiude. Poi richiama: “Non si può vedere Di Pietro che fa quella faccia in televisione!” commenta, riferendosi al leader dell’Italia dei Valori ospite di Michele Santoro insieme con il vicepresidente della commissione Antimafia Fabio Granata (Pdl), il direttore di Libero Maurizio Belpietro e il giudice Piercamillo Davigo.

Due giorni dopo Berlusconi richiama Innocenzi.

Quattordici novembre, ore 14,34: “L’altra sera nel corso di Anno Zero ho fatto una telefonata indignata al presidente dell’Authorithy” confessa il premier. Annota la Guardia di Finanza: “Il riferimento è a Corrado Calabrò”. Finanza che ricostruisce anche come Berlusconi non volesse chiudere soltanto Annozero ma anche Ballarò, la trasmissione condotta Giovanni Floris.

Queste conversazioni sono state depositate nei giorni scorsi dalla guardia di Finanza negli uffici della procura di Trani. Dove, partendo da un’indagine per usura sulle carte di credito dell’American Express (la società smentisce di aver fatto mai pressioni sugli organi di informazione come ipotizza la Procura), si è arrivati a intercettare il commissario dell’Agcom e il direttore del Tg1, Augusto Minzolini. E indirettamente anche il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Dall’ascolto delle conversazioni sono emerse le pressioni del premier per chiudere i programmi televisivi a lui non graditi.

Un atteggiamento dietro il quale - sostiene la Procura - si leggerebbe il reato di concussione per il quale tutti e tre i protagonisti della vicenda sarebbero stati indagati.

Ieri l’Ansa, citando fonti giudiziarie, ha però smentito che Minzolini sia indagato.

Dalla Procura non è arrivata alcuna dichiarazione ufficiale e, anzi, per tutto il resto della giornata fonti assai accreditate hanno confermato l’iscrizione del direttore del Tg1, di Berlusconi e di Innocenzi.

Il giallo sarà svelato ufficialmente soltanto la prossima settimana quando - assicurano gli investigatori - verranno depositati i primi atti. E fatte le prime comunicazioni agli indagati.

Tra le persone intercettate dalla procura di Trani ci sono anche una ventina di politici, tra parlamentari e ministri. Anche in questo caso si tratta di intercettazioni indirette: sono state cioè registrate telefonate dei deputati con alcuni degli indagati.

Tra le persone ascoltate c’è il senatore Marcello Dell’Utri, i ministri Giulio Tremonti, Bobo Maroni e Sandro Bondi, i sottosegretari Paolo Bonaiuti, Enrico Letta e Rocco Crimi. Le intercettazioni verranno però distrutte perché non penalmente rilevanti.

Tutte da valutare, invece, le pressioni - delle quali parla il Fatto - che Berlusconi avrebbe fatto su un componente del Csm.

Da domani partirà invece una seconda fase dell’indagine di Trani nella quale gli investigatori proveranno a trovare riscontri a quanto ascoltato nelle intercettazioni telefoniche.

Martedì verrà ascoltato come persona informata sui fatti, Michele Santoro: il giornalista consegnerà nelle mani del magistrato una lettera datata 21 settembre 2009, al centro di alcune intercettazioni telefoniche tra Berlusconi e Innocenzi.

La lettera - sollecitata dal premier - è scritta da Masi, non controfirmata da Calabrò, e serviva a diffidare Santoro a mandare in onda la ricostruzione in tv del processo Mills: la Rai, altrimenti, non avrebbe rischiato una multa pari al 3 per cento del suo fatturato, che è di 90 milioni di euro. Non sarebbe l’unica pressione che Santoro avrebbe subito.

Il conduttore di Annozero (la redazione è pronta a costituirsi parte lesa nel procedimento) consegnerà un dossier ai magistrati che proverebbe altre intimidazioni, come quelle ricevute prima della puntata su Marcello Dell’Utri o Gianpaolo Tarantini.

Quello di Santoro potrebbe non essere l’unico interrogatorio la prossima settimana.

Da ieri il procuratore capo di Trani, Carlo Maria Capristo, ha deciso di affiancare al pm Michele Ruggiero tre altri sostituti: Michele Buquicchio, Ettore Cardinali e Marco D’Agostino. Il pool avrà il compito di stringere i tempi e produrre atti nel più breve tempo possibile. Tra gli elementi da vagliare collegialmente, la possibile richiesta di interdizione per Innocenzi che Ruggiero aveva già preparato e che dovrà essere valutata dal gip, Roberto Oliveri del Castillo.


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Dalla Redazione di Uguale per Tutti:
In relazione alla gravità dei fatti riferiti in questo e altri articoli di stampa riportati sul nostro blog, precisiamo che riportiamo questi articoli perché sono notizie di stampa - e dunque già di dominio pubblico - relative a fatti di interesse per chi si occupa di amministrazione della giustizia. Non abbiamo alcun elemento per stabilire se ciò che riferiscono i giornali sia vero o no e in che termini. Riteniamo indispensabile che sulle notizie in questione ci sia il più ampio dibattito.





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venerdì 12 marzo 2010

Lo scandalo Berlusconi, Minzolini, Innocenzi



di Antonio Massari
(Giornalista)




da Il Fatto Quotidiano del 12 marzo 2010


Un membro dell’Agcom – dopo aver parlato con il premier - sollecitava esposti contro Michele Santoro.

Il direttore del Tg1 Augusto Minzolini – al telefono con il capo del governo – annunciava d’aver preparato speciali da mandare in onda sui giudici politicizzati.

E le loro telefonate sono finite in un fascicolo esplosivo. Berlusconi, Minzolini e il commissario dell’Agcom Giancarlo Innocenzi: sono stati intercettati per settimane dalla Guardia di Finanza di Bari, mentre discutevano della tv pubblica delle sue trasmissioni.

E nel procedimento aperto dalla procura di Trani - per quanto risulta a Il Fatto Quotidiano – risulterebbero ora indagati.

Lo scenario da “mani sulla Rai” vien fuori da un’inchiesta partita da lontano. L’indagine .- condotta dal pm Michele Ruggiero – in origine riguardava alcune carte di credito della American Express.

È stata una “banale” inchiesta sui tassi d’usura, partita oltre un anno fa, ad alzare il velo sui reali rapporti tra Berlusconi, il direttore generale della Rai Mauro Masi (che non risulta tra gli indagati), il direttore del Tg1 e l’Agcom. Quelle carte di credito, in gergo, le chiamavano “revolving card”. Sono marchiate American Express e, secondo l’ipotesi accusatoria, praticano tassi usurai sui debiti in mora. In altre parole: il cliente, che non restituisce il debito nei tempi previsti, rischia di pagare cifre altissime d’interessi.

E così Ruggiero indaga. Per mesi e mesi. Sin dagli inizi del 2009.

Fino a quando una traccia lo porta su un’altra pista. Il pm e la polizia giudiziaria scoprono che qualcuno – probabilmente millantando – è certo di poter circoscrivere la portata dello scandalo: qualcuno avrebbe le conoscenze giuste, all’interno dell’Agcom, che è Garante anche per i consumatori.

Qualcuno vanta – sempre millantando – di avere le chiavi giuste persino al Tg1: è convinto di poter bloccare i servizi giornalistici sull’argomento, intervendo sul suo direttore, Augusto Minzolini.

Le telefonate s’intrecciano. I sospetti crescono. L’inchiesta fa un salto.

E la sorte è bizzarra: Minzolini, il servizio sulle carte di credito revolving, lo manderà in onda. Ma nel frattempo, la Guardia di Finanza scopre la rete di rapporti che gravano sull’Agcom e sulla Rai.

Telefonata dopo telefonata si percepisce il peso di Berlusconi sulle loro condotte. Gli investigatori si accorgono che il presidente del Consiglio è ciclicamente in contatto con il direttore del Tg1.

La procura ascolta in diretta le pressioni del premier sull’Agcom.

Registra la fibrillazione per ogni puntata di Annozero. Sente in diretta le lamentele del premier: il cavaliere non ne può più.

Vuole che Annozero e altri “pollai” - come pubblicamente li chiama lui - siano chiusi.

E l’Agcom deve fare qualcosa. Berlusconi al telefono è esplicito: quando compulsa Innocenzi - che dovrebbe garantire lo Stato, in tema di comunicazione - parla di chiusura.

E Innocenzi non soltanto lo asseconda. Ma cerca di trovare un modo: per sanzionare Santoro e la sua redazione servono degli esposti.

E quindi: si cerca qualcuno che li firmi.

I ruoli si capovolgono: è l’Agcom che cerca qualcuno disposto a firmare l’esposto contro Santoro.

Innocenzi è persino disposto, in un caso, a fornire, all’avvocato di un politico, la consulenza dei propri funzionari.

La catena si rovescia: un membro dell’Agcom (che svolge un ruolo pubblico), intende offrire le competenze dei propri funzionari (pagati con soldi pubblici), a vantaggio di un politico, per poter poi sanzionare Santoro (giornalista del servizio pubblico).

In qualche caso si cerca persino di compulsare, perché presenti un esposto, un generale dei Carabinieri.

L’immagine di Berlusconi che emerge dall’indagine è quella di un capo di governo allergico a ogni forma di critica e libertà d’opinione.

Si lamenta persino della presenza del direttore di Repubblica, Ezio Mauro, a Parla con me: Serena Dandini, peraltro, è recidiva. Ha da poco invitato, come sottolinea il premier, anche il fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari.

Il premier si scompone: nello studio della Dandini, due giornalisti (del calibro di Mauro e Scalfari), l’hanno attaccato.

Chiede se - e come - l’Agcom possa intervenire.

Innocenzi ci ragiona. Sopporta telefonate quotidiane. Berlusconi incalza Innocenzi, ripetutamente, fino al punto di dirgli che l’intera Agcom, visto che non riesce a fermare Santoro, dovrebbe dimettersi.

Il premier intercettato dimostra di non distinguere tra il ruolo dell’Agcom e il suo ruolo di capo del Governo.

Pare che l’Autorità garante debba agire a sua personale garanzia.

Gli sfugge anche che, l’Agcom, può intervenire soltanto dopo, la trasmissione di Annozero. Non prima.

E infatti – dopo aver raccolto lo sfogo telefonico di Innocenzi sulle lamentele di Berlusconi – un giorno, il dg della Rai Mauro Masi, è costretto ad ammettere: certe pressioni non si ascoltano neanche nello Zimbabwe.

Il parossismo, però, si raggiunge a fine anno. Quando Santoro manda in onda due puntate che faranno audience da record e toccano da vicino il premier.

La prima: quella sul processo all’avvocato inglese Mills, all’epoca indagato per corruzione, reato oggi prescritto. La seconda: quella sulla trattativa tra Stato e Cosa Nostra, dove Santoro si soffermerà sulle deposizioni di Spatuzza, in merito ai rapporti tra la mafia e la nascita di Forza Italia.

Non si devono fare, in tv, i processi che si svolgono nelle aule dei tribunali, tuona Berlusconi con il solito Innocenzi.

Secondo il premier – si sfoga Innocenzi con Masi – si potrebbe dire a Santoro che non può parlare del processo Mills in tv.

Non è così che funziona, ribadice Masi. Non funziona così neanche nello Zimbabwe.

Comunque Masi non risparmia le diffide.

Per il presidente della Rai non mancano le occasioni di minacciare la sospensione di Santoro e della sua trasmissione.

A ridosso della trasmissione su Spatuzza, al telefono di Innocenzi, si presenta anche Marcello Dell’Utri.

Tutt’altra musica, invece, quando il premier parla con Minzolini, che Berlusconi chiama direttorissimo.

Sulle vicende palermitane, Minzolini fa sapere di essere pronto a intervenire, se altri dovessero giocare brutti scherzi.

E il giorno dopo, puntuale, arriva il suo editoriale sul Tg1: Spatuzza dice “balle”.

Tutte queste telefonate, confluite ora in un autonomo fascicolo, rispetto a quello di partenza, dovranno essere valutate sotto il profilo giudiziario.

Se esistono dei reati, dovranno essere vagliati, e se costituiscono delle prove, avranno un peso nel procedimento.

È tutto da vedersi e da verificare, ovviamente, ma è un fatto che queste telefonate sono “prove” di regime.

Dimostrano la impercettibile differenza tra i ruoli del controllato e del controllore, del pubblico e del privato.

Le parole di Berlusconi che, mentre è capo del Governo e capo di Mediaset, parla da capo anche a chi non dovrebbe, Giancarlo Innocenzi, dimostrano che viene meno la separazione tra i due poteri.

Altrettanto si può dire delle parole deferenti di Innocenzi che anziché declinare gli inviti esibisce telefonicamente la propria obbedienza e rassicura Berlusconi: presto sarà aperto lo scontro con Santoro.

Dietro le affermazioni sembra delinearsi un piano.

È soltanto un’impressione. Ma il premier sostiene che queste trasmissioni debbano essere chiuse, sì, su stimolo dell’Agcom, ma su azione della Rai.

Tre mesi dopo questi dialoghi, assistiamo alla sospensione di Annozero, Ballarò, Porta a porta e Ultima parola proprio per mano della par condicio Rai, nell’intero ultimo mese di campagna elettorale.

E quindi: la notizia di cronaca giudiziaria è che Berlusconi, Innocenzi e Minzolini, sono coinvolti in un’indagine.

La notizia più interessante, però, è un’altra: il “regime” è stato trascritto.

In migliaia di pagine.

Trasuda dai brogliacci delle intercettazioni telefoniche.

Parla le parole del “presidente”.

Il territorio di conquista è la Rai: il conflitto d’interesse del premier Silvio Berlusconi – grazie a questi atti d’indagine - è oggi un fatto “provato”.

Non è più discutibile.



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A questo link, il video di un interessantissimo dibattito tenutosi nella sede de Il Fatto Quotidiano.






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