domenica 23 maggio 2010

Ciao Giovanni




di Francesco Siciliano
(Avvocato del Foro di Cosenza)




Un lampo di fuoco ha aperto un cratere, molte vite spezzate,
una donna piange al microfono invocando lo stato … lo stato
due macchine accartocciate in mezzo a quel cratere, fumo, idranti
chissà che odore ha il tritolo nelle narici
una folla inferocita tenta di linciare le autorità
le bandiere tricolore avvolgono resti umani
il corso della storia italiana è mutato
chissà se Francesca ha avuto il tempo di capire …………
vedere scorrere il film della propria vita
hanno sventrato un’autostrada lo hanno detto al mondo intero
lacrime di molti visi sconosciuti vi hanno accompagnato
è difficile concepire cosa si prova a tradire
chissà cosa pensavi davanti all’Ergife aspettando e chissà di cosa parlavate poi
in casa di Vito e Stefania c’era un piccolo angelo e si parlava di futuro, cosa sarà mai il futuro
Ti rivedo rigirare i baffi e capisco alla fine quello che è realmente accaduto
Sei sempre vivo e oggi, ormai, un simbolo un esempio una strada da percorrere
L’anzianità non la contano più non so se hai venti anni o quaranta o cosa
Sei soltanto Giovanni Falcone





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Legge bavaglio: Liberi di dire no





di Bruno Tinti
(ex Procuratore della Repubblica Aggiunto di Torino)






da Il Fatto Quotidiano del 23 maggio 2010


Tanti anni fa Sofocle scrisse di Antigone, di suo fratello Polinice, morto in battaglia, della legge emanata dal reggente di Tebe, Creonte, che vietava di seppellirlo: nemico dello Stato, doveva restare preda dei corvi.

Ma Antigone lo seppellì e, processata e condannata, spiegò a Creonte che quella era una legge degli uomini e che però ci sono altre leggi, a queste superiori; e che lei di quelle temeva il giudizio e a quelle aveva obbedito.

Nei miei anni di magistrato ho vissuto spesso questo conflitto; e sono felice di non doverlo vivere ora, chiamato ad applicare una legge vergognosa, emanata da una classe dirigente arrogante e tremebonda, impegnata in una lotta disperata per l’impunità e la sopravvivenza.

Sono felice di essere libero di non rispettare la legge, di poter dire al giudice che mi processerà per aver raccontato ai cittadini i delitti commessi da quelli stessi che vogliono impedirmi di raccontarli, che sì, è vero, ho violato la legge di B, di Alfano, di Ghedini, dei tanti volenterosi protettori di capi e sottocapi colti con le mani nel sacco; ma che questa legge è ingiusta.

Sono felice di poter chiedere al mio giudice di non condannarmi, perché la legge-bavaglio è contraria ai principi della Corte di Giustizia dell’Unione europea.

Sono felice di potergli chiedere il rinvio della legge alla Corte costituzionale perché, ancora una volta, sia evidente il disprezzo di B&C per i principi fondamentali del nostro ordinamento.

Sono felice di poter chiedere alla Corte europea dei diritti dell’uomo, se mai sarà necessario (prima dovrei essere condannato), di dichiarare che questa legge è contraria alla Carta dei Diritti.

E, alla fine, sarò felice anche se fossi condannato; perché con me saranno condannati centinaia di giornalisti, di direttori, di editori.

E sarà questa la prova più evidente di quella verità ostinatamente negata da B&C anche dopo la pubblicazione (la pubblicazione, vedete?) delle intercettazioni di Trani, quando B. spiegava che a lui (a lui) non piaceva Annozero e che quindi nessuno (nessuno) avrebbe più dovuto vedere questa trasmissione: è una dittatura quella in cui Antigone deve ancora scegliere tra leggi dello Stato e leggi a queste superiori.

Forse da qui inizierà il cambiamento.



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mercoledì 19 maggio 2010

Così bloccarono le inchieste di Luigi De Magistris


Riportiamo dal sito di Micromega la Prefazione di Marco Travaglio del libro di Luigi de Magistris Assalto al P.M.. Storia di un cattivo magistrato, edito da Chiarelettere e in libreria da pochi giorni.



di Marco Travaglio
(Giornalista)




Ho conosciuto Luigi de Magistris otto anni fa, nel maggio 2002, quando mi invitò a un convegno che aveva organizzato a Napoli insieme ad altri giovani pubblici ministeri della sua città. In quel convegno c’era già tutto Luigi, fin dal titolo: «Le forme del dissenso tra riformismo e globalizzazione».

L’iniziativa suscitò polemiche ancor prima di svolgersi.

Sia perché a promuoverla erano fra gli altri Francesco Cascini e Marco Del Gaudio, che poco tempo prima avevano fatto arrestare otto agenti di polizia per le violenze commesse contro decine di giovani no-global al Social Forum di Napoli 2001, triste prova generale della mattanza del G8 di Genova del luglio successivo. Sia perché i magistrati promotori avevano firmato un «Manifesto per la Giustizia» che definiva la magistratura «il luogo privilegiato di emersione del conflitto tra l’affermazione di una società unilaterale e lo Stato di diritto»: un conflitto tra autorità e libertà che «può risolversi unicamente nella mediazione imparziale di un organo indipendente».

Quel giorno Luciano Violante, allora capogruppo Ds alla Camera, gettò definitivamente la maschera bacchettando i magistrati organizzatori: «Mi sembra un manifesto in parte infondato e in parte demagogico; credo che si abbia il pieno diritto di scrivere certe cose, ma poi si deve essere pronti a essere criticati. Considerare la magistratura come unico e ultimo argine della democrazia è un errore assai grave. Considerare se stessi come ultimo ridotto della democrazia significa innanzitutto fare un’analisi sbagliata della società e, secondo, caricare se stessi di responsabilità che non si possono rivestire proprio in quanto magistrati: sono due aspetti assai delicati e si rischia così di non essere credibili agli occhi dell’opinione pubblica quando si fanno affermazioni di questo genere».

Per fortuna a rimettere le cose a posto sul diritto-dovere dei magistrati di partecipare al dibattito giuridico e costituzionale, intervennero poi due persone serie come Armando Spataro e Piercamillo Davigo.
Un paio d’anni dopo, de Magistris si trasferì a Catanzaro, una delle sedi giudiziarie meno appetibili e appetite dai magistrati italiani. E affrontò subito con entusiasmo la nuova avventura in Calabria, terra d’origine di sua moglie: l’entusiasmo di un figlio del Sud che discende da una famiglia di magistrati (lo erano il bisnonno, il nonno e il papà, quest’ultimo autore della memorabile sentenza sul «caso Cirillo»). La prima indagine importante in cui fu coinvolto dai suoi capi, prima di capire chi davvero fossero, colpì due persone che conoscevo e ritenevo perbene: l’avvocato Ugo Colonna e l’onorevole Angela Napoli, dissidente di An, entrambi combattenti dell’antimafia. Il primo finì addirittura in carcere per violenza e minaccia a corpo giudiziario aggravate dalla volontà di favorire la ‘ndrangheta; la seconda «soltanto» indagata con la stessa accusa.

Scrissi su «MicroMega» un duro articolo che smontava quell’inchiesta, dalla quale ben presto sia Colonna sia la Napoli furono completamente prosciolti.
Qualche mese dopo, dovendo verificare la posizione processuale di un parlamentare del centrodestra per un libro che stavo scrivendo, telefonai a de Magistris in ufficio. Ma, alla mia domanda, mi attaccò il telefono in faccia. Tant’è che nel 2006, quando partì la campagna politico-mediatica che mirava a dipingerlo come un magistrato che passava notizie segrete alla stampa, gli mandai un sms scherzoso:
«Possibile che passi notizie segrete a tutti e, a me che ti chiedevo una notizia pubblica sull’onorevole Tizio, hai sbattuto la cornetta sul muso?». Erano i mesi caldi delle inchieste
«Poseidone», «Toghe lucane» e «Why not» e delle furibonde polemiche montate dopo l’iscrizione nel registro degli indagati dell’allora premier Romano Prodi, di vari faccendieri calabresi, magistrati lucani, parlamentari di destra e di sinistra e infine dell’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella. Fui tra i pochi giornalisti, insieme a Carlo Vulpio, Antonio Massari, Enrico Fierro e Franco Viviano, a difendere il lavoro di de Magistris sulla stampa nazionale (allora scrivevo su «l’Unità» e su «L’espresso» e già collaboravo con Annozero).

Luigi ogni tanto mi ringraziava per i miei articoli con sms dolenti, ma mai rassegnati, sempre sereni e determinati. Era convinto che la Costituzione sarebbe bastata a proteggere la sua indipendenza, il suo diritto-dovere di indagare fino in fondo, dalla voglia matta di destra e sinistra di farlo fuori. Si sbagliava, purtroppo. Isolato quando non addirittura attaccato dall’Anm, cioè dal sindacato togato che avrebbe dovuto difenderlo, ignorato dalle varie correnti progressiste e conservatrici della magistratura (forse perché non si era più iscritto alla fu Magistratura democratica), de Magistris fu difeso pubblicamente soltanto da Clementina Forleo, da Antonio Ingroia, da Felice Lima, da Piercamillo Davigo e da un pugno di colleghi napoletani (fra cui Marco Del Gaudio e Pino Narducci).

Michele Santoro e Sandro Ruotolo lo invitarono a partecipare ad Annozero, una volta con un’intervista registrata e un’altra in collegamento diretto, quando i suoi superiori gli sfilarono dalle mani prima «Poseidone» e poi «Why not», anticipando così la controriforma dell’ordinamento giudiziario Mastella-Castelli, iniziata dal centrodestra e sciaguratamente approvata dal centrosinistra: quella che gerarchizza le procure, espropria i sostituti procuratori del potere d’indagine «diffuso» e conferisce ai capi degli uffici poteri di vita e di morte sulle indagini. Controriforma che consentì subito dopo a Mastella di chiedere, in via cautelare e dunque urgentissima, la rimozione di de Magistris da Catanzaro. Richiesta poi prontamente esaudita, con un altro fulmineo procedimento avviato dal procuratore generale della Cassazione, dal peggiore Csm che l’Italia abbiamai avuto. Quello in cui siedono molti consiglieri in palese conflitto d’interessi, per i loro legami con indagati eccellenti di de Magistris, oltre alla «laica» nominata dal Pdci Letizia Vacca, che si permise addirittura di anticipare il giudizio («sono cattivi magistrati che vanno colpiti») su Luigi e sulla Forleo, la gip di Milano che aveva osato difendere pubblicamente il collega nel programma di Santoro, e che fu anch’essa indebitamente cacciata.

Alla fine la sezione disciplinare del Csm punì Luigi con la «censura» e con il «trasferimento ad altra sede e ad altre funzioni», vietandogli cioè di esercitare il ruolo di pm. La censura era motivata con la «grave e inescusabile violazione di norme e disposizioni». L’incompatibilità ambientale era spiegata col fatto che de Magistris aveva denunciato «magistrati in servizio a Catanzaro in uffici diversi». L’incompatibilità funzionale, infine, era dovuta al mancato «rispetto di regole di particolare rilievo» nonché alle «insufficienti diligenza, correttezza e rispetto della dignità delle persone». La lettura delle motivazioni del provvedimento, costellate di assurdità, illogicità e financo menzogne, dava la netta impressione che prima si fosse deciso di condannare de Magistris «a prescindere», poi si fosse cercato «qualcosa» per giustificare la decisione già presa. Del resto l’anticipazione di giudizio della Vacca e la dichiarazione del vicepresidente Nicola Mancino (presidente della Disciplinare) che, violando il segreto della camera di consiglio, parlò di «verdetto unanime», gettavano sulla vicenda altre pesanti ombre. Così come la decisione della Disciplinare di non attendere la conclusione delle indagini della Procura di Salerno, dove de Magistris aveva denunciato gli autori del presunto complotto ai suoi danni e dove quel complotto era ormai sul punto di essere provato (l’aveva appena rivelato allo stesso Csm il pm salernitano Gabriella Nuzzi).

Vorrei qui riportare, in sintesi, le tre «incolpazioni» che hanno portato alla condanna di de Magistris, sulle circa venti, mosse dal pg della Cassazione (per tutte le altre – fughe di notizie, interviste, Annozero eccetera – è scattata l’assoluzione)

1) De Magistris non avvertì il suo procuratore Mariano Lombardi di aver iscritto nel registro degli indagati l’avvocato e onorevole forzista Giancarlo Pittelli nell’inchiesta «Poseidone», secretando in cassaforte l’atto di iscrizione. Ma Pittelli non era un indagato normale, né Lombardi un procuratore normale. Lombardi infatti ha un figliastro (figlio della sua convivente) che è socio in affari di Pittelli. E Pittelli era il difensore di diversi indagati da de Magistris. Il quale aveva motivo di ritenere – come ha denunciato a Salerno – che certe fughe di notizie che avevano vanificato intercettazioni e perquisizioni provenissero proprio dal suo capo. Insomma si trovava in una situazione inedita e non prevista dalle leggi: avrebbe dovuto riferire a un procuratore legato a filo doppio a un suo indagato. Per questo – per proteggere il bene supremo della riservatezza delle indagini – Luigi aveva deciso di non informarlo, temendo che Pittelli venisse a sapere di essere indagato e mandasse a monte l’inchiesta. Infatti, appena Lombardi seppe che Pittelli era stato indagato, levò l’indagine a de Magistris. Ma, anziché occuparsi di Lombardi (che ha traslocato in altra sede prima del processo disciplinare), il Csm ha trasferito de Magistris.

2) Nell’ordine di perquisizione a carico del pg di Potenza Vincenzo Tufano, indagato per abuso d’ufficio nell’inchiesta «Toghe lucane», de Magistris inserisce la testimonianza del gip potentino Alberto Iannuzzi, che accusa il pg di aver chiuso gli occhi sul fatto che un giudice del tribunale presiedeva un processo in cui, a sostenere l’accusa, era una pm che – secondo voci insistenti – era anche la sua fidanzata. Con tanti saluti alla terzietà del giudice e con tanti auguri all’imputato. De Magistris – scrive il Csm – «non ha indicato elementi di riscontro» alle parole di Iannuzzi.
Dunque ha arrecato «danno» e «discredito» a Tufano. Una «negligenza» così «grave e inescusabile» da consentire al Csm di sindacare sul merito di un provvedimento giurisdizionale, cosa che per legge sarebbe vietata. Ora, fermo restando che siamo nel terreno dell’opinabilità più sfrenata, è del tutto fisiologico che durante le indagini si formulino ipotesi di accusa che proprio le indagini (e le perquisizioni) sono chiamate a confermare o smentire. Se tutti i pm che accusano un indagato fossero trasferiti per averlo screditato, non avremmo più un solo pm in circolazione. Pretendere che il pm parli bene dei propri indagati è forse un po’ eccessivo. Infatti l’unico che s’è visto contestare un’accusa così demenziale è de Magistris. Tufano e i due eventuali fidanzati sono rimasti ovviamente al loro posto.

3) De Magistris, «con inescusabile negligenza, dopo l’emissione ed esecuzione nei confronti di 26 indagati di un provvedimento di fermo, ometteva di richiederne la convalida al gip, determinando la conseguente dichiarazione di inefficacia da parte del gip». E qui, dall’illogicità, si passa alle bugie. Nel maggio 2005 de Magistris chiede una raffica di misure cautelari per ventisei presunti mafiosi e narcotrafficanti. Ma il gip ci dorme sopra un anno e si perde il fascicolo per strada. Intanto gli indagati rimasti liberi seguitano a delinquere: uno tenta addirittura un omicidio.
Vista l’inerzia del gip, nel giugno 2006 la polizia chiede a de Magistris di emettere un provvedimento di «fermo del pm» per tutti gli indagati. Lui lo firma insieme a Lombardi il 23 giugno. Il 12 luglio scattano gli arresti per ottanta persone in varie parti d’Italia. Due giorni dopo – come vuole la legge – de Magistris chiede ai gip delle varie città interessate la convalida dei fermi e altrettante misure cautelari. E qui commette una svista, puramente formale e innocua, dovuta – spiegherà lui, invano, al Csm – agli enormi carichi di lavoro: in calce alla richiesta dimentica di inserire la formula di rito «chiedo la convalida del fermo» e scrive soltanto che vuole la custodia cautelare. Ma è evidente che il provvedimento è finalizzato anche alla convalida dei fermi (visto che arriva entro quarantotto ore dai fermi e le richieste cautelari riposano in pace sul tavolo del gip da un anno). Tant’è che i gip delle altre sedi capiscono tutti al volo: convalidano i fermi e lasciano gli arrestati in carcere. Solo il gip di Catanzaro non capisce, o finge di non capire, e scarcera i fermati. Il tutto sebbene de Magistris – accortosi della svista – abbia subito inviato una nota in cui precisa di volere la convalida.
Il pm emette un nuovo fermo per evitare la scarcerazione di quei pericolosi individui, poi richiede convalida e manette, stavolta con la formula di rito. Ma il gip respinge la richiesta e rimette quasi tutti in libertà. De Magistris ricorre al Riesame, che gli dà ragione su tutto, bocciando il gip e rimettendo dentro i tipi in questione. Per il pg della Cassazione e per il Csm, questa sarebbe una «grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile» da parte di de Magistris (non da parte del gip che lascia liberi per un anno e poi scarcera soggetti pericolosissimi fermati due volte dal pm). Secondo il Csm, il gip di Catanzaro non poteva capire l’intenzione del pm perché «il deposito del provvedimento del fermo non comportava necessariamente la richiesta della sua convalida, potendo il pm anche disporre l’immediata liberazione del fermato e omettere la richiesta di convalida». Già: ma qui de Magistris non voleva la liberazione, tant’è che chiedeva (da un anno!) le misure cautelari. Se uno vuole scarcerare un fermato, non chiede di arrestarlo. Infatti tutti i gip d’Italia hanno convalidato i fermi, tranne quello di Catanzaro. Se errore c’è stato, non è affatto «grave», almeno da parte del pm: perché, per tener dentro quei soggetti, bastava che il gip negasse la convalida dei fermi, ma applicasse le misure cautelari esplicitamente richieste dal pm. Se invece il pm non si fosse sbagliato e avesse chiesto anche la convalida del fermo, e il gip l’avesse accolta negando – come ha fatto – le misure cautelari, i soggetti sarebbero usciti comunque (il fermo dura quarantotto ore, che erano già scadute). Cosa che infatti è avvenuta con il secondo fermo e la seconda richiesta di de Magistris, respinta dal gip poi sbugiardato dal Riesame.
Dunque, se c’è un errore grave, è quello del gip (che però non è stato nemmeno indagato dal pg della Cassazione né dal Csm). Pare il teatro dell’assurdo, ma è per questo che de Magistris viene condannato, trasferito e inibito per sempre dalle funzioni di pm.
Non basta. La stessa Disciplinare del Csm pareva rendersi conto dell’assurdità dell’addebito e, pur di rafforzare la «gravità» della «colpa», prendeva a pugni la logica e il buonsenso con il seguente paralogismo: «La qualificazione “grave” va posta in relazione sia all’importanza della norma violata sia al carattere evidente, indiscutibile dell’errore, come tale necessariamente conseguenza di “negligenza inescusabile”». Par di sognare: un errore innocuo e irrilevante diventa «grave» solo perché «evidente». Se il giudice Mario Rossi si distrae e firma una sentenza «Franco Rossi», l’errore è «evidente e indiscutibile» e viola la norma «importante» che prevede la riconoscibilità del giudice. È pure grave e inescusabile? Anche Mario Rossi sarà condannato? Al confronto, l’avvocato Azzeccagarbugli era un dilettante.

Ultima delizia. La «colpa» di de Magistris sarebbe «grave e inescusabile» anche perché il procuratore Lombardi ha dichiarato al Csm che de Magistris riconobbe l’errore: e Lombardi «è credibile in quanto anch’egli firmatario dei provvedimenti di fermo e di richiesta custodiale». Paradosso dei paradossi. Una cosa è grave se è grave. Se invece è irrilevante, non può diventare grave perché lo dice qualcuno, tra l’altro coinvolto personalmente (Lombardi è stato denunciato da de Magistris e perciò indagato a Salerno). E poi: se Lombardi è «anch’egli firmatario del provvedimento» ritenuto grave e inescusabile, perché è stato condannato solo de Magistris e Lombardi non è stato nemmeno processato? Pare di essere al cabaret, invece siamo al Csm, ridottosi ad acronimo di Ciechi Sordi Muti.

In attesa di prendere possesso delle sue nuove funzioni nella sede dov’è stato trasferito, il Tribunale del riesame di Napoli, de Magistris completa il suo lavoro a Catanzaro e prepara le richieste di rinvio a giudizio dell’ultima grande inchiesta rimastagli fra le mani, quella sulle «Toghe lucane» (fra gli indagati c’è pure il pm di Potenza Felicia Genovese, celebre fra l’altro per aver indagato così bene sulla scomparsa di Elisa Claps). Ma, mentre sta scrivendo, il nuovo guardasigilli, il berlusconiano Angelino Alfano, gli intima di prendere possesso immediato, dunque anticipato, a Napoli. Così gli impedisce di portare a termine anche l’unica inchiesta che non gli era stata tolta.

L’epilogo della storia l’aveva previsto già nel 2006, con la sinistra lungimiranza di un Nostradamus malandrino, uno dei «clienti» più illustri di de Magistris: Giuseppe Chiaravalloti, ex magistrato, ex governatore forzista della Calabria, indagato in quel momento a Catanzaro per associazione per delinquere nell’inchiesta «Poseidone» (poi il nuovo pm opterà per l’archiviazione) e tutt’oggi sotto inchiesta a Salerno per corruzione giudiziaria e minacce. In una telefonata intercettata nel 2005 con la sua segretaria, Chiaravalloti così parlava di de Magistris: «Questa gliela facciamo pagare... Lo dobbiamo ammazzare. No, gli facciamo cause civili per danni e ne affidiamo la gestione alla camorra napoletana... Saprà con chi ha a che fare... C’è quella sorta di principio di Archimede: a ogni azione corrisponde una reazione... Siamo così tanti ad avere subìto l’azione che, quando esploderà, la reazione sarà adeguata!... Vedrai, passerà gli anni suoi a difendersi...».

Le indagini di de Magistris, passate in altre mani, verranno smembrate, sminuzzate, sfigurate e in parte, secondo l’accusa sostenuta dalla Procura di Salerno, insabbiate dai magistrati che le ereditano. Gli imputati eccellenti verranno archiviati l’uno dopo l’altro, mentre saranno rinviati a giudizio perlopiù i pesci piccoli e medi. Intanto anche i pm di Salerno – Luigi Apicella, Gabriella Nuzzi e Dionigio Verasani – che stanno scoprendo le ragioni di Luigi e i torti (per non dire i reati) dei suoi superiori e di molti suoi colleghi vengono a loro volta attaccati da destra e da sinistra, isolati dall’Anm e puniti fulmineamente dal Csm, con la fattiva collaborazione del capo dello Stato (Nuzzi e Verasani trasferiti e inibiti dalle funzioni di pm, Apicella addirittura destituito, con la scusa di una inesistente «guerra fra procure» tra Salerno e Catanzaro).

Missione compiuta: nessuno deve più avvicinarsi alla fogna politico-affaristico-giudiziaria calabro-lucana. Chi tocca quei fili muore, almeno professionalmente. Ne sanno qualcosa non solo de Magistris, Forleo, Apicella, Nuzzi e Verasani; ma anche i magistrati onesti di Potenza che hanno denunciato i loro superiori a Catanzaro (Henry Woodcock, Alberto Iannuzzi, Rocco Pavese e Vincenzo Montemurro, trascinati dinanzi al Csm e in alcuni casi puniti); e ancora i consulenti Gioacchino Genchi e Piero Sagona, defenestrati dalle indagini; così come il capitano dei Carabinieri Pasquale Zacheo, trasferito dall’Arma ad altra sede; e l’inviato del «Corriere della Sera» Carlo Vulpio, che aveva seguito puntigliosamente le indagini di de Magistris e che, da allora, non ha più potuto scrivere una riga sul suo giornale. Come nel romanzo “Dieci piccoli indiani” di Agatha Christie, chiunque si sia avvicinato al verminaio catanzarese è inesorabilmente caduto.

Intanto, a mano a mano che si susseguono le archiviazioni e le assoluzioni degli indagati eccellenti delle indagini scippate a de Magistris, la stampa e le tv di regime si divertono a spacciarle per altrettanti «fallimenti» dell’ex pm, dipinto come un visionario, un incapace, un fabbricante di «teoremi». Purtroppo non sappiamo né potremo mai sapere come sarebbero finite quelle indagini se non gli fossero state scippate sul più bello. Nessuno potrà mai stabilire se fossero fondate su elementi solidi e concreti o su fumisterie persecutorie, perché nessuna di esse è stata portata a termine dal pm che le aveva iniziate, e dunque tutto quel che è accaduto dopo non lo riguarda. Ma è improbabile che i suoi indagati eccellenti fossero tanto ansiosi di liberarsi del magistrato che indagava su di loro, se erano così sicuri della propria innocenza e della sua manifesta incapacità: in quel caso avrebbero avuto tutto l’interesse a lasciargli completare il suo lavoro, così che venisse smentito dai giudici, quelli «buoni», quelli che restano a piè fermo in Calabria, quelli che – statistiche alla mano – non hanno mai fatto condannare nessuno per corruzione o concussione. Insomma quelli che hanno trasformato la regione più inquinata d’Italia in una sorta di Eden incontaminato, con statistiche penali da far invidia alla Scandinavia. Quelli di cui non s’interesserà mai nessun politico, nessun ministro e nessun Csm. Invece la preoccupazione generale era proprio quella di impedirgli di andare fino in fondo nelle sue indagini, onde evitare che centrassero l’obiettivo.

Le iniziative di pm pazzi o inetti o visionari s’infrangono regolarmente contro il muro dei gip e dei gup, dei riesami, dei tribunali, delle corti d’appello, della Cassazione.
Qui, invece, la coscienza sporca degli indagati eccellenti aveva intuito che, con quel pm al lavoro, le cose potevano mettersi molto male. Espulso come corpo estraneo il disturbatore de Magistris, la classe dirigente calabrese può tornare alla serenità di sempre, ben protetta da una magistratura che, salvo rarissime eccezioni, non ha il brutto vizio di disturbare.

È bene che queste cose gli italiani le sappiano e non le dimentichino mai. Soprattutto ora che, non potendo più fare il mestiere che reputa il più bello del mondo, quello del pubblico ministero, Luigi de Magistris si è dato alla politica ed è stato eletto europarlamentare nelle liste dell’Italia dei valori. Naturalmente gli hanno subito rinfacciato di avere sfruttato la sua notorietà per fare politica, come lo rinfacciarono a Michele Santoro nel 2005, quando dopo tre anni di inattività forzata per l’editto bulgaro, non potendo più fare il suo mestiere di giornalista televisivo, si candidò alle Europee come indipendente nelle liste dell’Ulivo. È fin troppo evidente che né a de Magistris né a Santoro sarebbe mai venuto in mente di darsi alla politica, se avessero potuto seguitare a fare i mestieri a cui erano vocati. E le loro vicende, per molti versi simili e parallele, dovrebbero sollevare un dibattito serio su quanto è avvenuto nella Seconda Repubblica dei partiti che da sedici anni combattono i poteri terzi, i ruoli di controllo, le funzioni arbitrali. E spesso riescono a rendere la vita difficile, se non impossibile, a chi non si rassegna al ruolo di impiegato, non si accasa, non si mette al servizio di nessuno.

Per questo il libro “Assalto al pm” di de Magistris è utile.
Non perché racconti la vita di un santo (il protagonista, come tutti gli esseri umani, ha commesso i suoi errori, ha avuto le sue debolezze, ha tradito le sue ingenuità e, fatta salva la buona fede, non ne ha mai fatto mistero). Ma perché racconta una parabola che non è un caso isolato, un fungo spuntato nel deserto, ma l’ennesimo sintomo del male incurabile che corrode il paese: la guerra senza quartiere dei poteri forti e sempre meno occulti alle figure terze, agli irregolari, ai non omologati; la quotidiana potatura delle siepi per segare le punte che emergono dal conformismo, dal servilismo e dalla mediocrità al ribasso.

Non si tratta di una serie di casi individuali, perché il virus colpisce tutti i cittadini: sono loro le vere vittime di questo sistema. Basti pensare all’oggetto dell’inchiesta «Poseidone», da cui tutto è cominciato: 800 milioni di euro spesi in Calabria in dieci anni per depurare le acque del mare, soldi pubblici (statali, regionali ed europei) in gran parte rubati da politici, affaristi e «prenditori» (definizione di Pippo Callipo) senza scrupoli, col risultato che le acque della Calabria sono più sporche di prima e mettono in fuga l’unica risorsa che potrebbe risollevare la regione dalla sua cronica depressione: i turisti. Risultato: la classe dirigente che ha partecipato a quella gigantesca ruberia è sempre al suo posto, mentre il magistrato che aveva osato trascinarla sul banco degli imputati ha dovuto andarsene.

La presenza nella magistratura e nell’informazione di personalità forti, anticonformiste, controcorrente è una fortuna, una garanzia, una risorsa preziosa. Non averle è un danno per tutti. Più si accorciano le distanze fra destra e sinistra verso il partito unico degli affari e dei malaffari,verso la casta unica dei giornalisti servi, verso la corporazione togata forte coi deboli e debole coi forti, più l’esistenza di individualità riottose agli ordini dei manovratori e obbedienti soltanto alla Costituzione è un formidabile antidoto al regime.

De Magistris la sua battaglia all’interno della magistratura l’ha irrimediabilmente perduta. Ma l’accoglienza che gli ha riservato Antonio Di Pietro nelle sue liste, la valanga di voti soprattutto giovani che l’ha portato a Bruxelles e il patrimonio di stima, simpatia e credibilità che ha saputo conquistarsi sono comunque motivi di speranza. Sia per quello che Luigi potrà fare nel suo nuovo ruolo di presidente della commissione di controllo sui fondi europei, sia perché la sua esperienza è un deterrente contro nuovi «casi de Magistris»: prima di cacciare un altro magistrato perbene solo perché si è permesso di indagare a destra e a sinistra senza chiedere il permesso alla destra e alla sinistra, il partito dell’impunità ci penserà bene. Perché, a partire dal «caso de Magistris», sa che non potrà farlo a costo zero, nelle segrete stanze, lontano da occhi indiscreti dell’opinione pubblica. A patto che il «caso de Magistris» sia conosciuto e ricordato da tutti.




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G8 di Genova: condannati i vertici della polizia

Diaz, condannati i vertici della polizia. L’appello ribalta sentenza di primo grado.

Condanne per un totale di 85 anni di carcere a 25 dei 27 imputati. Tra loro tutti i massimi esponenti delle forze dell’ordine. Nel primo grado di giudizio, nel 2008, erano stati assolti in 16.



da Repubblica.it del 18 maggio 2010


Genova - I giudici della Terza sezione della Corte d’Appello di Genova hanno ribaltato la sentenza di primo grado per i disordini e l’irruzione alla scuola Diaz del luglio 2001 a Genova. Tutti i vertici della polizia che erano stati assolti hanno subito condanne comprese tra 3 anni e 8 mesi e 4 anni unitamente all’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni. Nel complesso le pene superano gli 85 anni. In totale sono stati condannati 25 imputati sui 27.

Il capo dell’anticrimine Francesco Gratteri è stato condannato a quattro anni, l’ex comandante del primo reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini a cinque anni, l’ex vicedirettore dell’Ucigos Giovanni Luperi (oggi all’Agenzia per le informazioni e la sicurezza interna) a quattro anni, l’ex dirigente della Digos di Genova Spartaco Mortola (ora vicequestore vicario a Torino) a tre anni e otto mesi, l’ex vicecapo dello Sco Gilberto Caldarozzi a tre anni e otto mesi.

Altri due dirigenti della Polizia, Pietro Troiani e Michele Burgio, accusati di aver portato le molotov nella scuola, sono stati condannati a tre anni e nove mesi.

Non sono stati dichiarati prescritti i falsi ideologici e alcuni episodi di lesioni gravi.

Sono invece stati dichiarati prescritti i reati di lesioni lievi, calunnie e arresti illegali.

Per i 13 poliziotti condannati in primo grado le pene sono state inasprite.

Il procuratore generale, Pio Macchiavello, aveva chiesto oltre 110 anni di reclusione per i 27 imputati.

In primo grado furono condannati 13 imputati e ne furono assolti 16, tutti i vertici della catena di comando.

I pubblici ministeri Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini avevano chiesto in primo grado 29 condanne per un ammontare complessivo di 109 anni e nove mesi di carcere.

In primo grado furono assolti Francesco Gratteri, ex direttore dello Sco e oggi capo dell’Antiterrorismo, Giovanni Luperi; Gilberto Caldarozzi e Spartaco Mortola.




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venerdì 7 maggio 2010

Tutela della libertà di corrispondenza nell'era di internet: anno zero?




di Nicola Saracino
(Magistrato)



Questo è un blog e tutti i testi in esso contenuti sono, per scelta dei dialoganti, pubblici.

Tale strumento, relativamente nuovo, serve il diritto di manifestare e diffondere il proprio pensiero (art. 21 Cost.).

L’avvento di internet e delle tecnologie ad esso collegate mettono a disposizione altri strumenti utili alla comunicazione delle persone, come le mailing list.

Al pari dei frequentatori di un blog, anche gli aderenti ad una mailing list intendono comunicare tra loro, ma non pubblicamente giacché i loro messaggi sono destinati ai soli iscritti.

La mailing list è cioè al servizio di un’altra libertà costituzionale, quella della corrispondenza “privata” (art. 15 Cost.) la cui segretezza è funzionale alla stessa possibilità di comunicare riservatamente, senza cioè che persone diverse dal destinatario (o dai destinatari) possano lecitamente conoscere il contenuto delle comunicazioni.

E’, questa, una libertà fondamentale pacificamente inclusa nel catalogo dei diritti inviolabili dell’uomo (art. 2 Cost.).

L’attuale dibattito politico si muove intorno al problema delle intercettazioni delle conversazioni (telefoniche oppure no) ed annuncia limiti ancor più restrittivi di quelli già operanti.

E’ a tutti noto che la possibilità di intercettare le comunicazioni personali è oggi confinata ai reati più gravi, che destano maggiore allarme sociale. Il Legislatore ha cioè ammesso il sacrificio di questa libertà fondamentale solo a fronte di un interesse preponderante qual è l’accertamento dei più gravi delitti.

Se la segretezza delle comunicazioni mentre esse sono in corso esige – secondo parte dell’opinione pubblica – una tutela ancor maggiore di quella attualmente assicurata, in pochi si pongono il problema della tutela della segretezza delle comunicazioni già avvenute, in relazione alle quali parrebbe molto più estesa la possibilità di apprenderne il contenuto.

E’, a questo punto, persino intuitivo che la segretezza accordata dall’art. 15 Cost. non avrebbe alcun senso se la sua tutela venisse limitata nel tempo; se, cioè, la protezione della segretezza terminasse subito dopo la conversazione, saremmo al cospetto di una finta libertà.

In altri termini occorre verificare se appaia giustificata una diversa disciplina tra l’intercettazione di una conversazione mentre essa avviene e quella della apprensione del contenuto di conversazioni già avvenute.

Un primo indizio normativo di sicura importanza lo si rintraccia nella stessa Carta e precisamente nel terzo comma dell’art. 68 Cost. che, nel rafforzare la tutela posta a presidio dei parlamentari, parifica alle conversazioni in atto quelle già avvenute e consegnate ad uno strumento, ad un supporto che ne consenta materialmente la successiva conoscibilità: l’autorizzazione della Camera di appartenenza risulta, invero, indispensabile non solo per intercettare un parlamentare, ma anche per sequestrarne la corrispondenza. La ragione di questa equiparazione è ovvia, non avendo senso alcuno proteggere la segretezza di una conversazione se la si limita al momento in cui essa è in atto; se fosse possibile, subito dopo, apprenderne i contenuti tanto varrebbe consentirne l’intercettazione.

Anche sul piano della legislazione ordinaria la tutela penale apprestata per la violazione della libertà fondamentale sancita dall’art. 15 Cost. appare coerente, risultando punite con pene piuttosto gravi sia l’intercettazione abusiva, sia l’indebita conoscenza e rivelazione del contenuto della corrispondenza, a prescindere dal mezzo in concreto impiegato per comunicare (artt. 616 e ss. c.p.).

E’ sul piano della tutela processuale penale del segreto delle comunicazioni e della corrispondenza che, invece, potrebbero scorgersi disarmonie tra tutele apparentemente diversificate.

Se, infatti, l’intercettazione di una comunicazione o conversazione in atto risulta assoggettata ai rigorosi limiti posti dalla disciplina delle intercettazioni (art. 266 e ss. c.p.p.), l’apprensione del contenuto delle comunicazioni o conversazioni già avvenute potrebbe apparire, ad una lettura non accorta delle norme, consentita entro limiti smisuratamente ed irragionevolmente più ampi (art. 254 c.p.p.).

Per quanto sin qui detto, ad evitare il naufragio di un diritto fondamentale come quello alla corrispondenza, soccorre l’interpretazione sistematica: se privato del carattere della segretezza, infatti, il diritto alla corrispondenza dismetterebbe, all’unisono, anche quello della libertà.

Questo il tenore letterale del primo comma dell’art. 254 c.p.p.: “Presso coloro che forniscono servizi postali, telegrafici, telematici o di telecomunicazioni è consentito procedere al sequestro di lettere, pieghi, pacchi, valori, telegrammi e altri oggetti di corrispondenza, anche se inoltrati per via telematica, che l’autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere spediti dall’imputato o a lui diretti, anche sotto nome diverso o per mezzo di persona diversa, o che comunque possono avere relazione con il reato”.

E’ d’immediata percezione che solo trascurando il valore che uno Stato liberale assegna alla segretezza delle comunicazioni private potrebbe ammettersi la generalizzata possibilità di intrusione nella corrispondenza personale, per accertare anche la più banale delle contravvenzioni.

Se, allora, si vuole restituire logica al sistema, la “relazione con il reato” (art. 254 c.p.p.), giustificante l’apprensione forzata del contenuto delle comunicazioni, non introduce una generalizzata sequestrabilità della corrispondenza privata ad opera dell’autorità giudiziaria, ma va intesa come relazione con uno di quegli stessi reati catalogati nell’art. 266 c.p.p. per i quali è ammessa l’intercettazione delle comunicazioni o delle conversazioni.

Residuano, pur dopo tale interpretazione adeguatrice, diversità di procedura tra le due ipotesi, dato che il sequestro è operabile dal pubblico ministero senza la preventiva autorizzazione del giudice per le indagini preliminari, autorizzazione espressamente richiesta solo per intercettare.

E’ auspicabile, in tale quadro, che un Legislatore saggio, senza bandire dall’ordinamento uno strumento d’indagine utile come quello delle intercettazioni, si ponga il problema di garantire analoga tutela procedimentale anche alle comunicazioni già avvenute, affidando ad un giudice il compito di “vegliare” sulla loro segretezza.



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Giurista per caso: La difesa della Costituzione e la nuova legge sulle intercettazioni.




di Francesco Siciliano
(Avvocato del Foro di Cosenza)





E’ da poco passata la ricorrenza della liberazione e dell’inizio del nuovo cammino democratico dell’Italia consacrato nella Costituzione Repubblicana.

Di tale appuntamento, in una “nuova e peculiare” rappresentazione mediatica si ricordano i messaggi a reti unificate delle più alte cariche dello Stato e, la ricorrenza, in entrambi della rivendicazione del valore della lotta per la libertà del popolo italiano. In uno con i valori della resistenza sono stati richiamati i valori fondanti di quella lotta per la liberazione consacrati poi, si è detto, nella Costituzione.

E’ sempre di questi giorni una nuova battaglia, si dice, in difesa, proprio della Costituzione Repubblicana, dei deputati e senatori del Popolo della Libertà e con essi del Ministro AlFano.

Il Ministro e i predetti legislatori del Popolo della Libertà e della Lega Nord stanno, infatti, conducendo una epica battaglia in difesa dell’art. 15 della Costituzione Repubblicana.

Proprio il Ministro in alcuni dibattiti televisivi ha spiegato la necessità, in difesa della libertà consacrata nell’art. 15 Cost., della nuova legge sulle intercettazioni telefoniche.

La nuova legge si apprende dovrebbe limitare l’uso eccessivo delle intercettazioni telefoniche ed ambientali, disposte oggi dal potere inquirente, che finiscono per attentare alla Costituzione ed ai diritti ivi consacrati.

Posta quindi sul piano giuridico la questione si tratta di capire, sempre da giurista per caso, cosa e in che modo, effettivamente, sia tutelato dall’art. 15 della Costituzione.

Prima di addentrarci in tale tentativo di spiegazione, giova ribadire, che la Carta Costituzionale và, ovviamente letta, in un’ottica di Padri Costituenti che, attraverso molte previsioni, tendevano a stabilire e tutelare diritti dei cittadini e potestà dei pubblici poteri in contrapposizione agli anni della scelta dittatoriale del ventennio fascista.

L’art 15 della Costituzione, richiamato quale faro della battaglia in difesa della Costituzione non del popolo viola ma del popolo della libertà, prevede espressamente “La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’Autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”.

Ogni avveduto costituzionalista, a proposito delle origini di tale diritto ha avuto modo di osservare che un primo riconoscimento si è avuto a seguito della rivoluzione francese quando l’Assemblea Nazionale nel 1790 proclamò l’inviolabilità della libertà di corrispondenza, riconoscendo così ad essa una garanzia anche nei confronti di ingerenze da parte dei pubblici poteri. In commento all’art. 15 della Costituzione, può dirsi, che essa libertà e segretezza della corrispondenza (intendendo per questa ogni forma di comunicazione anche, ovviamente, più moderna dal punto di vista tecnologico: telefono, posta elettronica, messaggistica, p2p) è consacrato quale diritto inviolabile dell’individuo (cittadino, straniero, apolide) ricavabile espressamente dall’art. 2 della Costituzione.

Allo stesso modo, può dirsi, che la libertà in esame (la quale tutela i modi attraverso cui la persona si pone in relazione con altri soggetti) rappresenta, al pari della libertà domiciliare garantita dall’art. 14, “un ampliamento e una precisazione del fondamentale principio di inviolabilità della persona umana sanzionato dall’articolo 13 Cost.”, “l’una garantendo alla persona un certo ambito spaziale, l’altra garantendo una delle forme più dirette ed immediate di collegamento della persona con il mondo esterno”.

Nonostante che la libertà di corrispondenza di cui all’art. 15 e quella di manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 abbiano la stessa natura, trattandosi in entrambi i casi di una comunicazione di idee e notizie da un soggetto a un altro, la diversa disciplina dettata dalle due norme comporta che la prima non possa essere considerata come una mera “sottospecie” della seconda.

La particolare tutela accordata dalla Costituzione alla libertà in esame riflette la sua appartenenza ai principi “supremi” sottratti alla revisione costituzionale (cfr Commentario Costituzione, UTET, Digesto Pubblicistico).

Diverso è il caso della previsione della possibile limitazione di tale libertà con atto motivato dell’autorità giudiziaria (i Padri Costituenti e molti costituzionalisti sottolineano l’assoluta garanzia che la Costituzione ha voluto offrire a tale libertà rispetto a quella personale - art. 13 Cost. - e di domicilio – art. 14 Cost. - atteso che per la libertà della corrispondenza non è in alcun modo previsto un intervento autonomo e preventivo della polizia essendovi una riserva assoluta a favore della giurisdizione e della legge quanto alle ipotesi in cui la giurisdizione può limitarla).

La Costituzione, quindi, prevede un solo potere dello Stato (va detto che gli organi di polizia quando non agiscono su mandato dell’autorità giudiziaria - Polizia Giudiziaria - agiscono quale Polizia Amministrativa espressione cioè dell’Amministrazione dello Stato – Governo) quello Giudiziario quale potere legittimato, con atto motivato, a limitare la libertà e la segretezza della corrispondenza.

E su tale possibilità la Corte Costituzionale – unico organo deputato a valutare la coerenza tra la legge ordinaria e la Costituzione – chiamata a decidere su norme del Codice di Procedura penale in tema di intercettazioni e acquisizione di tabulati, ha avuto modo di affermare che «nell’art. 15 della Costituzione “trovano protezione due distinti interessi: quello inerente alla libertà e alla segretezza delle comunicazioni, riconosciuto come connaturale ai diritti della personalità definiti inviolabili dall’art. 2 della Costituzione, e quello connesso all’esigenza di prevenire e reprimere i reati, vale a dire ad un bene anch’esso oggetto di protezione costituzionale” (v. anche sent. n. 120 del 1975, sent. n. 98 del 1976, sent. n. 223 del 1987, sent. n. 366 del 1991). L’art. 266 c.p.p. e, più in generale, le disposizioni contenute nel capo quarto, del titolo terzo, libro terzo, del codice di procedura penale costituiscono un’attuazione per via legislativa dei predetti principi, che, al pari delle norme similari previste nel codice di rito previgente, stabilisce una disciplina complessiva delle intercettazioni telefoniche in relazione ai poteri d’indagine a fini di repressione penale e alla loro utilizzabilità come mezzi di prova in giudizio. Più precisamente le anzidette disposizioni stabiliscono i li miti di ammissibilità delle intercettazioni telefoniche (art. 266 cod. proc. pen.), i presupposti e le forme dei provvedimenti che ne dispongono l’effettuazione (art. 267 cod. proc. pen.), lo svolgimento puntuale delle conseguenti operazioni (art. 268 cod. proc. pen.), i modi e i limiti di conservazione della documentazione delle intercettazioni stesse (art. 269 cod. proc. pen.) e, infine, l’utilizzabilità di queste ultime in altri procedimenti e i relativi divieti (artt. 270 e 271 cod. proc. pen.). Le speciali garanzie previste dalle norme appena ricordate a tutela della segretezza e della libertà di comunicazione telefonica rispondono all’esigenza costituzionale per la quale l’inderogabile dovere di prevenire e di reprimere reati deve essere svolto nel più assoluto rispetto di particolari cautele dirette a tutelare un bene, l’inviolabilità della segretezza e della libertà delle comunicazioni, strettamente connesso alla protezione del nucleo essenziale della dignità umana e al pieno sviluppo della personalità nelle formazioni sociali (art. 2 della Costituzione). In altri termini, il particolare rigore delle garanzie previste dalle disposizioni prima citate intende far fronte alla formidabile capacità intrusiva posseduta dai mezzi tecnici usualmente adoperati per l’intercettazione delle comunicazioni telefoniche, al fine di salvaguardare l’inviolabile dignità dell’uomo da irreversibili e irrimediabili lesioni ……………. Ferma restando la libertà del legislatore di stabilire più specifiche norme di attuazione dei predetti principi costituzionali, il livello minimo di garanzie appena ricordato - che esige con norma precettiva tanto il rispetto di requisiti soggettivi di validità in ordine agli interventi nella sfera privata relativa alla libertà di comunicazione (atto dell’autorità giudiziaria, sia questa il pubblico ministero, il giudice per le indagini preliminari o il giudice del dibattimento), quanto il rispetto di requisiti oggettivi (sussistenza e adeguatezza della motivazione in relazione ai fini probatori concretamente perseguiti) - pone un parametro di validità che spetta al giudice a quo applicare direttamente al caso di specie, al fine di valutare se l’acquisizione in giudizio del tabulato, contenente l’indicazione dei riferimenti soggettivi, temporali e spaziali delle comunicazioni telefoniche intercorse, possa essere considerata legittima e, quindi, ammissibile ...» (cfr Corte cost., 11/03/1993 n. 81).

La questione, appena accennata, sembra quindi potersi meglio inquadrare, da giurista per caso, nel quadro dei precetti Costituzionali, dei diritti da tutelare e nelle libere scelte del legislatore.

L’art. 15 Cost non attiene precipuamente alla privacy (rectius: riservatezza) dei cittadini essendo questa regolata e riconosciuta unanimemente dall’art. 2 Cost, né, tantomeno, le intercettazioni telefoniche ed ambientali disposte, oggi, sulla base delle norme del codice di procedura penale, costituiscono una violazione dell’art. 15 Cost atteso che, esso, prevede espressamente quel potere della giurisdizione.

Le modalità ed i limiti con cui l’autorità giudiziaria può disporre limitazioni della liberta e segretezza della corrispondenza (intercettazioni) possono legittimamente essere determinati dal legislatore il quale ben può delimitare i casi e la durata delle stesse.

Ciò facendo, tuttavia, il legislatore non muta in alcun modo la previsione costituzionale di riserva della giurisdizione quanto, invece, stabilisce un bilanciamento “tra due distinti interessi: quello inerente alla libertà e alla segretezza delle comunicazioni, riconosciuto come connaturale ai diritti della personalità definiti inviolabili dall’art. 2 della Costituzione, e quello connesso all’esigenza di prevenire e reprimere i reati, vale a dire ad un bene anch’esso oggetto di protezione costituzionale” (v. anche sent. n. 120 del 1975, sent. n. 98 del 1976, sent. n. 223 del 1987, sent. n. 366 del 1991) (Corte Costituzionale) e, allo stesso modo, compie scelte di politica criminale comprimendo, ovvero dilatando, un metodo di indagine del potere giudiziario – unico potere diverso dalla polizia che già oggi non può autonomamente intercettare – nella scoperta e repressione dei reati.

Il Popolo Viola, insomma, può tirare un sospiro di sollievo nessuna difesa della Carta da parte del Popolo della Libertà e del Ministro ma legittimo esercizio del potere legislativo con le sue scelte nel bilanciamento degli interessi: circoscrizione di alcuni strumenti di indagine e più riservatezza per i cittadini, tutela, tuttavia, non estesa ad atti della vita privata (baci storie d’amori e paparazzi) ma ad intrusioni nella riservatezza che derivano da indagini tese all’accertamento di reati penali.




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